Breve storia della casa europea
Pubblichiamo un articolo uscito sul Venerdì, che ringraziamo.
di Giulia Villoresi
Provate per un attimo a dimenticare l’irritazione, la noia, il senso di angustia che vi procura di questi tempi la sede della vostra clausura, la casa, e ricordate l’affetto che questa parola è capace di suscitare.
Se un’immagine può servire a rievocarlo, non è quella dell’altisonante domus romana (da cui deriva per l’appunto “duomo”: la casa di Dio), ma quella modesta e intima della casupola rustica – casa in latino, hus nelle lingue di ceppo germanico – dove per secoli hanno abitato quasi tutti gli uomini che insieme costituivano un popolo. La casa è il posto senza il quale saremmo stati perduti. Se fuori è buio e freddo, dentro arde il focolare: un bagliore che si irraggia all’esterno, come se all’interno ci fosse un tesoro. La casa in effetti è, dovrebbe essere, «le coffre au trésor de la vie» (Le Courbusier), lo scrigno che custodisce il tesoro del vivere.
Santino Langé, architetto e storico dell’arte scomparso nel 2018, è tra gli studiosi che meglio hanno saputo cogliere la natura di questo umile scrigno, nei suoi connotati storici, relazionali e spirituali. Il suo lavoro più importante, in questo senso, è L’eredità romanica, ripubblicato da Jaca Book in edizione aggiornata e arricchita da un nuovo apparato iconografico. Documenta le vicende della casa europea, ovvero del materiale con cui i popoli europei hanno scelto di edificarla, la pietra. Alla sua solidità ctonia, così evidentemente simbolica («Tu sei Pietro e su questa pietra…») abbiamo associato l’immagine del rifugio, non soltanto da ogni paura, ma anche da ogni torto e discordia.
In realtà, fino al fatidico anno Mille, la maggior parte degli uomini viveva ancora in precarie strutture di legno o di paglia. Poi accadono diverse cose: il progresso delle tecniche rurali e manifatturiere, l’incremento demografico, e la nascita di un nuovo sistema di mobilità, che dai tre grandi poli di Santiago de Compostela, Gerusalemme e Roma ingloba i nuovi insediamenti monastici, fino a tutta una più minuta rete di stazioni di posta, locande e botteghe, specie lungo le strade di valico.
È così che, accanto alla città, fiorisce la campagna, non più luogo di emarginazione, ma polo della cultura popolare europea. È la nascita del paesaggio agrario moderno, e di un nuovo tipo di insediamento abitativo. Il villaggio, infatti, cambia volto: si libera del giogo feudale, si espande, assume una propria identità, che si struttura attorno al campanile e si fonda sulla pace tra famiglie, il possesso indiviso della terra, la forza di una comunità che coopera costantemente per la crescita del suo tesoro. La pietra è uno dei simboli di questo sviluppo. Oltre a essere disponibile sul territorio, esprime l’essenza stessa del monumento, raffigura l’eternità. Ma soprattutto, porta con sé i valori produttivi e spirituali dell’architettura romanica.
Possiamo osservare la diffusione dell’edilizia domestica in pietra seguendo le migrazioni delle maestranze impiegate in quelle fabbriche religiose: Bretagna, Irlanda, Galizia, Spagna, e poi Francia, Italia, Dalmazia, giù fino al Peloponneso. I primi modelli abitativi in pietra compaiono sotto forma di case molto semplici: la pianta è quadrata o rettangolare, l’accesso è al primo piano, raggiungibile con una scala retrattile; sopra, altri due o tre piani, adibiti ad abitazione e a magazzino, con un sottotetto usato per l’allevamento dei colombi.
È la cosiddetta casa-torre, l’archetipo della casa europea. Gli insediamenti meno popolosi, specie nell’area dei Paesi Baschi, delle Alpi centrali e dell’Appennino tosco-emiliano, si sviluppano attorno a questo edificio. Talvolta, invece, il nucleo insediativo è costituito da un’unica abitazione di famiglia patriarcale: è il caso della masseria siciliana e del casale toscano. Altrove è un villaggio compatto, affollato, dove abbondano le possibilità di lavoro rurale e artigianale.
Ovunque, la pietra reca un nuovo senso dell’abitare e del costruire. Talvolta si usano blocchi giganteschi: non è una semplice ostentazione formale, ma la testimonianza, nella materia, di uno sforzo che dal trasporto alla posa chiedeva la collaborazione armonica di molti uomini. La casa è il fiore di questa civiltà. Sede del nucleo patriarcale, si edifica e poi si allarga con il consenso e il sudore del villaggio. Il suo cuore è il focolare, dove si cucina e ci si riunisce: in tutte le case è la prima stanza che si incontra entrando dall’uscio principale.
In Toscana, ancora oggi, i contadini per “casa” intendono la cucina. L’aia – dove si battono i cereali, si uccide il maiale, si pigia l’uva, si spremono le mele per il sidro – è comune a più nuclei familiari. Il forno spesso serve un’intera unità di vicinato. E così l’acqua. Quanto più scarseggia, tanto più è evidenziata monumentalmente la sua origine, come documentano le splendide vere da pozzo del Carso e delle isole della Dalmazia. Viuzze, piazzette, passaggi interni agli edifici, rivelano come la vita familiare si proiettasse continuamente nello spazio della comunità.
Questo modo di abitare, finalmente caldo e confortevole, forma l’identità domestica dell’Occidente europeo, e anche il suo paesaggio, fino alle soglie dell’Ottocento. Poi, con la Rivoluzione industriale, cambia tutto. La pietra perde a poco a poco la sua funzione strutturale, fino a essere completamente sostituita, nel Novecento, dall’acciaio e dal cemento armato. È dunque questa la fine della pietra? Ovviamente no. Lo documenta un recente volume pubblicato da Phaidon – Stone, a cura del graphic designer William Hall – che partendo dalle piramidi arriva ad architetture assolutamente contemporanee, in cui la pietra è tornata ad assumere un ruolo importante. In effetti, come spiega la storica dell’architettura Penelope Curtis, l’architettura colta non ha mai davvero smesso di utilizzarla. Non lo ha fatto nemmeno all’apice del movimento moderno: basti pensare al padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe (figlio di uno scalpellino), decorato con lastre di onice dorato, travertino e marmo verde. Non lo ha fatto nemmeno quando il territorio non offriva pietra: nel 1997, per il Getty Museum di Richard Meier, furono trasportate a Los Angeles tonnellate di travertino delle cave di Tivoli.
La differenza fondamentale è che oggi la pietra non viene più usata come materiale strutturale, ma come rivestimento, per nobilitare l’architettura. La sua presenza ha un effetto evocativo, ovvero pone l’edificio in rapporto con uno dei due fondamentali significati tradizionalmente veicolati dalla pietra: quello istituzionale, celebrativo, e quello vernacolare, di cui l’edilizia domestica del Medioevo è uno degli esempi più significativi. Marmo, granito, travertino, quarzite, rievocano i fasti dei monumenti imperiali. Pietre tufacee e calcaree rimandano a una tradizione più locale, alla natura materica e terragna dell’architettura.
L’edificio «completamente di pietra», invece, è scomparso. Insieme ai sistemi produttivi che lo avevano concepito. Benché in qualche regione, scrive Langé, capita ancora di imbattersi in uno scalpellino che ha ricordi personali dell’antica cultura edilizia della pietra.