Critica come fraternità: Marta Roberti

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Nell’immagine: Marta Roberti, Yonghe District, New Taipei Morning Market by Night, 2015

Questo pezzo, il primo di un ciclo sulla “Critica come fraternità”, è uscito su Artribune.

L’opera d’arte è una liberazione, ma perché è una
lacerazione di tessuti propri ed alieni.
Strappandosi, non sale in cielo, resta nel mondo.
Tutto perciò si può cercare in essa, purché sia l’opera
ad avvertirci che bisogna ancora trovarlo, perché
ancora qualcosa manca al suo pieno intendimento.

Roberto Longhi, Proposte per una critica d’arte (1950)

Critica come fraternità: non semplice complicità tra critico e artista, orientata unicamente a interessi pratici o a un sostegno reciproco che non oltrepassi gli obiettivi vicini; ma “fraternità”, la Fraternité del motto francese, intesa come “Non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi” (Dichiarazione dei diritti e doveri del cittadino, Costituzione dell’anno III, 1795). Una nuda comunanza di intenti e di ricerca: scegli i tuoi fratelli, coloro che stanno convergendo oscuramente verso il medesimo punto, e loro scelgono te. Percorrete insieme una strada.

Una comunità umana: fatta di propositi, opere, telefonate, idee, rabbie, scambi di mail e di intuizioni. Il senso di questa nuova serie consiste perciò nel rintracciare questa possibile “lacerazione di tessuti propri e alieni” che è l’opera – e il percorso di ricerca personale e collettiva per arrivare ad essa.

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Marta Roberti sembra uscita da un fumetto. Di ritorno da un anno e mezzo a Taiwan: era andata lì per una residenza, pure breve, e poi ci è rimasta.

Nel caldo atroce di inizio agosto, compare in fondo a via Re David con un cappellone nero a falde larghissime che sembra uscito dritto dritto da Coven, la terza stagione di American Horror Story, un grande zaino e un comodo vestito, neri pure quelli. Tutto nella sua figura, così come nelle sue opere, sembra richiamare e condensare – consapevolmente o no – l’immaginario biopunk degli ultimi vent’anni, caratteristico di autori come Paul Di Filippo, Paolo Bacigalupi, Octavia E. Butler.

Il suo lavoro ruota ossessivamente attorno al concetto di natura naturans: qualcosa che proviene in egual misura dalla fantascienza (e pochi luoghi al mondo come Taipei,che sembra partorita integralmente dalla mente di William Gibson, intrattengono con questo genere una relazione strettissima…) e dal pensiero rinascimentale e prescientifico.

Nella sua ricerca, solitaria difficile e entusiasmante, Marta sta cercando ostinatamente di dar forma e corpo a una sorta di “supernatura” (Super_Natural si intitola infatti uno dei suoi ultimi progetti): una natura resa talmente artificiale e artistica da costituire un intero paesaggio culturale, umano, in cui immergersi. Questo aspetto immersivo è centrale, dal momento che le opere e gli allestimenti sfidano e stressano continuamente i confini tra pittura, installazione, video.

Il fantasma vivo, sano, concreto e critico di Giordano Bruno aleggia ovunque, nei suoi disegni e nelle sue riflessioni, sempre intento a scovare le connessioni segrete tra gli elementi del mondo: l’unità, il fondamento, l’unica sostanza di cui sono fatte le cose, l’intelletto universale che “da dentro il stipe caccia i rami; da dentro i rami le formate brance; da dentro queste ispiega le gemme; da dentro forma, figura, intesse, come di nervi, le fronde, gli fiori, i frutti…” (De la Causa, in Dialoghi italiani, Firenze 1958, p. 233); che “da l’intrinseco della seminal materia risalda l’ossa, stende le cartilagini, incava le arterie, inspira i pori, intesse le fibre, ramifica gli nervi, e con sì mirabile magistero dispone il tutto” (ivi, p. 234).

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Da mesi ripenso a un’opera, Yonghe District, New Taipei Morning Market by Night (2015), esposta presso la Meme Art Space Hong Kong Foundation di Taipei. Il punto di partenza sono le fotografie di un mercato cittadino scattate durante la notte; l’operazione successiva, il complesso trasferimento su carta e i colori retroproiettati, restituisce l’atmosfera di sospensione spettrale e metafisica di un luogo che si sgancia da ogni punto di riferimento. Il disegno modulare, appeso nel vuoto, si articola così come un complesso sistema organico, un’accumulazione vivida:“Centinaia di buste di plastica rosa pressate in blocchi compatti sono sospese nel vuoto vicine a lampadine spente, neon lunghi e tubolari agganciati a ragnatele di fili elettrici attorcigliati a vecchi ventilatori rotanti immobili, che guardano rotoli di plastica galleggianti nell’aria sopra a tavole metalliche vuote e alle cassette per la verdura impilate. C’è un equilibrio immobile ma densamente vivo in questo assemblaggio improbabile di elementi che formano quadri astratti di forme”, come afferma l’artista stessa.

Forse, l’idea che più ci avvicina al suo universo creativo e formale è quella di POST-HUMUS, il titolo di uno dei suoi nuovi progetti: questo neologismo gioca sapientemente sull’ambivalenza tra un humus naturale come radice di umanità, unito a un nuovo modo (post) di concepire e praticare questa relazione fondamentale, e una condizione definitivamente, serenamente “postuma” che ci permette di considerare il rapporto tra noi stessi e la realtà che ci circonda in modi sensibilmente diversi da quelli novecenteschi. Una condizione fantasmatica che costruisce uno “stato d’animo”, una disposizione.

Marta mi sembra perciò una delle incarnazioni del futuro prossimo italiano – di questo XXI secolo la cui forma comincia a modellarsi.

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