Vero-falso: su “Yoga” di Emmanuel Carrère

Il momento dell’uscita in Francia del nuovo romanzo di Emmanuel Carrère Yoga è stato accompagnato da una polemica che mi pare interessante per almeno due punti di vista che permettono di non derubricare la cosa a semplice cronaca o pettegolezzo letterario. La seconda ex moglie dello scrittore francese, la giornalista Hélène Devynck, ha scritto infatti un articolo per “Vanity Fair” dove denunciava il fatto che lo scrittore parlasse di lei e della figlia senza rispettare gli accordi legali presi dopo la separazione (un’effettiva violazione che pare abbia portato Carrère a tagliare e modificare delle parti del romanzo) e, inoltre, sottolineava come Carrère non fosse sincero nel libro, ma invece romanzasse la sua vita, e quella di Devynck, introducendo degli elementi inventati.

Se ovviamente dal punto di vista degli accordi legali tra due persone separate c’è poco da commentare, credo sia invece più interessante indagare la seconda rimostranza dell’ex moglie, l’invenzione dello scrittore, perché anche se fosse, come ha scritto lei, «architettata per esaltare l’immagine dell’autore e completamente estranea a quello che io e la mia famiglia abbiamo passato insieme a lui», ci troveremmo esattamente nei territori cari a Carrère, quelli che hanno segnato l’aspetto stilistico più importante, oltre che il successo, della sua opera.

Yoga, pubblicato in Italia come tutta l’opera di Carrère da Adelphi con la traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, è incentrato sul racconto della depressione dello scrittore, costretto a quattro mesi di ospedale psichiatrico con una massiccia dose di elettroshock a causa dell’identificazione di un disturbo bipolare («episodio depressivo maggiore, caratterizzato da elementi di malinconia e idee suicidarie, in un quadro di disturbo bipolare di tipo II» riporta la cartella clinica del Saint-Anne dove Carrère ha trascorso quattro mesi, cartella che nel suo proseguo riporterà anche la «richiesta di eutanasia» del paziente). Dentro e attorno a questa storia, che non appare subito nel libro ma che viene preparata alla perfezione dallo scrittore come al solito con il suo stile affabulatorio e accattivante, incontriamo altre esperienze che hanno segnato Carrère e che, in maniera diversa, hanno contribuito o mitigato la sua depressione, come la conoscenza del dolore profondo di un gruppo di giovani profughi a Leros (tra le pagine più belle del libro con le sue descrizioni di persone e luoghi, Frederica, Atiq o il Pikpa, con le storie degli aspiranti richiedenti asilo impegnati nell’esercizio di scrittura “The night before I left”), l’attentato a Charlie Hebdo o un ritiro dedicato alla tecnica di meditazione Vipassana.

Il racconto del disagio psichico, della «tachipsichia», come una tachicardia, ma al cervello, che lo porterà a quattordici sedute di elettroshock, obbedisce al desiderio di autodistruzione che l’autore non smette mai di sottolineare: «Una catastrofe che non è scaturita da circostanze esterne, non è scaturita da me, dalla mia possente tendenza all’autodistruzione da cui, presuntuoso com’ero, mi credevo guarito, e che si è manifestata con una violenza senza precedenti e mi ha scacciato per sempre dal mio recinto».

Una simile materia, così profonda da lasciare probabilmente un solco inarginabile nell’opera dello scrittore come ha suggerito Luca Bevilacqua, richiede un patto assoluto con la verità? Forse, ma non sicuramente, e questo non credo possa dunque essere utilizzato come un grimaldello teorico per indagare questo libro in cui si ritrovano condensate molte delle facce dello scrittore che il fedele lettore ha imparato a conoscere e, probabilmente, ad ammirare e rispettare. Sono molte nel libro le riflessioni di Carrère sulla sua scrittura dove si potrà ritrovare quell’ambiguità rispetto al vero che attraversa tutta la sua opera, quegli spazi di incertezza in cui è continuamente avviluppato il lettore senza alcuna possibilità di approdo sicuro: «Quando penso alla letteratura, al genere di letteratura che faccio, di una sola cosa sono fermamente convinto: è il luogo in cui non si mente. […] Le cose che scrivo forse sono narcisistiche e vane, ma non sono false. Posso affermare serenamente, potrò affermarlo serenamente davanti al tribunale degli angeli, che scrivo ciò che mi passa per la testa, ciò che penso, ciò che sono, di cui non vado certo fiero, “senza ipocrisie” , come vuole Ludwig Borne. Ma Ludwig Borne vuole anche che lo si scrive senza snaturarlo, ed è quello a cui in genere anche io aspiro, ma in questo caso è diverso. Di questo non posso dire quello che con orgoglio ho detto di molti altri: “è tutto vero”».

Come dobbiamo valutare questa dichiarazione? Dobbiamo credere a un autore che qui confessa di mentire, o quantomeno di inventare, quando dice che in ogni altro suo libro racconta il vero? È questo lo spazio narrativo dove si adagia l’opera di Carrère e certamente non è escluso da questo meccanismo narrativo ciò che emerge e viene confessato in questa citazione, e in altre numerose occasioni, l’aspetto narcisistico della personalità dell’autore. Prendiamo per esempio il ritiro spirituale Vipassana con cui si apre il libro e a cui decide di partecipare Carrère: dieci giorni in una località isolata nel bosco, il divieto di parlare, il dovere di meditare (esercizio nel quale l’autore ha una lunga esperienza e che doveva costituire l’agile libretto che si è trasformato nel ben più totalizzante Yoga), l’assenza di qualsiasi strumento per scrivere o rimanere aggiornati su ciò che accade nel mondo. Già dalle prime pagine capiamo subito che anche in questa situazione, certamente di un’importanza minore rispetto al rapporto con la moglie o con la figlia per esempio, il tarlo fondamentale della sua opera (e, viene da aggiungere, della vita di Carrère conoscendolo attraverso i suoi libri), il criticato e questionato narcisismo, fa la sua comparsa.

Perché ancora una volta Carrère ci racconta non cosa sia o come funzioni questo ritiro, o almeno non solo, ma quale è lo stato d’animo con cui lo affronta, riassumibile in una sfida di resistenza con se stesso, nel desiderio di dimostrare la sua capacità di controllo dell’io. Ma ciò di cui il lettore si accorge analizzando le storie che racconta Carrère è un desiderio, in fondo incancellabile, di sperare, nel fondo nella propria coscienza, che tutto volga al peggio, spinta ancestrale al negativo che si agita nello spirito di Carrère e che porta anche a una concezione ben precisa del tracollo psichico: «Non per vantarmi, ma posseggo un autentico talento nel trasformare una vita a cui non manca niente per essere felice in un vero e proprio inferno, e non permetto a nessuno di minimizzare questo inferno: è reale, terribilmente reale».

Carlo Mazza Galanti ha scritto giustamente che Yoga non è un libro sulla depressione, quanto invece un libro prodotto dalla depressione dove quest’ultima batte la letteratura e il lettore si percepisce, a differenza di altre opere di Carrère, come un semplice spettatore invitato talvolta, anche delicatamente, alla compassione. Scrive Carrère nelle pagine che anticipano il racconto della depressione intitolato Storia della mia pazzia: «Quello che cerco di fare, nella vita, è diventare una persona migliore – un po’ meno ignorante, un po’ più libera, un po’ più amorevole, un po’ meno assillata dal proprio ego. E cerco di diventare una persona migliore perché così sarò uno scrittore migliore. Che cosa viene prima? Qual è il mio vero scopo? Nei giorni buoni mi dico che è come se fossero due cavalli aggiogati insieme – e, lo ricordo, è proprio questo l’originario significato della parola yoga: giogo al quale si attaccano, insieme, due cavalli o due bufali. Nei giorni meno buoni mi sento un impostore. Scrivo per diventare una persona migliore, è vero, scrivo perché mi piace scrivere, scrivo per il gusto del lavoro ben fatto, scrivo perché è il mio modo di conoscere la realtà. Ma scrivo anche per essere acclamato e ammirato, e questa non è di sicuro la maniera migliore per diventare una persona migliore. Il mio lavoro è il baluardo del mio ego». Ecco che allora in alcuni momenti di questo libro il narcisismo di Carrère si sgretola e Yoga offre al lettore una descrizione forse anche pietosa dell’autore, certamente molto umana.

È tutto vero? Quanto c’è di inventato? Non importa. D’altronde Lacan scriveva che «”io so quel che dico” è ciò che non posso dire. E questo precisamente da quando c’è Freud, e l’inconscio da lui introdotto. L’inconscio non vuole dire niente se non vuol dire questo: che qualunque cosa io dica e in qualunque posto mi sostenga, anche se mi sostengo bene, non so quel che dico». Carrère non sa quel che dice, o forse finge di non saperlo, ma la descrizione di un uomo solo, malato e intrappolato nelle sue idiosincrasie fa di Yoga uno dei libri più sinceri di Carrère, oltre che una disamina, profonda e perturbante, dell’animo umano, dei fantasmi che possono improvvisamente insorgere nella vita di ogni uomo.

 

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