Ritratti in letteratura

Pubblichiamo, ringraziando gli autori e l’editore, un estratto da “Ritratti in letteratura”, uscita che inaugura l’attività della casa editrice Ampère Books. Il volume, disponibile in digitale e in cartaceo su prenotazione, è curato da Alessandro Mazzi e Matteo Moca e contiene tre conversazioni: Emanuele Trevi parla del suo romanzo “Due vite”, di letteratura, della scrittura e del metodo con Giuseppe Russo, Nicola Lagioia dialoga con Matteo Moca sul male e su come questo può essere raccontato dalla letteratura a partire dal suo romanzo “La città dei vivi” mentre Tiziano Cancelli e Andrea Zanni discutono di Roberto Calasso e della sua opera come scrittore ed editore con Elena Sbrojavacca, autrice di “Letteratura assoluta”. L’estratto che segue è tratto dal dialogo tra Trevi e Russo

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Giuseppe Russo: È opinione diffusa che sia impossibile definire un canone letterario della contemporaneità, perché il giudizio sul valore letterario di un’opera è generalmente destinato ai posteri. Lo stesso vale per il fondo di verità di un testo, poiché la sua verità storica muta a seconda dell’epoca nella quale questa viene interpretata. Esiste un carattere della verità di un’opera d’arte che potremmo definire in tal senso epocale. Si pensi a Caravaggio, trascurato a lungo nella storia dell’arte europea, oppure a Romain Gary, per citare un autore di Neri Pozza, che ha dovuto attendere mezzo secolo prima di ricevere la consacrazione all’arte. Tuttavia è possibile per un’opera, date rare eccezioni, esprimere lo spirito del presente e rientrare a pieno titolo nel canone attuale. L’opera complessiva di Emanuele Trevi, pubblicata da Neri Pozza, Einaudi, Ponte alle Grazie, riprende compiutamente il contemporaneo e si lega a una tendenza in corso nota da qualche tempo nella sfera letteraria. Un fenomeno ben noto nella storia della letteratura; quando nel 1918 l’editore tedesco Fischer Verlag ricevette i libri di Thomas Mann, intrisi di verità storica, non ebbe dubbi sulla loro appartenenza al canone contemporaneo. Lo stesso accadde quando il filosofo Wittgenstein lesse le prime poesie del poeta austriaco Georg Trakl: sebbene non riuscisse a comprenderne ogni sfumatura, gli fu evidente che quei versi rispecchiavano la verità del proprio tempo. I giudizi sull’opus di Trevi seguono la stessa tipologia. Sandra Petrignani ha scritto per esempio che le pagine di Due vite sono «pagine essenziali e vere». Il perché dell’essenzialità non si trova però nella forma narrativa che l’autore adopera. Per Raffaele La Capria, Trevi è uno scrittore che applica un gioco delle idee, dei pensieri e delle memorie, mentre Roberto Cotroneo nota che si tratta di una prosa mista la quale slitta di continuo tra narrativa e saggistica, a voler relegare sullo sfondo la narrativa tradizionale. Domenico Starnone ha sostenuto che l’importanza delle pagine di Trevi risiede nella cancellazione della linea di demarcazione tra la resa del reale e l’immaginario, e dunque per lo scrittore si può parlare a pieno titolo di personaggi reali. Certo, la letteratura è sempre vissuta da personaggi reali. Quando Shakespeare compose i suoi sonetti si rivolse a persone realmente esistenti della società londinese, lo stesso è valso per la Commedia di Dante o anche per Giorgio Caproni, che nei suoi Versi livornesi scrisse la poesia Ultima preghiera citando la bicicletta di sua madre, «Anima mia, fa in fretta./Ti presto la bicicletta, ma corri». Tuttavia i personaggi presenti nella scrittura di Trevi mostrano una discussione sulla verità della letteratura odierna che differisce da questi casi. [La poesia di Caproni si trova nella raccolta poetica Il seme del piangere, risalente al 1959 e che valse al poeta il Premio Viareggio] Recentemente mi sono imbattuto in due opere rilevanti. La prima è I Melrose di Edward St Aubyn, una narrazione della decadenza dell’aristocrazia inglese alla quale l’autore apparteneva, libro dalla lingua straordinaria e dallo smisurato potere letterario. La seconda è un’opera di Camille de Toledo, Thésée, sa vie nouvelle, a lungo celebrata in Francia e intrisa della presenza biografica dell’autore, finalista a tutti i maggiori premi letterari francesi. Una linea presente da qualche tempo, segnata da figure quali Patrick Modiano ed Emmanuel Carrére. [Si può pensare per esempio ai romanzi di Modiano Via delle Botteghe Oscure e, soprattutto, a La Place de l’Étoile, libro che si presenta come romanzo autobiografico dell’ebreo Raphael Schlemilovitch in cui sono inseriti molti elementi che fanno parte della vita dell’autore. Anche in molti dei libri di Carrére si può rintracciare proprio la presenza della biografia dell’autore, più o meno filtrata dalla finzione romanzesca] Anche in Italia esistono libri dello stesso filone, è il caso di La città dei vivi di Nicola Lagioia. Come ha detto Irvin Yalom, sembrerebbe che la verità dei personaggi letterari divenuti reali sia la nostra stessa verità, perché essendo noi quei personaggi, essa ci coinvolge in un movimento interiore e simpatetico che suscita commozione. Qual è l’attualità di questa tendenza letteraria? Siamo davanti a una nuova frontiera della letteratura?

Emanuele Trevi: La direzione biografica intrapresa dal campo letterario in questi anni potrebbe richiamare alcune obiezioni e non sembrare particolarmente degna di attenzione. Dopotutto sono sempre esistiti scrittori autobiografici. Forse la tradizione letteraria europea comincia in senso moderno, senza dover rifarsi alle radici greche e latine, con le Confessioni di S. Agostino. Questo genere, nel modo in cui è praticato dagli scrittori contemporanei, costella un insieme di archetipi molto più vicini allo spirito del nostro tempo. È il caso de L’invenzione della solitudine di Paul Auster, libro tradotto in Italia nel 1982, il quale fonda lo stile della prosa oggi adoperata da questo nuovo filone. Nel suo romanzo Auster pone se stesso al centro della narrazione conservando il proprio nome e cognome, è la voce narrante in prima persona. All’interno dell’ardua convivenza con il figlio a seguito di un difficile divorzio, Auster costruisce una serie mirabile di ritratti genealogici della sua famiglia miscelati con riferimenti letterari sorprendenti che vanno dal poeta svevo Hölderlin al Pinocchio di Collodi. La principale obiezione nasce dal fatto che il termine autofiction usato per indicare questo tipo di prose ibride mantiene un equilibrio tra due componenti che sono di per sé contraddittorie, ossia l’autobiografia e la fiction. [Nel romanzo di Serge Doubrovsky Fils, ambiguo sin dal titolo traducibile infatti sia come «fili» che come «figlio», lo scrittore ha introdotto l’espressione “auto-fiction” proprio riferendosi al suo romanzo] Se l’autobiografia è un genere contraddistinto dal susseguirsi lineare di eventi disposti in ordine cronologico in cui non viene mai posto il problema di comprimere o dilatare i tempi del racconto, esemplari sono le Memorie d’oltretomba di François-René de Chateaubriand, al contrario nell’autofiction lo scrittore espande gli ordini temporali attingendo alla medesima consapevolezza del romanziere. [Memorie d’oltretomba è l’imponente autobiografia dello scrittore e soldato francese, nato nel 1768 e morto nel 1848, che restituisce in pieno il clima della Rivoluzione Francese, dell’epoca napoleonica e della restaurazione attraverso una narrazione che muove dall’infanzia per giungere alla vecchiaia] Da scrittore preferisco attribuire al romanzo il 95% di verità, introducendovi persone, circostanze e coincidenze che sono avvenute nella vita reale. Essendo dotato di scarsa capacità immaginativa, non potrei mai scrivere saghe immaginarie del calibro di Harry Potter o Il signore degli anelli, nonostante nutra per esse grande ammirazione. Per riuscire a raggiungere una struttura ottimale nel romanzo è bene comprimere la struttura cronologica dei suoi elementi significativi: risulta più efficace per la narrazione racchiudere in una singola estate eventi che si sono svolti nella realtà nell’arco di due anni. Non bisogna dimenticare che la scrittura è un dispositivo rivolto alla capacità di suscitare l’immaginazione del lettore, anche a costo di deformazioni del dato di partenza del reale. Questo è l’assunto centrale dell’autofiction. All’inizio della Recherche, Proust scrive che la cosa più importante e più dolorosa della vita umana è che il cuore umano cambia, ma il trascorrere del tempo non è immediatamente percepibile nell’esperienza. All’epoca non si conosceva ancora la fotografia time lapse, ma lo strumento fotografico offre un ottimo esempio. Per l’occhio umano non è possibile vedere in un’unica sessione continua lo sbocciare di un fiore, perciò ricorre alla videocamera per manipolare il tempo di una ripresa e percepirne la continuità; similmente per Proust il romanziere accelera o rallenta i tempi significativi della vita per renderli percepibili. Questo potere non è insito nella scrittura autobiografica, perché a questa interessa solo stabilire un rapporto tra l’esperienza e la scrittura. L’autore autobiografico non adopera le tecniche del romanziere, ovvero non sente la necessità di far esplodere la propria esperienza nell’immaginazione del lettore. Per poter instillare l’immagine nel lettore è indispensabile mantenere un piede nella verità e uno nella finzione.

Giuseppe Russo: Credi che esistano ragioni storiche più profonde nell’emergere attuale dell’autofiction? Volendo discostarsi da esempi quali la saga di Harry Potter, considerabili come grandi opere d’intrattenimento, nella storia della letteratura sono esistite opere letterarie di grande importanza incorniciate da ciò che i francesi definiscono recette mythologique, ricetta mitologica, riferendosi ai grandi racconti animati da strutture mitiche che hanno attraversato il corso dei secoli. Difficile concepire Dickens senza la sua visione del mondo fondata sul mito dell’emancipazione delle classi lavoratrici e l’avvento della società industriale. La nostra epoca è caratterizzata dal tramonto delle grandi narrazioni mitologiche, comprese quelle che hanno animato la storia della letteratura italiana lungo tutto il Novecento. Non avendo più alle spalle un retroterra collettivo può sembrare irrilevante affrontare la vita delle persone reali, benché con le armi della fiction, perché quest’ultima risulta più vera, franca, onesta, legata a una questione cardine che si dipana da cima a fondo nella narrativa treviana, dalle prime opere alla serie di interpretazioni di autori novecenteschi, fino a giungere alla produzione odierna: l’irriducibilità dell’individuo e della singolarità, su cui la voce di Trevi insiste molto. Una considerazione che spinge a guardare sotto una nuova luce la storia letteraria del secolo scorso, rivalutando opere di autofiction come il romanzo Il male oscuro di Giuseppe Berto del 1964, o anche la scrittura di rilievo di Natalia Ginzburg. Da questo punto di vista Elsa Morante resta la più grande scrittrice del Novecento. La fine del suo celebre romanzo La Storia, in cui viene presentato un breve sommario dei maggiori avvenimenti storici dal 1948 al 1974, cita in sentore di epigrafe «e la storia continua». [Il romanzo La Storia di Elsa Morante si presenta come la denuncia dell’antica e sistematica sopraffazione perpetrata dal Potere ai danni dei deboli e così, l’elenco dei maggiori avvenimenti storici dei decenni successivi alla fine del romanzo non è che un ultimo grido di aiuto verso le vittime che vengono ignorate dalla Storia, «uno scandalo che dura diecimila anni»] Nonostante tutto, per l’autrice la storia si conferma ancora pervasa da quelle grandi narrazioni che sembravano invece al tramonto negli stessi anni in cui scrisse il libro.

Emanuele Trevi: Solo il futuro può dire se questi mutamenti nella sensibilità epocale siano reversibili o meno, anche se è possibile affermare che si mostrano in evidenza nel passaggio di testimone tra le generazioni. Sono onorato di far parte dello stesso catalogo in cui presenzia Roman Gary, citato in precedenza. Percepisco un varco abissale tra un uomo di inizio Novecento come lui e di tardo Novecento come me, differenze che riguardano il mondo della vita, il rapporto con il femminile, l’esistenza animale, incluse altre presenze di superficie. Di fronte alla sua opera sento il richiamo di una mitologia diffusa, non intesa come citazione del mito, ma sostrato fondante l’intelligibilità della vita dentro una collettività, in guisa di una religione. È il caso di una civiltà che si riconobbe nella storia di Edipo raccontata da Sofocle perché un medico viennese a inizio XX secolo riportò l’esistenza del complesso di Edipo. [Si vedano per esempio i Tre saggi sulla teoria sessuale e Totem e tabù di Sigmund Freud dove emerge come lo psicoanalista viennese considerasse questa organizzazione psicoaffettiva alla base della vita psichica degli uomini. Questa teoria è stata poi al centro di dibattiti, sviluppi e critiche nel corso dei decenni successivi, per esempio nell’opera dello psicoanalista Jacques Lacan o negli studi di Gilles Deleuze e Félix Guattari culminati nel saggio L’Anti-Edipo] Al contrario, attualmente è presente una polverizzazione degli schemi di intelligibilità comuni. Dubito che la metafora edipica di Freud oggigiorno avrebbe avuto la stessa eco, a prescindere dalla solita scusa per cui una volta esisteva una preparazione scolastica migliore. La memoria culturale palpita seguendo sistole e diastole, perciò non è possibile sapere con certezza il perché di una certa predisposizione. Se dovessimo identificare nel tempo un mito al quale tutti ci riferiamo più o meno consapevolmente, sarebbe il mito di Narciso. All’esaurirsi del mito di Edipo corrisponde una costellazione emersiva narcisistica molto più pericolosa di quella edipica. L’archetipo di Narciso racchiude l’idea che ogni individuo riassuma in sé la storia del mondo, e quindi in qualche maniera che ciascuno debba inventare la propria storia ad ogni nuova vita. Viene a crearsi un tasso di arbitrarietà difficile da scavalcare. A ciò si lega la convinzione che la letteratura intesa in senso moderno, da Poe a De Nerval, dai grandi autori tedeschi del periodo romantico in poi, sia diversa dalla letteratura antica. Quest’ultima ha posseduto nei secoli un valore informativo ed è stata il veicolo privilegiato delle conoscenze antiche: Marco Polo ha offerto per anni l’unica fonte europea di conoscenza sull’estremo oriente, la scienza di Epicuro e l’atomismo sono stati affidati per secoli alla lettera di Lucrezio. [Il riferimento qui è al Milione di Marco Polo e al De Rerum Natura del poeta latino] Al sopraggiungere della modernità, i diversi saperi hanno acquisito una propria peculiare autonomia distaccandosi dal mezzo letterario. La letteratura dissanguata dei saperi ha potuto preservare solo la natura lirica dello scritto, cioè la reazione soggettiva dell’individuo alla pressione del mondo, euforizzante o deprimente a seconda dei casi in base alle strategie impiegate per trasformare l’esteriorità in interiorità. La presenza di un’idea politica in Omero o di una prosa ispirata in Montesquieu, uno dei più grandi filosofi del diritto del Settecento, non ci disturba perché la letteratura al tempo si faceva carico di qualsiasi forma di sapere. Oggi si concepisce la letteratura come una scienza folle dell’individuo in cui il singolo è misura di tutte le cose. Questo ruolo è inevitabile ma al contempo prezioso, dato che i saperi sono per loro natura impersonali, perciò il residuo della soggettività può annidarsi giocoforza solo nella letteratura. Nella sfera letteraria considero il generale fuori luogo. Mi ha stupito la polemica di un anno fa riguardo chi fosse più idoneo a tradurre la poesia The Hill We Climb di Amanda Gorman, per la quale provo intensa simpatia e che ho ascoltato rasserenato dalla fine del mandato presidenziale di un mostro come Trump. [La traduzione della poesia di Gorman, declamata in occasione dell’Inauguration Day del Presidente Joe Biden, è saltata agli onori delle cronache quando l’editore americano si rifiutò di far tradurre la poesia a Victor Obiols perché maschio e bianco] Al di là dell’importanza politica della declamazione, il testo poetico risulta manchevole perché è un manifesto collettivo che delude il senso moderno dell’esperienza poetica, la partecipazione della persona all’espressione lirica del proprio pensiero. Risulta arduo pronunciare il “noi” nella letteratura moderna senza incappare nella retorica. Dal XIX secolo in poi abbiamo compreso che l’informazione o l’opinione che la letteratura veicola è pesantemente filtrata dall’inaffidabilità del soggetto, perciò qualora il testo volesse ritrarre la realtà, dovrebbe sempre presupporre una visione parziale o falsata dall’autore. Un processo ricalcato dai terribili paradossi della letteratura novecentesca, come le abominevoli idee antisemite di Céline che si scontrano con la grandezza del suo stile. [Louis Ferdinand Destouches, più noto poi con il cognome del ramo materno della sua famiglia, Céline, ebbe una vita inquieta e segnata da contraddizioni che hanno reso sempre problematica la considerazione della sua opera, in particolare per alcune sue posizioni filonaziste e antisemite. Ecco allora che quando il lettore si imbatte nelle pagine travolgenti di Voyage au bout de la nuit o di Mort à crédit si potrà trovare in uno stato di confusione non indifferente: si sta leggendo uno dei più grandi scrittori del Novecento, Louis Ferdinand Céline, o l’autore di pamphlet antisemiti come Bagatelles pour un massacre o L’École des cadavres Louis-Ferdinand Destouches?] Si tratta di un prezzo da pagare per via del fatto che la letteratura non esprime più le idee di una collettività di qualsiasi natura, politica, scientifica, religiosa, ma si concentra piuttosto in un misticismo individuale.

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