The boyfriend, un racconto di Giulia Sara Miori
di Giulia Sara Miori
Quando si avvicinava il Natale, Elisa se ne accorgeva subito perché l’eczema disidrosico faceva la sua comparsa sui polpastrelli delle mani e sull’alluce del piede destro. Era così da anni: verso metà novembre, insieme agli addobbi nelle vetrine, iniziavano a spuntare le prime bollicine bianche; all’inizio erano minuscole, quasi invisibili, ma col passare delle settimane si ingrandivano e formavano dei piccoli grappoli giallognoli che le causavano un prurito insopportabile. Infine, la pelle si squamava completamente e diventava rossa e dura al tatto come un callo, per poi ricominciare a riempirsi bollicine pruriginose e gonfie, in un ciclo continuo che durava per tutte le feste e che le dava tregua solo all’inizio dell’anno nuovo. Aveva provato diverse pomate cortisoniche, altre a base di aloe vero, altre ancora a base di catrame, ma nessuna di queste le aveva procurato il minimo sollievo. E così il dermatologo che la seguiva si era arreso, e aveva attribuito le cause dell’eczema allo stress, consigliandole di idratare bene la pelle e di affidarsi a qualche santo. Più che di una cura, secondo Elisa si trattava di stregoneria, o nella migliore delle ipotesi di una perdita di tempo e di denaro.
A ogni modo, anche quell’anno il Natale si avvicinava pericolosamente, e col Natale si era inaugurata la stagione dell’eczema. Sua madre si dava da fare con tutti i preparativi, compreso l’albero, che a Milano per tradizione si allestiva a Sant’Ambrogio: ma lei era originaria del sud, e delle tradizioni milanesi se ne infischiava; così, non solo l’albero l’aveva già montato e addobbato, ma aveva anche speso un sacco di soldi in candele profumate, stelle di Natale, decorazioni appariscenti e altre trovate di cattivo gusto. Questo non faceva che aumentare l’ansia di Elisa, che era costretta a indossare dei guanti di lattice per non grattarsi i polpastrelli e per evitare di toccare superfici e detergenti di qualsiasi tipo. Cosa vuoi che sia, diceva sua madre mentre sfogliava riviste di cucina francesi alla ricerca di un menu all’altezza delle aspettative; cosa vuoi che sia: è solo un po’ di stress. Se avesse potuto, Elisa avrebbe tirato avanti le lancette dell’orologio fino ad arrivare al due di gennaio, una data che tutti detestavano ma che lei adorava. Di solito, la situazione precipitava durante il pranzo del venticinque: se infatti la sera della Vigilia la trascorrevano soltanto con sua sorella e il marito, a pranzo sua madre faceva le cose in grande, e invitava anche la suocera, gli zii, i cugini, le fidanzate e i fidanzati dei cugini, e tutte le persone che le saltavano in mente. Di solito, Elisa si teneva alla larga da qualsiasi discorso, e si sforzava di diventare invisibile; oppure, se suo malgrado veniva coinvolta in una conversazione sgradita, cercava di guidarla in modo che non saltassero fuori domande inaspettate. Per fare sì che i discorsi si concentrassero sul problema principale invece che su tutti gli altri, teneva in bella vista i guanti, e alla prima occasione si metteva a raccontare per filo e per segno i sintomi dell’eczema, elencando a uno a uno tutti gli unguenti che le erano stati proposti. Si metteva a disquisire di dermatologia e di malattie psicosomatiche, e alla fine saltava sempre fuori qualche parente o amico che soffriva proprio della stessa forma di eczema (eczema disidrosico, proprio quello), e che dopo lunghi pellegrinaggi aveva trovato l’esperto in grado di risolvere il problema. Tuttavia, sebbene le conversazioni finissero quasi sempre per girare intorno alla questione dell’eczema, ogni tanto qualcuno si ribellava, e se ne usciva con qualche domanda sul lavoro o sulla vita sentimentale di Elisa: argomenti che andavano toccati di sfuggita e solo se strettamente necessario, ma a cui tuttavia bisognava pur trovare una risposta. Quale che fosse la domanda, comunque, la conversazione andava riportata il più in fretta possibile entro i binari abituali: se per esempio qualcuno le avesse chiesto del lavoro, Elisa avrebbe detto che sì, era stata licenziata, ma che tuttavia la cosa più importante rimaneva pur sempre la salute. Del resto, lo stress del licenziamento aveva influito negativamente su di lei, e quindi prima di tutto era necessario curare l’eczema. Per caso, conoscevano qualche esperto cui affidarsi? E se sì, in quale ospedale? Riceveva anche privatamente? Questa era la strategia, ed Elisa non faceva altro che studiarla nei minimi dettagli per poi applicarla con dovizia.
Il giorno tanto temuto arrivò, come sempre arrivano tutti i giorni: quelli desiderati e quelli detestati. La tavola era apparecchiata come si deve: con la tovaglia rossa, le candele, il centrotavola fatto a mano, le decorazioni di pino e di agrifoglio, le posate d’argento, i bicchieri e i sottobicchieri, i vasi e i sottovasi, i calici per il vino, le flûte per lo spumante, il servizio di porcellana delle feste che durante il resto dell’anno rimaneva a prendere polvere nella credenza del salotto. La madre di Elisa andava avanti e indietro dalla cucina, spostava vasi e soprammobili, spolverava superfici, apriva il forno e lo richiudeva, distribuiva gli antipasti sul piatto da portata, dava ordini e direttive a tutti. Suo padre si limitava a leggere il giornale sul divano e a sgranocchiare qualche grissino, spostandosi su una sedia a caso o sul letto o in bagno ogni volta che la moglie gli ordinava di alzarsi e di fare qualcosa.
Elisa si era messa un abito di velluto nero che le tirava un po’ sotto il seno ma che la faceva sembrare più magra, e poi si era tolta gli occhiali per mettersi le lenti a contatto, come le aveva ordinato sua madre. Anche se non aveva nessuna voglia di vestirsi bene, preferiva evitare ogni motivo di attrito e di scontro, adattandosi come un camaleonte alle aspettative altrui: era il suo modo per sopravvivere, e di certo in questo modo non avrebbe attirato l’attenzione se non dove voleva lei, ovvero sui guanti di lattice che non toglieva quasi mai.
Il campanello suonò e i primi ospiti entrarono in processione: baciavano sua madre, consegnavano mazzi di fiori, bottiglie di vino e panettoni artigianali, stringevano la mano a suo padre, si complimentavano per la bellezza delle decorazioni e della tavola, consegnavano i cappotti, leggevano i nomi sui segnaposti e si accomodavano di conseguenza. La padrona di casa ostentava un sorriso radioso, e mentre continuava a fare la spola tra la cucina e il salotto, scambiava gli auguri e qualche parola di circostanza con gli ospiti.
Dio mio, pensò Elisa mentre cercava di grattarsi le dita attraverso i guanti. Il prurito era aumentato. Che fare? Togliersi i guanti e grattarsi fino a sanguinare? No, doveva resistere, resistere a tutti i costi. Mangiare, ingozzarsi di cibo, sorridere. Resistere alle domande, agli sguardi. Resistere al prurito. Non pensarci. Se solo avesse avuto un po’ di coraggio, allora sì che avrebbe reagito. Chissà che faccia avrebbe fatto sua madre. Si sarebbe presentata lì, fasciata in un abito verde, ossuta come non era mai stata, i capelli tinti di biondo, le labbra color cremisi. Avrebbe sorriso, avrebbe baciato sua madre, sarebbe andata incontro a sua sorella. Poi, poco prima che arrivassero gli antipasti, avrebbe aperto il fuoco: sua madre, prima di tutto; poi sua sorella; infine gli altri. Il sangue avrebbe imbrattato i muri e la tovaglia. I vicini sarebbero accorsi, attirati dagli spari. Avrebbero chiamato la polizia, l’avrebbero arrestata, sarebbe finita su tutti i giornali.
Furono serviti gli antipasti e i primi bicchieri di prosecco e poi il vino, ed Elisa permetteva docilmente che il suo bicchiere fosse riempito in continuazione: quando beveva, il prurito diminuiva, e insieme al prurito anche l’angoscia. Quando ebbero terminato gli antipasti, era già brilla; quando sua sorella fece l’annuncio era totalmente ubriaca.
«Aspetto un bambino» disse sua sorella.
Gli ospiti si lasciarono andare a esclamazioni di gioia e brindarono al bambino in arrivo, poi continuarono a mangiare e a chiacchierare a voce alta, finché, proprio nel momento in cui la musica si era interrotta, la madre si voltò verso Elisa e disse:
«E tu? Quando ti decidi a trovare un fidanzato?»
Lei impietrì.
Quando ebbe alzato lo sguardo, gli occhi dei presenti parevano delle bocche spalancate pronte a divorarla. Ebbe paura, e allora, quasi sussurrando, disse:
«Veramente un fidanzato ce l’ho già.»
Non appena ebbe pronunciate queste parole, si pentì di averlo fatto. Aveva esagerato col vino, su questo non c’era alcun dubbio. Che cosa avrebbe detto, ora? Gli ospiti la fissavano come si guardano i fenomeni da baraccone: con un misto di curiosità e disprezzo.
«Ma come?» disse sua madre. «Sei fidanzata e non dici niente?»
«Vorrei proprio vederlo, questo fidanzato segreto» fece la sorella.
Tutti scoppiarono a ridere e alzarono i calici di vino e brindarono e fecero le congratulazioni e risero e risero e risero, e il prurito alle dita si fece insopportabile, ed Elisa si sarebbe strappata via i guanti se avesse potuto, se li sarebbe strappati via e insieme ai guanti si sarebbe strappata via anche la pelle, l’avrebbe scorticata finché non sarebbero rimaste le dita nude. Se solo avesse potuto, ma non poteva. Allora rise, anche lei, rise più forte di tutti gli altri, finché quell’orribile farsa finì e gli ospiti se ne andarono e lei rimase da sola con i suoi genitori in mezzo alle rovine.
«Ma insomma, si può sapere chi è questo fidanzato?» domandò sua madre.
«È un ragazzo» rispose Elisa.
«Vorrei ben vedere» disse suo padre. «Anche se di questi tempi non si può mai dire. Ma cosa fa?»
«Lavora.»
«E che lavoro fa?» fece lui un po’ spazientito.
«L’avvocato.»
«Ah! Penalista?»
«No.»
«Civilista?»
«Divorzista» disse Elisa.
«Ahi ahi» fece sua madre ridendo allegramente, «allora bisogna fare attenzione.»
«E come si chiama?» insisté suo padre.
«Edoardo.»
«Bel nome» disse sua madre. «E com’è? Alto?»
«Piantala, Annamaria» la rimbeccò lui.
«Cosa c’è di male?»
«È carino, sì.»
«Ma allora bisogna assolutamente invitarlo» fece sua madre.
«Non è mica obbligatorio» commentò suo padre un po’ a bassa voce.
«Come no? Non vorrai mica fare brutte figure…»
«Beh, no, ma…»
«Ma scusa, Elisa, perché non hai detto nulla?» domandò sua madre. «L’avremmo invitato a Natale, o almeno a Santo Stefano.»
«Non cominciare, Annamaria.»
«Lo invitiamo il ventisette o il ventotto, che dici? Elisa, pensi che potrebbe venire, il ventisette o il ventotto?»
«Non saprei.»
«Beh, chiediglielo, no?»
Elisa fece di sì con la testa. Avrebbe voluto dire che no, Edoardo non poteva venire né il ventisette né il ventotto né mai, ma ancora una volta le parole le uscirono di bocca senza controllo, e ancora una volta le venne voglia di strapparsi la pelle: stavolta non solo quella dei polpastrelli ma tutta, la pelle delle braccia e delle gambe e della faccia, così finalmente l’avrebbero vista davvero, l’avrebbero vista dentro, la figlia-mostro che non sapevano di avere.
E alla fine arrivò, anche la sera della cena arrivò, ed Elisa capì che il pranzo di Natale non era stato niente, proprio niente in confronto a quello che l’aspettava adesso, e maledisse il momento in cui aveva aperto bocca, e si grattò le dita, e l’eczema era peggiorato spaventosamente, perché ora le bollicine si estese fino alle pieghe delle dita e dei piedi, tanto che ormai non c’era più un pezzetto di pelle che fosse normale.
La cena era pronta. La casa profumava di arrosto e la tavola era apparecchiata alla perfezione, come a Natale, anzi meglio, ancora meglio, e tutta la famiglia era riunita come usa nei momenti di festa: suo padre e sua madre e capotavola, la sorella e il marito sul lato della parete. Si fecero le otto, le otto e mezza, le otto e quaranta, ma del fidanzato non c’era traccia. Nella stanza scese un silenzio gelido.
«Ma insomma» fece la sorella seccata. «Arriva o no?»
«Appunto» le fece eco il padre. «Io avrei anche un certo appetito.»
La voce di Elisa uscì distorta, simile a quella di una bambola meccanica: «Ha… ha avuto un problema.»
«Che problema?» fece sua madre.
Ma proprio in quell’istante il campanello suonò.
«Chi è?» si lasciò sfuggire Elisa.
«Ma chi vuoi che sia?» fece sua madre mentre si alzava per andare ad aprire. «Sarà lui, no?»
Elisa ammutolì. Mentre il cuore le accelerava, uno strano pensiero le attraversò la mente: E se fosse davvero lui? No, no, era impossibile. Che diavolo le era saltato in mente? Era forse ubriaca? Ubriaca, sì, non c’era altra spiegazione.
Dal corridoio, si sentirono dei passi e delle voci maschili. Dopo alcuni secondi, arrivarono suo padre e il ragazzo. Il ragazzo era alto e moro, la mandibola pronunciata, i denti bianchissimi. Indossava un cappotto di cammello e una sciarpa blu. La sciarpa doveva essere di cashmere. In ogni caso, si vedeva che era di ottima fattura, e del resto anche il cappotto era abbastanza elegante.
«Scusate il ritardo» disse il ragazzo con semplicità. «Mi sono dovuto trattenere in studio più del previsto.»
Il padre appoggiò sul tavolo una bottiglia.
«È Moët & Chandon» disse sorridendo.
Tutti si alzarono e si presentarono, tra grandi sorrisi. Il ragazzo si avvicinò a Elisa, che era rimasta seduta e se ne stava come pietrificata, e le diede un bacio sulle labbra: un bacio innocente, appena accennato. Eppure, lei non poté trattenere un fremito.
«Dammi pure il cappotto» disse la madre scandendo bene le sillabe in modo che non trapelasse la sua lieve cadenza meridionale. «La mangi la carne? Non sarai mica vegetariano anche tu?» e lanciò un’occhiataccia a Elisa, che nel frattempo non aveva detto una parola e se ne stava muta a osservare.
«No, signora: quand’ero in Cina, ho mangiato anche gli spiedini di scorpioni, e devo ammettere che erano discreti.»
Tutti risero stupiti, tranne Elisa. Il ragazzo si tolse il cappotto e la sciarpa e li diede alla madre, che sparì per qualche minuto. Poi, dopo che il padre gli ebbe fatto segno di accomodarsi, si mise a sedere accanto a Elisa.
«E così finalmente ti conosciamo» disse il padre. «Bianco o rosso?» e indicò le bottiglie aperte sul tavolo.
«Rosso» rispose il ragazzo.
Il padre versò il vino nel calice e glielo porse.
«È molto strano che mia sorella non ci abbia mai parlato di te» disse la sorella come se Elisa non fosse presente «Da quanto state insieme?»
«Da un anno» disse lui.
«Da un anno?»
Il ragazzo mostrò i suoi denti bianchissimi.
«Lo sapete com’è fatta» e si voltò a guardarla. «È molto riservata… forse anche troppo.»
Elisa era scura in volto: non si mosse; non parlò; non sorrise.
«E dimmi, Edoardo» fece la madre. «Come vi siete conosciuti?»
Il ragazzo sembrò esitare leggermente.
«Ci ha presentati Anna, l’amica di Elisa. Il suo fidanzato è il mio migliore amico dai tempi dell’università.»
«Ma pensa» disse il padre.
«Anna è una cara ragazza» fece la madre. «Seria, responsabile.»
«Non sapevo che fosse fidanzata» disse la sorella.
«Sì, da tre anni» rispose Elisa.
«Oh, finalmente parli. Pensavo ti avessero mangiato la lingua.»
«Magda, non essere cattiva» disse la madre. Poi si voltò verso il ragazzo.
«E dimmi, caro, dove lavori? Elisa ci ha detto che fai l’avvocato.»
«Sì, esatto. Ho lo studio in via Magenta.»
Un barlume di eccitazione le illuminò gli occhi: «Proprio in centro» fece tra sé e sé.
«Avvocato divorzista, no?» intervenne la sorella con un mezzo sorriso.
«Mi occupo di diritto di famiglia, sì.»
La sorella diede un’occhiata complice al marito.
«E quali sono le cause più frequenti di divorzio, secondo te?»
Il ragazzo si passò una mano sul mento, come per riflettere.
«Alla fine, sono sempre le stesse: ci si innamora di una persona pensando che possa durare tutta la vita, e poi arrivano i figli, e insieme ai figli la routine, e insieme alla routine… sì, insomma, ci si tradisce e alla fine non si litiga nemmeno più.»
«Interessante» disse la sorella. «Quindi finché si litiga…»
Suo marito scoppiò in una risata franca.
«Devo dire che io e Elisa non litighiamo praticamente mai» disse il ragazzo, e si girò verso di lei come per avere conferma.
Elisa arrossì e, con una certa riluttanza, fece di sì con la testa.
La serata trascorse tranquillamente. Furono servite quattro portate, tutte eccellenti, e alla fine presero il caffè anche se era passata la mezzanotte. Quando il ragazzo fece per andarsene, era quasi l’una. S’infilò il cappotto e la sciarpa, ringraziò per la magnifica serata, salutò tutti educatamente. Aveva anche aiutato a sparecchiare.
«Spero di rivederti presto» disse la madre.
«Naturalmente» rispose lui.
Il padre gli strinse la mano forse con troppa energia, il cognato gli diede una leggera pacca sulla spalla. La madre e la sorella lo baciarono sulle guance.
«Ti accompagno» disse Elisa.
Ma, quando furono sulla porta, lei non seppe cosa dire. Il ragazzo ruppe il silenzio.
«È stata una bella serata.»
«Sì» rispose, «una bella serata.»
Il ragazzo le fece un sorriso strano.
«Sei in macchina?» domandò lei prendendo coraggio.
«No, a piedi.»
«A piedi? E abiti qui vicino?»
«Qui vicino, sì.»
Il ragazzo indicò un punto nel buio: «Proprio al di là del ponte.»
«E pensi… dici che ci rivedremo?»
«Tu vuoi rivedermi?»
Elisa arrossì: «N-non saprei.»
Il ragazzo si fece serio.
«Togliti i guanti» disse a un tratto.
Lei lo guardò senza capire.
«I guanti» ripeté lui. «Voglio che tu te li tolga.»
Le pupille nere del ragazzo si erano fissate sulle sue mani senza alcuna discrezione.
Elisa vacillò. Le pareva una richiesta assurda, senza alcuna logica. Alzò lo sguardo su di lui. Il ragazzo annuì. Non voleva, eppure non ebbe la forza di contraddirlo. Prese un respiro profondo e lentamente si sfilò i guanti.
Quando sollevò la testa, il ragazzo non c’era più.
«Proprio in gamba, quell’Edoardo» disse sua madre mentre sistemava i piatti nella lavastoviglie. «È un peccato non averlo conosciuto prima.»
«Beh, cosa ti cambia?» domandò Elisa. «Ora lo conosci, mi pare.»
«Sì, ma…»
La madre s’interruppe di colpo.
«Cosa c’è?»
«Mi pareva che…»
«Cosa?»
«L’eczema…»
«Sì» fece Elisa con indifferenza. «Sai come sono queste cose: vanno e vengono.»
«Te lo sei messo tu, quello smalto?»
«Sì, io.»
«Mi sembra troppo rosso.»
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(Fonte immagine di copertina)