Viaggio al termine del Novecento: su Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick

Pubblichiamo un estratto della prefazione di Umberto Cantone al saggio Viaggio al termine del Novecento. Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, pubblicato dall’UniARES di Palermo, a cura di Ludovico Cantisani, in uscita il 16 luglio in libreria e su Amazon per celebrare il ventiduesimo anniversario dalla distribuzione del film. Con disegni di Elisa Terranera, il saggio ha in appendice un’intervista esclusiva ad Emilio D’Alessandro, autista personale di Stanley Kubrick.

di Umberto Cantone

Ogni volta che si scrive del cinema di Stanley Kubrick non si può fare a meno di decollare. È un decollo (nel senso aeronautico e relativo alla droga del termine, come indicò Barthes teorico di cinema) suscitato dall’insopprimibile desiderio di “scollarsi dallo specchio” nel tentativo di recuperare quella condizione di particolare ipnosi che lo sguardo critico conduce ogni volta che si finge nel pensiero dei migliori/peggiori film della nostra vita. Scollamento quanto mai necessario, questo, nei presenti tempi di post cinema profuso (dove si va continuamente ridefinendo la dialettica tra perceptum e percipiens), nelle zone morte delle nostre visioni vividamente illusorie, e sempre più incontenibili e incontentabili, dove è fin troppo facile rimanere incollati, ormai non solo metaforicamente, al riflesso di schermi in cui lo sguardo rischia d’ingabbiarsi in quello stesso vuoto che dovrebbe liberarlo.

Restare ipnotizzati dall’incantamento di una distanza ritrovata, la stessa che ci permette di trasformare, il più criticamente possibile, ogni relazione in situazione: è questo lo stato di straniata alterazione e di ironico smarrimento a cui sa ancora indurci un cineocchio come quello kubrickiano, occhio barocco anche perché teatrale (e pittorico e letterario e filosofico e…); occhio apertamente chiuso sulle conoscenze e sui segnali del tutto del mondo che ormai da tempo ha imparato a farsi cinema.

Un brillante saggio-detour è questo aeronautico e culturalmente “drogato” Viaggio al termine del Novecentodi Ludovico Cantisani, così felicemente inquieto e oscillante nel suo esplorare (per l’ultima volta come se fosse la prima) la situazione SK attraverso Eyes Wide Shut, opera finale e non finita appartenente a quel corpus la cui mitologia in fieri continua a fagocitare ogni teoria e ogni ekphrasische vi si riferisca, come se questo facesse ancora parte dell’assurdo (“tragico” lo definisce Enrico Ghezzi) progetto di controllo del suo leggendario autore.

Nel lavorare fenomenologicamente sulle proprie sensazioni di spettatore critico, Cantisani mostra di avere capito fino in fondo che ogni ingresso in un film di SK equivale a un altro (purché sia frutto di accesa meditazione), ma anche che quelli kubrickiani sono tutti ingressi pericolosi di un unico labirinto (“dalla faticosa, crudele uscita”, scrive Cantisani stesso) il cui centro sa come risucchiarci, visione dopo visione, in una illusione (ecco l’occhio barocco) che, nell’attizzare fino all’estenuazione ogni discorso che abita il fare critico, consente a quel labirinto di manifestarsi non solo come macchina di senso, e giocoforza speculativa, ma anche come macchina  speculare (ecco il mondo/cinema). L’orizzonte analitico di questo Viaggio si delinea, attraverso il suo intricante sorvolare contesti e scenari del Novecento e à rebours, identificando alcuni degli stati teorici e poetici su cui SK ha fondato i complessi bricolage mitologici e filosofici delle sue opere, materia che è affluita tutta come lava in quel film-summa che rimane EWS. Attraverso un meditato tracciamento di “endiadi, ossimori, parallelismi”, Cantisani individua nel confronto tra mascheramento e smascheramento il pattern dell’autorialità kubrickiana (un’autorialità inscritta pienamente nel paradosso del cineasta demiurgo il cui metodo si alimenta di ostacoli, eccessi, complicazioni).

Fin dagli esordi, SK impara a sottarsi alle  trappole dello stile lavorando materialisticamente i propri materiali e puntando sulla vertigine di un geometrismo che in lui diventa esercizio concettuale di dissoluzione di ogni retorica dell’immagine, come di ogni retorica tout court: una dissoluzione necessaria ogni volta che si voglia fare emergere in un film il fondamento del reale insieme al suo rovescio fantasmatico (“Fare un film è fotografare la fotografia della realtà” recita il paradigma SK). In questo straordinario autore, il primato della sfera estetica serve dunque a conferire una qualità metacinematografica alla macchina cinema che, nel rendersi evidente in tutta la sua hegeliana ironia (una ironia dove l’“aura artistica” è sottoposta alla dialettica affermazione di un sapere “assoluto”), produce opere in cui “ogni significato è fisionomia”, per dirla con l’ultimo Wittgenstein.

Percorrendo questo sentiero teorico, Cantisani elabora brillantemente a proprio modo la tesi, intuita per primo da un critico finissimo come Flavio de Bernardinis (Segnocinema, n. 100, 1999), che individua in EWS un film dove “l’attenzione al sogno come linguaggio, e dunque al cinema come sogno a occhi apertamente chiusi rappresenta il senso-cinema non solo di Kubrick, ma del XX secolo”. Un senso-cinema che, per de Bernardinis come per Cantisani, rifugge ogni estetizzazione e intellettualismo facendosi esperienziale nel rappresentare, sempre traumaticamente e con intensità speciale, un raccordo tra visione e pensiero, come tra realtà e sogno, dando volume alla prospettiva di quel sapere (tutto novecentesco, appunto) che ha come privilegiato strumento “corporale” il cineocchio e la sua meccanica.

Non è un caso, dunque, che questo Viaggio al termine del Novecento, aperto dalla eloquente citazione di Picasso’s Last Words (la canzone di McCartney che cita le ultime parole in vita di Picasso: Drink to me, drink to myhealth/You know I can’t drink anymore), sperimenti rigorosamente il proprio trip esegetico enucleando motivi e figure di alcune opere mondo (specialmente letterarie e non solo del XX secolo) tutte organicamente riconducibili alla capitale questione tematica di EWS come di tutti gli altri film di SK, cineasta del controllo “debole”: l’umana inanità che si esprime in primo luogo nell’incapacità, che ognuno di noi manifesta e nasconde, di controllare il nostro vivere nel mondo e nei suoi giorni, insieme ai traumatici conflitti che da tale smarrimento scaturiscono, a partire dall’ambigua lotta con l’Unheimlich, il Perturbante, quella specie di angoscia alla quale, seguendo Freud, abbiamo imparato ad attribuire un valore di euforica perplessità.

Nella sua premessa, Cantisani sottolinea l’importanza di identificare come decisivo questo nodo filosofico che proietta in un unico orizzonte le catastrofiche (in senso beckettiano) parabole “personali e politiche” dei personaggi di SK (non solamente Bowman di 2001, Barry Lyndon, Johnny Clay di The Killing, il colonnello Dax di Paths of Glory, Humbert Humbert di Lolita, Jack Torrance e famiglia di Shining, e i governanti di Stranamore e Clockwork Orange). Dopo un’analisi puntuale dell’oggetto EWS e delle sue tante diramazioni (che bene si prestano alle istanze della visual culture quanto a inter- e transtestualità da cultural studies), e dopo aver dipanato i nessi con la geniale Traumnovelle di Schnitzler (commedia sul desiderio mancante e le sue abissali elaborazioni), questo saggio solleva opportuni, e spesso originali, parallelismi che recuperano come esempi di trasferimento di senso, tra l’altro, l’Alice di Lewis Carroll e il Jean Lorrain delle Histories de masques per Alice/Albertine; il Proust di Le Côté de Guermantes (usando come punctumil riconoscimento di Rachel) per indicare l’insistita meditazione dei classici novecenteschi sul concetto di “indipendenza” e “irricostruibilità” della sessualità femminile; il Leopold Bloom joyciano in prospettiva omerica per le frantumate peregrinazioni “terminali” di Bill Hartford e, per ciò che concerne la minaccia che incombe come conseguenza della ingannevole irruzione di questo personaggio nel convito orgiastico, un richiamo agli smembramenti rituali di Augustine in Sade e del re Penteo euripideo di Le Baccanti.

Da qui in poi si fanno espliciti i rimandi a Dioniso, come sentiero di accesso al territorio del mito e ai dispositivi della sua teatralizzazione (a ricordarci come proprio il teatrico sia una prospettiva assai privilegiata dalla dinamica analitica del cineocchio kubrickiano, di cui EWS si fa magnifica sintesi): il Dioniso di Nietzsche, portatore di lancinante euforia nichilista (al nichilismo e alle sue derive in SK è dedicato un intero capitolo del saggio), e soprattutto il Dioniso di Kerényi, archetipo d’erotismo e delle sue maschere sacre, che propone la schisi del soggetto come exemplum nel descrivere il carattere rituale della tragodía dove “affinché il dio stesso potesse essere impersonato da lui, in quanto vittima sostitutiva, il suo rappresentante doveva morire, e ancor prima doveva voler annientare il dio – cioè se stesso” (K.K., Dioniso, Adelphi, 1992, traduzione di Lia Del Corno).

Quando poi Cantisani esplicita il proprio interesse sia per il dionisiaco (con le sue derive neopagane), sia per Dioniso (in quanto simbolo e archetipo della polemica kubrickiana nei riguardi del capitalismo hic et nunc), collegando tali elementi a Pasolini e al suo mancato Porno-Teo-Kolossal, diventa chiaro come, per lui, i temi  della “battaglia dei sessi” e dell’odierno beffardo incombere del  “fantasma del sacro”, che rendono infinitamente attuale l’oggetto misterioso EWS, trovino un riferimento fondante (anche come chiave interpretativa) nel paradigma eros/thanatos. Un paradigma che SK elabora nel suo film-ultimo forse soprattutto per restituirci l’inquietante esperienza di pensiero basata sul folgorante assioma di JanKott nel capitolo Aloe di Eros e Thanatos (1992), secondo il quale il let’sfuckdella coppia (quel let’sfuckinvocato come punto di fuga nel celebre finale di EWS) è un atto generato dal desiderio di sottoporre a prova il partner creato da noi stessi (“due corpi e due partner immaginati e desiderati, creati reciprocamente”). Un atto la cui istanza suprema e finale è rappresentata dal corpo; in cui il corpo del partner si predispone, dopo l’atto, a ridiventare straniero (tornando a “esistere per sé stesso”) dopo essere stato ridotto a essenza solo nel tempo breve dell’atto. Segno questo che l’aspetto “paradossale e triste dell’erotismo consiste nel fatto che la sua realizzazione è impossibile”.

 

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