Una storia della fama o una storia della FOMO?

di Tommaso Ghezzi

Se osserviamo la carriera di Bon Jovi, salta subito all’occhio un elemento che lo distingue nettamente dalle altre superstar coeve, ovverosia le band hair rock della seconda metà degli anni ’80. Dopo straordinari successi come You Give Love a Bad Name (1986), Livin’ on a Prayer (1986), Bad Medicine (1988), e dopo una seconda fase nei primi anni ’90 con ballad come Bed of Roses (1992) e Always (1994), quando i trend discografici cominciavano già ad orientarsi nettamente verso altri sound, nel 2000 è tornato prepotentemente con una hit: It’s My Life. Questo brano ha raggiunto le vette delle classifiche internazionali (terzo singolo più venduto al mondo nel 2000, primo nella classifica europea per quattro settimane e nel 2021 ha superato il miliardo di visualizzazioni su YouTube) ed è entrato persino nei DJ set delle discoteche, nei montaggi televisivi e nelle selezioni musicali generaliste di tutto il mondo. È, di fatto, quello che si dice un evergreen. Ed è proprio It’s My Life a segnare la netta differenza tra Bon Jovi e gli altri protagonisti della stagione glam degli anni ‘80: Mötley Crüe, Cinderella, Scorpions, Poison e altri, che hanno finito per scomparire dai radar a causa di scandali, dipendenze, crolli psichici o semplicemente perché non sono riusciti a reggere il passo coi tempi.

Bon Jovi, invece, ha continuato a rinnovarsi, restando sempre visibile, costantemente presente nel panorama pop rock e mediatico. La hit che segna la sua riaffermazione in un mercato che si è lasciato alle spalle le estetiche che lo avevano caratterizzato agli esordi, contiene uno statement: I ain’t gonna be just a face in the crowd /…I ain’t gonna live forever, I just wanna live while I’m alive. A John Bon Jovi non interessa l’eternità, la fama non è più quella dei miti marmorei, delle statue e del nome che riecheggia nell’eternità. A Bon Jovi interessa essere presente, attuale, esserci, essere vivo, anche mentre tutto intorno cambia pelle. Bon Jovi non vuole apparire in declino fisico come Axl Rose o Nikki Sixx, Bon Jovi vuole ancora essere icona.

Ho aperto l’articolo con questo soft lead perché è ciò che mi è venuto in mente leggendo Storia della fama – genesi di otto miliardi di celebrità di Alessandro Lolli. Nel libro si compie un percorso che va dall’antichità fino ai giorni nostri, attraversando la storia della fama, dell’essere riconosciuti, dell’essere esposti allo sguardo dell’altro – anche di quell’altro che non ti ha mai incontrato, ma ti conosce.

Per sostenere il gancio iniziale relativo a John Bon Jovi, si può dire che in quella vicenda mediatica si nota la vera differenza tra la fama del nuovo millennio e quella del Novecento: i Mötley Crüe, i Cinderella o i Poison saranno forse ricordati per il loro ruolo centrale nell’immaginario glam degli anni ’80, ma la loro è una fama storica, quasi postuma. Bon Jovi, invece, ha fatto di tutto per mantenere viva non solo la propria immagine, ma la sua stessa fama: sempre sotto i riflettori, presente nelle cronache musicali e nel gossip (recentemente è riapparso nei media, non per motivi musicali ma perché suo figlio, Jake Bongiovi, ha sposato l’attrice britannica Millie Bobby Brown, nota per il ruolo di Undici nella serie Stranger Things).

Attraverso questo Storia della Fama, Lolli, come aveva già fatto nel 2018 con La Guerra dei Meme, ci parla di noi. Di ciò che siamo diventati in questi anni, attraverso lo specchio deformante dei social media e dei social network – che, come spiega lui stesso, non sono affatto la stessa cosa. Ci racconta dei palcoscenici da cui parliamo, della vergogna che proviamo nel cercare un applauso, nel segnalare la nostra virtù. Parla di come la fama, insieme alla densità crescente delle informazioni, abbia forse trasformato radicalmente il nostro immaginario e la nostra percezione del mondo.

Tra i comprimari del saggio spicca Andy Warhol, profeta pop che già negli anni Sessanta intravedeva la smaterializzazione della gloria. La sua massima – «in futuro ognuno sarà famoso in tutto il mondo per 15 minuti» – è il faro iperstizioso di Lolli: non un semplice slogan, ma la constatazione che basta una videocamera accesa perché chiunque diventi “divo”. Warhol aveva colto la novità tecnica decisiva: la facilità di filmare – il videomaking come pratica quotidiana – che trasforma l’anonimo in star, almeno per una manciata di minuti. (Curiosità: la frase è anche uno dei più celebri misquote di sempre, subito dopo «non sono d’accordo con quello che dici ma darei la vita…» e «il fine giustifica i mezzi», forse appena sopra «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo».)

C’è poi Hans-Georg Moeller con il quale Lolli analizza l’evoluzione dell’identità che dalle epoche premoderne, in cui l’identità era legata alla sincerità, cioè alla capacità di aderire ai ruoli sociali e religiosi prestabiliti, è passata poi con il romanticismo ad essere connessa all’autenticità, intesa come un’espressione dell’interiorità individuale e della ricerca del sé autentico. Oggi, nell’era digitale, Lolli, recuperando Moeller, ci parla di profilicità, in cui l’identità è costruita pubblicamente attraverso i profili sui social media, ed è definita dalla percezione degli altri. In sostanza, Moeller suggerisce che l’identità contemporanea è meno legata alla verità interiore e più alla gestione dell’immagine pubblica, influenzata dal feedback esterno. Ed è così che Lolli ci mette soprattutto in guardia dai rischi della seduzione della fama – che vediamo descritta a più riprese nella storia della letteratura mondiale come dea e come mostro – da cui ormai ci siamo lasciati divorare; ci ricorda che se Rousseau, duecentocinquant’anni fa, è impazzito per la paranoia e l’ossessione dell’essere famoso, allora è chiaro perché oggi stia impazzendo il mondo intero. Tutto questo è affrontato attraverso piccoli frammenti di realia, osservati dalla lente del narcisismo contemporaneo che ci ha ormai inghiottiti.

Il libro affronta quindi la fama come fenomenologia, un vero modulo di formazione cognitiva: non un accessorio della vita sociale, ma il medium che plasma il modo in cui pensiamo noi stessi. Dopo la parabola storico‑sociale – dalle teste degli imperatori sulle monete romane fino ai reality show e ai content‑creator – Lolli atterra sull’oggi senza impacchettare verità definitive; preferisce punzecchiare il lettore mettendolo di fronte a sé stesso, genera domande secche e scombussolanti: Se perfino chi ha “solo” mille follower dialoga con una platea smisurata (impensabile cinquant’anni fa, quando la posta viaggiava alla velocità del treno), che cosa accade alla psiche umana nel passaggio lampo dall’anonimato alla fama, per quanto relativa? Che succede quando la stessa persona è sommersa da un flusso illimitato di informazioni, continuo, privo di filtri? In un mondo di otto miliardi di potenziali celebrità, cosa resta di una star quando l’attenzione collettiva si spegne?

Vi ricordate Britney Spears nel 2007 (come cantava Mostro, insieme a Gemitaiz, in un fortunato pezzo del 2020)? Vi ricordate Norma Desmond?

Ecco, ci siamo capiti.

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