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di Pier Paolo Di Mino

Siamo in Spagna, nel Settimo secolo dell’èra volgare. Isidoro siede a corte, mentre Sisebuto, il re poeta, recita un suo lutulento e torbido poema davanti a tutta l’aristocrazia visigota. A Isidoro, vescovo di Siviglia, è stato impossibile sottrarsi all’evento istituzionale. Il disastro sociale, economico, umano che opprime la penisola iberica, gli impone l’obbligo di intrattenere rapporti politici molto stretti con la nuova classe dirigente.

Nell’aula grigia e sorda della corte si sente la voce del re. Cantilena faticosamente i suoi versi. Qualcuno, con il mento premuto su una mano, cerca di sopprimere gli sbadigli. Il re alza all’improvviso il tono della voce. Dalle sue lunghe labbra sottili (un taglio in mezzo a una faccia da cane che ride) escono delle note stonate. Isidoro si chiede perché Sisebuto ci tenga tanto a essere un poeta e cosa crede sia la poesia, o l’arte, o la cultura. Probabilmente, ci vede qualcosa di prestigioso, o di doveroso, o, considerando la mentalità banausica dei visigoti, di utile. Qualcosa con cui magari fare indotto. L’arte, per Sisebuto, è di sicuro bigiotteria crociana, un formalismo espressivo utile per forgiare le capacità critiche del pubblico in maniera tale che queste risiedano nel minuscolo alveo del sentimento del gusto.

Davanti all’arte si mostra gradimento esibendo un pollice: tutto qui. Probabilmente, pensa Isidoro, Sisebuto è molto orgoglioso dei suoi componimenti, di queste macchine di parole rotte, e, forse, il codazzo dei suoi tirapiedi, gli intellettuali visigoti, lo ammira davvero. Parlano di una nuova letteratura, vicina al cuore della gente, ricca di descrizioni di fatti veri e di emozioni veraci. Dicono: è ora di gridare il nostro disprezzo ai filosofi pagani, questi malati di astrazione, e ai poeti greci e latini, lascivi e tortuosi. Dicono che i tempi sono maturi per liberarsi dalla dittatura di un sapere calato dall’alto, quella matematica e quel latino, appannaggio di gruppi elitari, che impongo una realtà sottratta al divenire. La nostra cultura modernissima, affermano, assolve dall’inevitabile, dal metafisico, dall’ontologico, e rende l’uomo misura di tutte le cose in un mondo di libertà, in cui è tutto relativo. Dicono di aver scoperto che il sapere, le regole matematiche, le leggi della fisica sono solo invenzioni.

Venite a casa mia, pensa Isidoro. Ho una finestra, e, se avrete la bontà di buttarvi di sotto, potremo constatare insieme se le leggi della fisica sono inventate. Ora applaudono tutti, e Isidoro si chiede come sia stato possibile arrivare fino a quel punto. Chiude gli occhi. Fuori da quel palazzo si estende all’infinito il nulla. Non ci sono più strade, perché non ci sono più merci da trasportare, e non ci sono più merci perché non esiste più nessuno di quei servizi pubblici necessari per produrre merci. Si muore di fame e malattie, perché non ci sono più ingegneri, architetti, burocrati, amministratori, medici. Non ci sono più, perché non c’è più nessun poeta che forgi le parole adatte a formare una qualsiasi scienza.

Isidoro pensa ad Aristotele. Quando il denaro compra il denaro, dice lo Stagirita, quella civiltà sta per crollare. Alle leggi della finanza, che separano la ricchezza dalla produzione, e la produzione dalla realtà, a queste leggi così distaccate dalla realtà, Aristotele ha opposto una visione del mondo coerente. Quale meraviglia maggiore? L’uomo è nato per provare piacere, ci rassicura il filosofo, e non c’è piacere maggiore di Dio, e Dio è il sapere, e il sapere è osservazione della realtà organizzata per mezzo di questo raggiro numinoso che instilla il brivido dell’eterno nell’uomo: la logica e la retorica. Isidoro pensa anche a Cicerone. La crisi finanziaria indotta da Crasso aveva portato alla disfatta della repubblica. Alla fine, Cesare aveva trionfato. Dalla sua, aveva avuto un’arma formidabile per vincere su tutti gli altri aspiranti tiranni: l’atticismo. Poche parole, semplici e chiare.

Cesare aveva capito una regola fondamentale del capitalismo: poco costo, e massimo guadagno. E, nel parlare agli uomini come fossero bambini di tre anni, il guadagno sta nel fatto che, poi, ti ubbidiscono come bambini di tre anni. Cicerone, allora, per contrastare questo male, aveva inventato una lingua sontuosa, capace di ogni sistema.

Ecco un’altra meraviglia. Isidoro pensa anche a Petronio, e ai liberti (ancora una volta l’alta finanza) che prendono Roma e la distruggono. Nel romanzo di Petronio ci sono due scene, una in una scuola di retorica e l’altra in una pinacoteca. Nelle scene si mostra la stessa cosa: la letteratura e l’arte ridotte a formalismo. Lo stesso vuoto formalismo di un’operazione bancaria. Segue la catastrofe. Ovvio, pensa Isidoro, perché, senza cultura, l’uomo non sviluppa quella capacità immaginativa che rende possibile connettere le cose fra loro fino a formare una realtà. L’uomo diventa psicopatico e operativo. Procede per protocolli. Cerca la ricchezza, e procura la carestia. Cerca il benessere, e propaga le pesti. Crea mali, che non sa più riparare. Ora nella corte sono tutti in piedi. Gridano il nome di Sisebuto.

Sembrano morti che urlano per la disperazione, pensa Isidoro. È tutto irreale, e allora c’è un urgente bisogno di realtà, ma la realtà è possibile solo con una poesia diversa da quella di Sisebuto, una poesia piena di significato. Ma, per fare davvero poesia, sono necessari una metrica, una grammatica e una sintassi che organizzino le parole, e, soprattutto, servono parole connesse alle cose. Non sono le civiltà a fare le lingue, ma le lingue le civiltà. E così, infine, Isidoro pensa che presto avrebbe posto mano a un’opera sull’origine e sull’uso delle parole, e che, se ce l’avesse fatta a portare a compimento questa impresa, forse, per l’uomo non sarebbe finita lì. Usciremo anche da questa catastrofe, pensa, mentre la corte si svuota, e un vento nuovo pulisce tutto.

Isidoro porterà a termine le Etymologiae nel 636. Completata l’opera, distribuirà i suoi beni ai poveri, e morirà.

 

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