Vanessa Beecroft a Cinecittà
di Dario Dallalana
Per alcune ore, sabato primo ottobre, la grande arte è tornata protagonista al Teatro 5 di Cinecittà. Dopo più di quarant’anni dall’aver ospitato le riprese de La città delle donne di Federico Fellini, il teatro di posa romano è diventato il set di un colossale tableau vivant. Tutto è nato dall’incontro fra una star del firmamento artistico internazionale come Vanessa Beecroft, le cui performance sono contese dai maggiori musei del mondo come il Guggenheim di New York, e una presidente illuminata come Chiara Sbarigia, da un anno e mezzo ai vertici di Cinecittà. Poco dopo il suo insediamento, nell’ideare il piano culturale della cittadella del cinema, Sbarigia ha deciso che il patrimonio dell’Istituto Luce, con le centinaia di migliaia di fotografie archiviate, e quello del MIAC, il Museo Italiano dell’Audiovisivo e del Cinema, andavano ampliati e arricchiti con nuove acquisizioni, prestando particolare attenzione allo “sguardo femminile”, finora ingiustamente assente. L’invito rivolto a Vanessa Beecroft affinché realizzasse una performance site specific a Cinecittà (VB93 il titolo), si inseriva in un trittico sul tema delle donne che prevedeva una mostra sulle stazioni, allestita in questi giorni all’Auditorium Parco della Musica, incentrata su una campagna fotografica commissionata a una giovane fotografa come Anna di Prospero e sulle foto storiche del Luce; un convegno sul management culturale femminile dal titolo “Un altro genere di leadership”, che si svolgerà a febbraio dell’anno prossimo; e infine l’opera di Vanessa Beecroft, che da sempre indaga il tema del corpo delle donne in rapporto con la società contemporanea.
Nell’enorme spazio del Teatro 5, l’artista ha allestito un piccolo kolossal, impiegando trecento donne romane molto diverse per età, estrazione sociale, caratteristiche somatiche (tra di loro si notava anche qualche corpo maschile). Abbigliate di bianco o di nero, tutte calzavano scarpe con tacco, disposte secondo la consueta griglia geometrica al centro del teatro di posa, come a costruire un invisibile campo di forza entro cui serrarsi. La coreografia includeva anche il pubblico, invitato ad assistere dapprima dal fondo della vasta sala, alle spalle delle figuranti, per poi essere accompagnato a muoversi lungo un lato e collocarsi di fronte al gruppo. Un gioco di luci evocava il mutare della luminosità atmosferica, tra il chiarore diffuso del giorno e l’oscurità notturna, e la colonna sonora di ispirazione cinematografica composta da frequenti, cicliche ripetizioni e variazioni su un medesimo motivo.
La maggior parte del pubblico conosce l’opera di Beecroft solo per il tramite delle fotografie o dei filmati che ne vengono tratti, ed è facile farsi ingannare dalla fotogenicità di questi happening, dal loro carattere iconico nell’accezione anglosassone di iconic: cioè popolare, famoso, emblematico. In realtà solo dal vivo si può comprendere appieno la ricchezza e l’ambiguità della sua poetica, che non è in alcun modo glamour o voyeuristica. Chi si aspettava uno spettacolo (ovvero, etimologicamente, qualcosa che si risolve unicamente sul piano visivo, e in maniera unidirezionale) è rimasto deluso.
La performance è durata tre ore, procedendo con un ritmo estenuante, mesmerico, e l’iniziale istinto da homo smartphonicus, di cercare l’immagine più efficace, la sequenza video giusta, un tableau vivant da delibare attraverso il filtro del piccolo schermo personale, ha ceduto il passo all’immersione totale. E, con la crescente consapevolezza di essere parte di un tutto, il telefonino è scivolato nella tasca, rimanendo lì fino alla fine del cerimoniale, perché di un vero e proprio rito si trattava, composto da numerosi elementi diversi. Ognuno di essi contribuiva alla stratificazione di senso che l’evento andava progressivamente acquistando: la geometria dei corpi schierati su una griglia cartesiana (un quadrato di donne vestite di nero circondato da donne vestite di bianco); la suggestione del gioco di luci (con una sorta di ciclica alternanza tra intervalli di tempo con luminosità diffusa e omogenea, altri di buio denso, interrotto solo da un riflettore che scrutava, vagando nell’oscurità, tra i corpi delle performer, creando contrasti chiaroscurali violenti, quasi caravaggeschi); la musica, ossessiva, drammatica e solenne, che ricordava la colonna sonora del Tè nel deserto di Ryuichi Sakamoto.
Pur essendo istruite dall’artista a non stabilire relazioni con l’esterno e a non reagire agli stimoli del pubblico, lo scambio di sguardi reciproco e speculare fra gli “spettatori” e le “figuranti”, la loro stessa presenza (ora forte e ieratica, ora rilassata e in riposo, spesso solenne e composta, ma pure con diversi sintomi di stanchezza e addirittura qualche ricovero) era come un magnete irresistibile al centro del grande spazio vuoto, che favoriva un dialogo muto, empatico, che col tempo si veniva instaurando tra “noi” e “loro”.
E ancora, il movimento di danza quasi ipnotica del lungo braccio meccanico che faceva volteggiare sopra e tra di “loro” la telecamera; la presenza stessa, ai margini del gruppo femminile centrale, dell’artista, dei suoi collaboratori, dei tecnici di Cinecittà, dei tralicci, dei riflettori, delle macchine del fumo, delle telecamere, dei monitor e delle altre attrezzature; aleggiava, forse, perfino la memoria di tutti i film che sono stati girati nel vasto teatro di posa… Tutto questo ha fatto sì che il coinvolgimento emotivo e il grado di attenzione siano stati particolarmente intensi, molto al di là delle ragionevoli aspettative della vigilia. Ne abbiamo avuto conferma quando, alla fine, abbiamo avuto modo di dialogare con alcune figuranti, scoprendo che dalla “loro” parte le domande erano simili alle nostre: si chiedevano cosa avessimo visto, se ci eravamo annoiati; quali erano state le nostre impressioni; se eravamo rimasti lì tutto il tempo…
L’ispirazione è un fiume con tanti affluenti, e i corpi ieratici dei tableaux vivants di Vanessa Beecroft hanno più di un debito nei confronti della pittura antica. Forse tutto nacque all’Accademia, durante le lezioni di disegno dal vivo, quando pensò che i modelli fossero una forma d’arte più interessante dei disegni; o forse si possono rinvenire illustri antecedenti in Caravaggio e nella sua passione per la messa in scena dei modelli, testimoniata dalle biografie e da indagini radiografiche sui vari pentimenti; o forse furono decisive le figure “architettoniche” della pala di Brera di Piero della Francesca, che chissà quante volte Vanessa avrà visto quando frequentava, al piano di sotto, l’Accademia di Belle Arti; l’elenco potrebbe proseguire con i corpi in prima fila nel Quarto Stato di Pelizza da Volpedo… tuttavia, tutti questi richiami non si riducono mai a semplici citazioni. Perché oltre a rappresentare un dialogo con la storia dell’arte, quel corpo collettivo, abbigliato in modo uniforme come a rifuggire ogni singolarità, e da lei posto al centro della nostra attenzione per essere scrutato e indagato senza infingimenti nelle sue diverse età e condizioni fisiche, sembra infine proiettare un’immagine frammentata e moltiplicata dell’artista, un ecce homo al femminile.