Un’altra legge è possibile. Su “La legge della fiducia” di Tommaso Greco
di Marco Rovelli
Sarà per l’Edipo che mi porto dentro, ma ho sempre percepito il Diritto nella sua veste impositiva e repressiva. Non a caso lo scrivo con la maiuscola, come viene scritta in psicoanalisi la Parola del Padre, quella che norma, appunto, che dà la Norma da seguire, che impone, che vieta, che sanziona. Questa stimmung fondamentale, però, non è solo quella di un adolescente edipico (dunque novecentesco, dato che oggi siamo nella generazione di Narciso), ma è il modo tipico di considerare il Diritto, e anzi, come scrive Tommaso Greco in La legge della fiducia. Alle radici del diritto (Laterza 2021), “uno dei dogmi sui quali si basa in gran parte la nostra concezione del vivere sociale”. E’ la concezione “verticale” e “sanzionatoria” che ordisce una trama secolare nel modo di pensare il diritto, e dunque anche nel pensare i nostri comportamenti giuridicamente orientati. Da Aristotele al positivismo giuridico, passando per Machiavelli e Hobbes, la natura propria del diritto viene individuata nel suo momento impositivo e sanzionatorio. Lo stesso Kelsen fa discendere l’obbligatorietà giuridica dell’adempimento dall’esistenza della sanzione. Ora, cosa significa pensare il diritto in questo modo? Significa fondarsi su un’antropologia negativa dell’essere umano. Quella hobbesiana, appunto, per cui un uomo è naturalmente nemico dell’altro uomo. Una società che esiste solo successivamente agli individui, i quali si fanno la guerra tra loro per natura. Una concezione fatta propria e rinnovata dal pensiero neoliberale, quello che si sintetizza nel motto thatcheriano “non esiste la società, esistono solo gli individui”. E gli individui non fanno che perseguire il proprio utile. Possiamo chiamare questo paradigma del diritto “sfiduciario”, laddove appunto la naturale disposizione relazionale tra gli uomini è quello della sfiducia, e la società, col suo diritto, interviene solo successivamente, a mettere le cose in ordine, a porre un argine alla sfrenata predisposizione umana alla guerra, al conflitto, alla sopraffazione.
Nel suo libro, Greco mette in discussione questo paradigma. Non che neghi il fatto che negli umani vi sia questa componente. Nè viene negata la necessità della coercizione nella configurazione del diritto. Ma, ci dice Greco, quella verità non è tutta la verità. Appare significativo che per mostrarlo Greco si rivolga a Spinoza: “gli esseri umani per Spinoza sono esseri razionali, capaci perciò di comprendere quanto sia utile vivere nella concordia. Se agire in mala fede fosse razionale (come una certa visione dell’uomo vorrebbe farci credere) allora sarebbe la stessa ragione a convincerci di non stringere patti e a spingerci a non cercare di avere diritti comuni «se non in malafede»; il che si traduce però nella conclusione assurda di «non avere effettivi diritti comuni» […].Un uomo che sia guidato dalla ragione – che per Spinoza coincide con l’uomo veramente libero – si sforza perciò di «osservare la regola della vita e dell’utilità comuni» e non obbedisce affatto per paura, un sentimento che «trae origine dalla debolezza d’animo»”.
Il diritto così concepito, allora, è un diritto che si fonda (anche) sulla fiducia. “Ci chiede di fidarci l’uno dell’altro, e lo fa nel momento in cui stabilisce quali sono i diritti e i doveri reciproci all’interno di una qualsiasi relazione da esso regolata”. Oltre alla dimensione verticale e sanzionatoria del diritto esiste anche una dimensione orizzontale e relazionale. La dimensione fatta di implicite attese reciproche, immanente all’esistenza del diritto stesso. Il diritto trova lì il suo piano di consistenza, nella dimensione dell’intersoggettività. La fiducia, dice Greco, opera normativamente dentro il diritto, e implica un’altra visione dell’uomo: un uomo che non è solo “individuo” in lotta con gli altri individui, ma un uomo che è altrettanto naturalmente sociale e solidale. Greco ricorda quanto affermava un grande giurista francese di inizio Novecento, Léon Duguit: “l’idea dell’uomo sociale è il solo possibile punto di partenza di una dottrina giuridica”. La solidarietà, dunque, come un fatto ineludibile, e allo stesso tempo come un principio a cui attenersi: un fatto perché esiste di per sé, naturalmente, e un valore perché chiede di essere riconosciuto e favorito.
La prospettiva fiduciaria fa emergere pienamente il profilo della responsabilità individuale degli umani. “Rendere quanto più possibile palese il fatto che il diritto ha a che fare innanzi tutto con il trattamento che noi riserviamo agli altri, più che con l’atteggiamento che abbiamo verso l’apparato statuale – ci aiuta anche ad essere più sensibili nei confronti delle degenerazioni del diritto stesso. Quando il diritto diviene ingiusto, siamo noi che diventiamo ingiusti traducendone le prescrizioni in comportamenti verso gli altri. Si possono ricordare le leggi razziali e portare la nostra memoria a quel periodo crudele; ma non si possono fare molti altri esempi tratti anche dal nostro banale quotidiano? Se un regolamento di una mensa scolastica comunale stabilisce che non si deve dar da mangiare al bambino la cui famiglia non abbia pagato la retta, chi sarà a dover applicare quella regola?”.
Da questo punto di vista, si potrebbe dire quasi che il diritto abbia inclusa in sé, al limite, una prospettiva an-archica, nella misura in cui invoca la piena responsabilità di ogni uomo nei confronti degli altri uomini. L’uomo, infatti, è pienamente, radicalmente responsabile quando risponde alla propria natura di con-essere, di essere sociale, quando comprende che rispondere al richiamo dell’Altro è essere fedele a se stesso. In quella pienezza di responsabilità, dove l’uomo si autogoverna, non ci può essere comando esterno, ma autonomia an-archica. Se, come dice Greco, esiste una “fiducia ontologica prima del diritto”, e su questa fiducia il Diritto si fonda, allora possiamo dire che il Diritto ingloba in sé il proprio Fuori, ovvero le relazioni umane in quanto tali, che diventano la sua più intima natura. Il Fuori, in questo senso, non è solo una polarità esterna, ma la natura stessa del Diritto.
C’è un altro punto decisivo: dire dimensione fiduciaria significa dire anche uguaglianza. Un’uguaglianza intesa come valore e come pratica di liberazione: “è ampiamente dimostrato dall’esperienza”, scrive Greco, “quanto sia grande la potenza liberatrice e ‘fiduciaria’ che il diritto può esercitare nei contesti in cui esistono rapporti di dominio e sfruttamento: si pensi, per fare solo qualche esempio, a ciò che succe de nel mondo del caporalato, o più in generale nella considerazione giuridica e nello sfruttamento sociale ed economico dell’immigrazione: una potenza liberatrice e fiduciaria che è tanto più possibile esplicare quanto più si sia consapevoli del fatto che spesso è proprio il diritto a creare le condizioni dell’assoggettamento e dell’asservimento”.
Quanto meno il diritto riconosce questa dimensione liberatrice della fiducia cooperativa, tanto più esso diventa, marxianamente, maschera della forza della classe dominante, e dispositivo governamentale fondato sulla paura. Un diritto che non include questa dimensione fiduciaria, ovvero cooperativistica, rischia ad ogni passo di dar ragione a Trasimaco, insomma, per cui il diritto non è che l’utile del più forte. E tale, in effetti, non ha mai mancato di essere.
Parlare di fiducia, allora, non ha nulla a che fare con la deregulation invocata dai neoliberali, che vorrebbero uno Stato minimo, poiché – come Greco stesso scrive – “l’invocazione pura e semplice dell’assenza di regole in nome di una libertà naturale (e per così dire selvaggia) si traduce sempre in uno svantaggio per coloro che sono più deboli”. Ovvero, si potrebbe anche dire, lascia tutto lo spazio sociale alle scorrerie degli “spiriti animali” del capitalismo ideale.
Se dunque la concezione fiduciaria del diritto potrebbe essere letta – ed è certo un rischio che essa corre – nella prospettiva di una concordia pacificatrice, di un astratto bene comune che concretamente maschera gli interessi delle classi dominanti, essa sembra portare con sé più naturalmente la possibilità del conflitto. Perché se l’uguaglianza è inseparabile dalla fiducia, allora essa deve innescare il conflitto contro ciò che nega la solidarietà tra gli umani – e le differenze di classe la negano. Il conflitto per la relazionalità solidale sembra dunque inscritto nella prospettiva fiduciaria, e la lotta di classe è una delle possibili configurazioni del conflitto. Se è vero che sono io a diventare ingiusto quando il diritto è ingiusto, allora ribellarsi è giusto.
Insomma, in una prospettiva “fiduciaria” non c’è spazio per Trasimaco, ma per i deboli disprezzati da Callicle sì.
Non ho ancora letto il libro di Tommaso Greco, ho letto un articolo suo, credo propedeutico al libro, ma trovo da “non addetto ai lavori” interessantissima questa visione del diritto come dimensione fiduciaria e cooperativa, opposta alla dimensione della forza ( legittima) cui di solito leghiamo il concetto. E’ un concetto che va in controtendenza, credo, ad una visione oggi dilagante che punta tutto sull’utilitarismo che è pur sempre una espressione della forza. E’ questa una visione che avanza ed è esattamente una moderna trasposizione del “codice dell’empio” descritto nel libro della SAPIENZA : “La nostra forza sia legge di giustizia , perché ciò che è debole si dimostra inutile” ( Sapienza, 2,11) La forza che diviene cioè legge del diritto ( il termine giustizia gli può ben corrispondere dato che non esiste un corrispettivo di diritto in ebraico)i