Urla sempre, Vaccari

di Lorenzo Vargas

È il 2018. Michele Vaccari esce con Rizzoli col suo tentativo di Grande Romanzo Italiano™, Un marito, che non riceve il plauso oceanico che si aspettava da critica e pubblico.

Suddetto Vaccari, per il poco che ho potuto osservarlo è un uomo mosso dal rancore, un po’ come i Voina e come tale mi è simpatico.

Da un certo punto in poi del 2020, dopo un appropriato silenzio social, riappare, accennando al fatto di star lavorando a un’opera nuova, di una categoria che personalmente amo chiamare “romanzo vaffanculo”.

Allude a un mischione inenarrabile di generi, di qualcosa di assurdo e visionario e io, che lo conosco letterariamente solo per una cosa giovanile su un membro del clero di una tale caricaturalità da cattivo Disney da far sembrare l’Andreotti della trattativa stato-mafia un comprimario della Pimpa (L’onnipotente, Laurana, 2011), non posso che provare un modicum di curiosità.

Poi passa un anno e finalmente esce, per NN Editore: Urla sempre, primavera, un titolo che non ce la faccio a non legare a Maledetta primavera della Goggi, canzone che l’attivismo di sinistra maceratese ha sbraitato per un anno intero quando l’estrema destra italiana ha eletto la città a propria piazza politica preferita dopo la Strage Traini.

Ora, Urla sempre, primavera risulta qualcosa di fresco e nuovo solo perché monocolo in terra caecorum.

Si può parlare in due modi di sto libro: dell’opera in sé e di quello che può rappresentare.

Ah, preciso che questo è un articolo di critica, non una recensione. Se volete informazioni base sul libro le trovate qui, dove qualcuno è stato pagato apposta per fornirvele. Lo SPOILER, qualora il concetto avesse un senso, è dietro l’angolo.

Cominciando con l’in sé del romanzo, possiamo comodamente affermare che Urla sempre, primavera non sia l’indefinibile mischione di generi promesso, ma semplicemente la ripresa intelligente di un’ucronia. In giro si spreca la definizione slipstream, ma pare solo l’ennesimo termine straniero cacciato per far scena. L’unica uscita dal canone è contenuta nella terza parte dedicata a Spartaco (libro nero) e con le sue forse cinque pagine complessive di weird horror molto blando non sembra basti a spostare la lancetta su un lavoro di 450 pagine.

Il romanzo tratta di rivoluzione, della sua idea, immaginario e del sacrificio che comporta, ma soprattutto del suo elemento fondativo: il sogno, inteso sia come proiezione ir/realizzabile che come forza creatrice. Con un meccanismo di venerata tradizione fantastica, Vaccari ha preso l’elemento sogno e lo ha esteso fuor di metafora all’intero romanzo, dal misterioso potere transumano dei Delfino, alla struttura stessa che manda serenamente in vacca tutta una sequela di pretese di realismo e coerenza interna, per adottare a braccia aperte una dream logic dove i fatti si susseguono in un’accumulazione senza soluzione di continuità.

Probabilmente per questo, le parti meglio riuscite sono la prima, quarta e quinta, dedicate a Zelinda e Egle: la prima, il racconto nel racconto di una madre, che disperatamente cerca di lasciare alla figlia una parte di sé e della propria lotta, attraverso una serie di cilindri registrati e quelli che (sospetto, alcuni elementi sono lasciati alla libera interpretazione) siano successivi resoconti onirici; le ultime due invece raccontano il presente della storia, adottando il punto di vista della nostra piccola messia narcolettica, concedendosi anche un paio di prevedibili, ma deliziose passeggiate nel sogno.

In tutto il libro ciò che scintilla è la prosa: modulata in base alle voci narranti e curata senza cadere nell’inferno onanistico di certe derive “letterarie”. Urla sempre, primavera è un libro completamente privo di ironia, come sospetto sia il suo autore. I personaggi non sono analisi distanti, ma creature in carne ed ossa coinvolte all’inverosimile nel tentativo di fermare in tempo il suicidio dell’Italia (e si suggerisce, del mondo). C’è un continuo riferimento nel testo ai tessuti molli del corpo umano, al sangue, ai brandelli di muscolo divelti dallo sforzo continuo della lotta ed è questa visceralità a rendere “vera” la storia.

Sarà che sono un po’ d’anni che il distacco sardonico e l’ironia a tutti i costi nella narrativa cominciano a tediarmi, ma questo coinvolgimento totale me l’ha continuato a far apprezzare, anche durante porzioni dell’opera decisamente meno riuscite.

E ce ne sono. Oh se ce ne sono.

I dialoghi del romanzo sono un imbarazzante inferno di pathos da telenovela boliviana, con scambi di battute che non si perdonano nemmeno a una fiction RAI. Il problema principale è che sono scritti esattamente come la prosa, con un risultato tra il retorico e il traduttese. Paradossalmente l’assurda parlesia da raver bruciato del Venerato Presidente ne esce come l’unica sezione credibile.

La terza e quarta parte, dedicate al Commissario e a Spartaco sono probabilmente le più deboli.

Quella del Commissario è l’unica vera e propria occhiata fornita del wordbuilding di Vaccari e si può comodamente affermare sia un tentativo… goffo. Nelle “mentefonate” (sigh) si è persa un’ottima occasione per darsi a un po’ di letteratura sperimentale, oltre al fatto che il sistema descritto nel libro sia alla meglio inconsistente. La profondità analitica media della dittatura della Gerusia rasenta quella de La Fine della Ragione di Recchioni, dove guardali i cattivi, guarda come sono abbrutiti e sangue malato, di cui si potrebbe avere pietà se solo non fossero al potere. Lo stesso Commissario, che di fatto lavora per il regime, non ci offre alcuno scorcio di umanità sugli antagonisti, perché il libro non si stanca mai di delinearlo come un eroe menomato.

Normalmente questo tipo di dabbenaggine mi darebbe fastidio. Gli eroi (e le rivoluzioni) valgono quanto i propri antagonisti e se da una parte mi metti i fieri combattenti del sol dell’avvenire, dall’altra non può starci una macchietta Disney che si beve i cocktail al piscio e schiavizza i bambini. Da una parte il team congiuntivo, dall’altra la Nuda Lingua da rincoglioniti, buffa, inconsistente e che francamente poteva essere progettata meglio.

Questo però è un romanzo vaffanculo e la scelta ha senso.

Urla sempre, primavera non è il racconto della rivoluzione, ma il sogno della rivoluzione, l’ombra lunga lasciata nell’inconscio dal trauma del G8, dall’eterno conflitto tra la vita e i #vecchidimmerda, che non ha il tempo della riflessione perché i sogni vanno avanti senza darci il tempo di razionalizzarli. Il mostro degli incubi è sempre dietro di te, anche senza specificare come abbia fatto.

A sua volta questo è il motivo per cui la storia di Spartaco nella quarta parte risulta così violentemente sottotono rispetto al resto. Non siamo più nella ricostruzione febbrile di Zelinda, o nel futuro a nebula impressionista fatto di Necropoli/Metropoli e boschi transumani. Gli eventi raccontati hanno un’àncora storica che Vaccari non riesce ad attraversare con la medesima fluidità. Anche se qui è Berlinguer a lasciarci le penne invece di Moro, la storia è ancora quella d’Italia, raccontata con un piglio da excursus storico su cui non sono sicuro che Vaccari abbia la giusta presa. Forse è un fatto di respiro della narrazione: le altre sezioni coprono al massimo qualche decennio, mentre qui si percorre una vita intera, in cui tra l’altro sospetto sia stato inserito un elemento queer giusto per dire che all’autore non piacciono i Pride.

Se proprio dobbiamo dare fondo alle perplessità, le varie voci narranti sembrano tutti versioni alternative della stessa persona: Vaccari che ha fallito, che è scappato, che ha ceduto all’amore, che si è immolato alla rivoluzione, che non ha saputo incanalare un risentimento giovanile che non riesce ancora dare nome alle cose. Si potrebbe obiettare che chiunque partorisce i personaggi come parti arricchite artificialmente di sé, ma le creature che popolano il romanzo suggeriscono a tratti una spettrale impressione di soliloquio, che non è sempre possibile scrollarsi di dosso, complici ancora una volta i dialoghi.

Qualora sembri stia dicendo che l’opera è scadente, vi prego di riconsiderare. Urla sempre, primavera è un bel libro, una storia viva sulla quale vale spendere tempo. Di plauso a riguardo ce n’è stato già abbastanza e farvi leggere altre duemila parole su quello che funziona e sulle prodezze tipografiche di NN mi pare stupido.

In più mi preme parlare di quello che l’opera è fuori di sé.

Di storie fluide e fuori canone come quella di Vaccari in Italia ne escono poche e ancora meno vengono pubblicate da qualcuno che non copra una super-nicchia. Quasi nessuna raggiunge un briciolo di attenzione mainstream.

Dove il trend è quello di asciugare i testi come si rasano via brandelli dai fusi di kebab, Vaccari si è tenuto genuinamente torrenziale, ha aggiunto subplot sostanzialmente inutili solo perché gli andava e a dirla tutta, l’intera storia viene vanificata dalle ultime cinque righe, affliggendo il libro con la cosiddetta sindrome dell’Arca Perduta.

Nonostante ciò pare che al pubblico stia piacendo: anche se non vi sono inseriti tutti quegli elementi tipici del canone commerciale; anche se contemporaneamente ogni parte del libro ricalca la struttura di un romanzo mainstream contemporaneo, quasi a prendere per i fondelli le richieste minime editoriali; ; anche se è visceralmente schierato (e con una prospettiva ideologica pure un pelo datata); anche se c’è un sacco di tell e ben poco show; anche se decidere dove metterlo tra gli scaffali di una libreria prenda più degli otto secondi standard.

È la dimostrazione, insomma, che il pubblico di lettori non è il blob di rincoglioniti con l’attenzione da pesce rosso che il mercato sembra aver profilato con tanta sicurezza: è pronto a riferimenti occulti, preterizioni da studiare e sottoculture da scoprire. Sembrerebbe insomma pronto a storie in cui la sovrabbondanza non è vista come qualcosa da purgare ma come una complessità sensoriale da slow food.

La forza, insomma, di un buon romanzo vaffanculo.

Come se il sogno della rivoluzione contenuto nel libro si estendesse anche fuori, in un magico mondo dove il mainstream si accorge che sono passati 30 anni.

Quasi che Vaccari, l’uomo senza ironia, una battuta tutto sommato l’abbia fatta e fa anche abbastanza ridere.

(Foto)

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