Giustizia proibita? La guerra, la pace e le contraddizioni del pacifismo
di Davide Grasso
Durante la protesta organizzata a Roma sotto il titolo “Pace proibita” è intervenuto, nell’ambito di un (fin troppo) variegato insieme di persone, il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, che molti hanno imparato ad apprezzare in questi anni per coerenza e onestà intellettuale, oltre che per le notizie che, sotto la sua direzione, Avvenire fornisce su contesti di guerra in tutto il mondo. Tarquinio ha condannato il sostegno di vari governi, e di una parte dei cittadini dei loro paesi, all’invio di armi all’Ucraina: ha detto che «gli eroi sono quelli che non uccidono» e che esiste una «verità semplice: guerra più guerra non fa pace».
Tutta la storia ci insegna, però, che questa è soltanto una frase ad effetto. Si possono certo muovere osservazioni critiche all’Ucraina e alla composizione politica della sua resistenza, ma vorrei far notare che la posizione pacifista è fuori luogo se articolata in termini di principio. La violenza è stata usata per fini ben diversi nella storia, molto spesso opposti, e talvolta ha permesso di ottenere dei risultati. Non solo, ma anche le sfruttate e gli sfruttati, le colonizzate e i colonizzati hanno usato talvolta la forza per liberarsi, arrivando a provocare guerre civili e internazionali. Tarquinio non è equidistante tra Russia e Ucraina, ma lo è in maniera aprioristica e assoluta sulla scelta di usare le armi da una parte o dall’altra. Null’altro, del resto, può motivare un’opposizione generale e di principio a fornire armi di qualunque genere a chiunque resista in quel paese, in qualunque fase o forma di questo conflitto.
Non è la resistenza in sé, per il direttore di Avvenire, ma la resistenza violenta che va evitata, poiché non migliorerebbe il contesto creato dall’aggressione. Questo è falso. La lotta armata ha migliorato, pur con costi molto alti, molti contesti. L’Algeria o il Vietnam sono paesi imperfetti, ma da colonizzati non stavano meglio. L’Europa e l’Africa occupate dall’Italia e dalla Germania non vivevano scenari equivalenti a quelli prodotti dall’azione sovietica e angloamericana. La rivoluzione francese, la rivoluzione russa non avrebbero dovuto resistere contro le potenze che le assalivano per restaurare lo status quo? L’idea di autodeterminazione dei popoli, di diritti umani, o di diritti del lavoro e delle donne non hanno fatto capolino nel mondo per volontà di Dio, come probabilmente crede Tarquinio, ma attraverso lotte talvolta aspre contro una violenza ben più sistematica e micidiale.
Il caso ucraino ha le sue peculiarità come tutti i casi. Questo non significa che sia l’unicum irripetibile e irrelato con il resto dell’universo cui molti benaltristi vorrebbero ridurla. È la condanna indistinta e decontestualizzata della guerra, semmai, ad assimilare tutti gli episodi storici in maniera fuorviante. Ricordare il dolore che ha reso possibile le conquiste dell’umanità è spesso per i pacifisti prova di una latente menomazione morale: si viene subito sospettati di compiacimento per questo tragico aspetto della condizione umana. La verità è che tra chi combatte esistono persone molto diverse. Non è affatto vero che nessuno, tra chi combatte in Ucraina o nel mondo, si rende conto del problema che la violenza costituisce. Affermare che chiunque fa la guerra è un criminale è una mancanza di rispetto per le cadute e i caduti delle guerre che sono o sono state necessarie.
Necessaria la guerra non è mai, direbbero i pacifisti, necessaria è soltanto la pace. A qualsiasi costo? Che posto ha la giustizia? Quanta pace siamo disposti a sacrificare: è oggi, come non mai, domanda imprescindibile, per opporci a chi vorrebbe giungere a scatenare una guerra mondiale; ma quanta giustizia siamo pronti a sacrificare, quanta ingiustizia debba essere imposta impunemente (ad altri per di più, non a noi) dai carri armati di un colonizzatore è domanda altrettanto importante. Gridiamo per la Palestina e alle manifestazioni di Black Lives Matter: «No Justice, No peace». Più che un monito, è un dato di fatto. Vale anche per la Russia, e vale anche per i crimini commessi in passato dai governi ucraini a Odessa o nel Donbass. Comunque la si guardi, l’Ucraina non ci insegna che condannare la resistenza sempre e comunque sia possibile.
Tarquinio ha posto giustamente, a sé stesso e alla platea, la domanda: «Ma noi, che vogliamo pace e chiediamo tregua immediata, come lo fermiamo Putin?». Curiosamente, in tutto il resto dell’intervento, non ha risposto. Ha affermato che il sostegno in armamenti all’Ucraina serve «non per ‘resistere’, non per ‘liberare’, ma per ‘vincere’». Apparentemente si riferiva alla pericolosa e strumentale retorica muscolare di Biden, che non pone limiti né condizioni – politiche o negoziali – al rifornimento militare, puntando ad allungare la guerra e a logorare la Russia; ma questa dissociazione apodittica e impressionistica tra resistenza (e persino liberazione) da un lato, e vittoria, dall’altro, è espressione di qualcosa di molto più profondo: dell’idea che la vittoria come tale sia in qualche modo di destra, imparentata col male.
Se già combattere è una scelta difficile e colma di dubbi, farlo senza tentare di prevalere è da criminali. All’iconografia mentale delle destre, che seppellirebbero l’umanità intera sotto le vittorie astratte del mito o dell’accumulazione, dovremmo contrapporre un’idea alternativa di vittoria, relativa a obiettivi e progetti differenti, ma sempre abbastanza concreti da essere perseguiti fino in fondo. Serkeftin, “vittoria”, è il saluto delle Ypg siriane che si battono contro gli islamisti e Assad per un pluralismo e un autogoverno lontani mille miglia dagli errori politici commessi in questi anni da Mosca e da Kiev; e tuttavia anche chi ha fini fino in fondo rivoluzionari, e senza dubbio rivolti alla pace, se combatte è per vincere. Quando sono state attaccate, da Kobane ad oggi, le Ypg hanno suscitato simpatia a sinistra; quando hanno attaccato, liberato e vinto – come a Raqqa o a Deir el-Zor – ho notato spesso maggiore freddezza.
L’atmosfera deprimente e ovattata in cui il capitalismo ci ha fatto crescere ha prodotto questo strano effetto psicologico: la pura e privilegiata contemplazione romantica della sconfitta, quasi fosse un valore. Amare soltanto gli sconfitti o la sconfitta, o proporre pratiche votate alla sconfitta, mette certo al riparo dalle responsabilità. L’intervento di Tarquinio svela una sinistra che è davvero cristiana, con o senza Dio. La realizzazione politica del concreto è il male: come sempre per la quella cultura, tutto è dovuto all’anima, niente al corpo; tutto al cielo dei principi, niente alla terra imperfetta delle loro applicazioni. Lo sconfitto avrebbe in sé stesso, si presume inconfessabilmente, un bene più vero di quello (apparente) di qualsiasi vincitore, fino al più nobile; sarebbe necessariamente più giusto, e sarebbe stato sconfitto perché giusto (e viceversa).
Il pacifismo è imparentato da sempre con questa confusione tra rettitudine interiore e giustizia sociale. Per i cristiani, anche quando atei, soltanto l’intimità conta; e se il cristiano credente può parlarne con Dio, l’ateo cristiano non può parlarne che sui social, squalificando moralmente il potere e persino chi gli si oppone pensando che questo basti per renderlo superiore a entrambi. «Ma voi, voi altri, voi che avete l’unica risposta – la guerra – e tutte le armi, tutte le strategie e tutti i calcoli giusti, lo avete forse fermato il signor Putin?». Lo chiede Tarquinio con un gesto retorico ben noto, che identifica surrettiziamente chiunque sostenga la tesi della resistenza con una parte dei poteri costituiti, uniformando ancora una volta molto di tutto ciò che è invece variegato e ben diverso.
Ho sempre trovato che la violenza morale del pacifismo e della non violenza pura, che influenza anche una certa parte del mondo femminista e queer, consista nella crudele elusione delle distinzioni tra chi accetta la necessità della violenza, eventualmente per combattere l’ingiustizia, e chi la usa per affermare il dominio; così uniformando storie, vite e scelte tra loro opposte in un unico peccato astratto o in una meccanica e indifferenziata espressione della mascolinità patriarcale. Il «voi» assimilatore e generalista così pronunciato non è per me meno violento del «Putinversteher» rivolto a chiunque obietti all’inaccettabile supporto di Zelensky per il battaglione Azov, identificando ogni critica al governo ucraino o all’occidente con il Cremlino. Chiunque sia favorevole a inviare armi all’Ucraina, eventualmente in modo trasparente, limitato e condizionato – ossia in contrasto con le scelte del parlamento e del governo italiani – è suo malgrado ridotto alla propaganda governativa.
Proviamo ad immaginare, allora, che quel «voi» fosse rivolto davvero a chi, migliaia di uomini e donne, sta combattendo nelle fila dell’esercito ucraino, o delle unità volontarie, contro l’esercito russo. «Lo avete forse fermato il signor Putin?». Senza la resistenza armata l’invasione sarebbe stata più estesa e le sue conseguenze più gravi. Dopo il ritiro russo da nord, la guerra prosegue in zone maggiormente limitate, benché non certo in modo meno violento. Questa nuova condizione permetterebbe di negoziare dei compromessi. Se non avviene è perché non sono interessati alla tregua né l’amministrazione statunitense né il Cremlino, che tenta di espandersi sulla costa per ragioni economiche che non sono né antifasciste, né umanitarie. La rinuncia ucraina alla Crimea e al Donbass, quest’ultimo eventualmente posto sotto tutela internazionale per garantire il ritorno dei profughi ed elezioni realmente democratiche, dovrebbe essere lo sbocco di una mediazione; ma la conquista totale dell’Ucraina, prevista il giorno dell’invasione ed impedita dalle armi della resistenza, avrebbe annullato lo scopo stesso dei negoziati e segnato un punto di non ritorno dalle implicazioni difficili da immaginare.
Premettendo che mi considero un nonviolento e che sull’opportunità di inviare armi all’esercito ucraino mi interrogo e non ho una posizione netta (sono tendenzialmente contrario, ma vedo le contraddizioni della mia posizione e rispetto chi giunge a una conclusione diversa), provo a muovere alcune osservazioni:
1- non ho l’impressione che Tarquinio parli a quelli come Davide Grasso. Ho l’impressione che parli agli strateghi (come dice lui) dei paesi occidentali, a chi ha in mano il potere di scegliere la strada del riarmo generalizzato, di una nuova espansione della Nato, e che lui vorrebbe mettere davanti alle loro responsabilità, all’ipocrisia di mostrare empatia solo per alcune guerre e a giorni alterni, all’esigenza di percorrere altre strade diplomatiche e negoziali che a torto o a ragione ritiene non essere state abbastanza esplorate. Comprensibilmente all’autore dà fastidio essere “surrettiziamente identificato (…) con una parte dei poteri costituiti” (come peraltro a me che mi definisco pacifista dà fastidio essere preso per un filo-Putin o equidistante). Ma non lo fa Tarquinio, che infatti si rivolge a chi ha “tutte le armi” (io interpreto: i politici, gli strateghi, i giornalisti che acriticamente sostengono il riarmo dei rispettivi governi, e anche i produttori e commercianti di armi). E non lo fa la maggior parte dei pacifisti che conosco, che si interroga e discute sulle strategie possibili senza essere ossessionato dall’idea di squalificare gli altri.
2- non mi pare che il pacifismo e la nonviolenza si pongano come obiettivo primario quello di costruirsi una superiorità morale e squalificare moralmente gli avversari. Certo i pacifisti non sono estranei alle invettive pervase anche di indignazione morale (penso a certi passaggi di “Lettera ai cappellani militari” di don Milani, ad es.), ma di solito sono invettive rivolte a chi detiene il potere e lo usa non a fini di liberazione ma di oppressione e di consolidamento della violenza strutturale. Mi sembra molto improbabile che gli obiettori di coscienza negli anni 50-60, quelli che finivano in carcere per la loro scelta, fossero animati dal disprezzo verso i propri coetanei che invece sceglievano di fare il servizio militare: lo facevano, credo, per esplorare, indicare o immaginare un’alternativa. Nel merito di questa guerra, mi sembra molto più facile costruirsi una coerenza e una superiorità morale appoggiando la resistenza ucraina (che legittimamente punta a vincere contro l’invasore) anche con le armi. La maggior parte dei pacifisti che conosco è riluttante all’invio di armi non sulla base di un giudizio morale a priori (“non se le meritano”, “non sono davvero eroi perché uccidono”) ma sulla base di un ragionamento consequenzialista: l’invio di armi non rischia di compromettere la nostra posizione di paesi non belligeranti che ci permetterebbe di mediare in una possibile situazione negoziata? non compromette una consuetudine che era in via di consolidamento, cioè il divieto di fornire armi per una guerra a cui non si partecipa? non ci porrà davanti a dilemmi difficili in futuro (perché non diamo armi ai palestinesi, agli uighuri, ecc.)? Sono ragionamenti discutibili e criticabili, certo. Ma magari ripartendo da questo livello del dibattito eviteremmo polarizzazioni inutili. Non è il pensiero nonviolento a compiere una “crudele elusione delle distinzioni”, ma l’attuale logica della contrapposizione (esasperata dai media mainstream e dai social) che ha contagiato entrambi i lati della discussione.
3- nella pratica, non mi pare che la resistenza armata e quella nonviolenta siano mutualmente esclusive, anzi. Personalità importanti del pensiero nonviolento mostrano una complessità molto maggiore di quella che l’autore sembra riconoscere: nello stesso tempo in cui don Milani attacca l’impianto militarista dello stato italiano del tempo, riconosce il ruolo della resistenza antifascista; Lidia Menapace, staffetta partigiana, è diventata una delle rappresentanti più importanti del pacifismo; ecc. Ed è innegabile che nella storia le insurrezioni violente o la guerriglia si siano molte volte combinate con occupazioni, scioperi, manifestazioni di piazza, boicottaggi o sanzioni (tutti metodi di lotta nonviolenta). Alla dominazione coloniale hanno inferto colpi devastanti tanto i combattenti algerini quanto l’ahimsa di Gandhi, tanto i Mau Mau quanto l’intensa opera di sensibilizzazione e gli appelli al boicottaggio degli attivisti sudafricani in tutto il mondo.
4- se metodi di resistenza violenti e nonviolenti non sono mutualmente esclusivi, allora perché teorizzare la nonviolenza? A mio modesto parere, perché è necessario per immaginare futuri alternativi in cui la risoluzione dei conflitti non passi più attraverso le armi, e l’equilibrio o la stabilità delle relazioni internazionali non passino più attraverso l’imperialismo o le sfere di influenza. Chi ha scritto l’art. 11 della Costituzione non l’ha fatto animato dall’ingenua “condanna indistinta e decontestualizzata della guerra”, ma da un ambizioso progetto volto ad eliminarla dalla storia. I militanti antinuclearisti e pacifisti dei decenni della guerra fredda magari ci sembreranno dei fricchettoni, ma un po’ dei trattati di non proliferazione nucleare non lo dobbiamo anche a loro? Forse la violenza è ineliminabile dalla storia dell’uomo, forse no (mi ricordo parecchi anni fa un dibattito sul tema, non so più se su Liberazione o sul Manifesto), ma solo un movimento che si dà gli strumenti per immaginarne e teorizzarne l’assenza può riuscire a ridurla in modo significativo.
5- un’ultima cosa meno importante sul cristianesimo, visto che mi sento toccato sul vivo. A parte che nei fatti molti cristiani hanno partecipato a guerre e lotte di liberazione (la Resistenza, la guerriglia in America latina, le lotte anticoloniali in Africa centrale, ecc.), e lo hanno fatto per vincere; e a parte che mi sembra che qui si confondano i piani della sinistra e del cristianesimo (Tarquinio dirige un quotidiano cattolico, non “di sinistra”) e che non si menzioni il fatto che l’idea di vittoria è presente nell’immaginario della sinistra da molto tempo prima dell’Ypg (“hasta la victoria siempre”?). Però l’autore ha ragione a identificare un elemento specifico del cristianesimo nella “debolezza” della croce e nella sconfitta, almeno parziale, di Gesù (certo sentiremo più facilmente riflessioni di questo tipo a Bose o ad Assisi, meno tra i Legionari di Cristo o Militia Christi, per dire che anche nel mondo cattolico le sensibilità sono piuttosto differenziate). A mio modo di vedere, questo però non porta a una romanticizzazione o una feticizzazione della sconfitta e della debolezza. Porta piuttosto al fatto che, nell’immaginario cristiano, l’incarnazione divina condivide con l’umanità la vulnerabilità alla sofferenza e alla morte (anche se poi la “vittoria” sulla morte e sul peccato avvengono, su un altro piano). Questo elemento è una risorsa immensa per chi nel mondo cristiano promuove la condivisione e la vicinanza ai poveri, la lotta alle disuguaglianze, la critica al potere e all’oppressione (vedi teologia della liberazione, chiese di base, preti operai, e tanti altri esempi che conosci sicuramente meglio di me). Anche se fossi ateo, farei attenzione a liquidare questa componente.