Firenze è una signora stanca e accaldata, che struscia i piedi pesanti sul ciottolato infuocato di piazze e piazzettine mentre il circo umano di turisti e ambulanti si inerpica per le viuzze e sosta ai crocicchi per improbabili selfie con pose plastiche. La grande madre osserva tutti, lei che accoglie e allontana, che abbraccia e distanzia: Fiorenza così esausta però non penso di averla mai vista. Trentasette gradi, un’umidità che ruba il respiro. Riprendi fiato, le dico, distenditi anche tu, riposa. E riconquista il languore che ci ha lasciati intontiti dinanzi alla tua bellezza. Ora, così scomposta e obliqua, mi pare di vivere una città che manca della pulsione di un tempo, priva non solo di un’anima ma anche di un corpo, di quella famosa ed esagerata fisicità espressa ovunque. Non macerarti, non contraddirti, non violentarti. Una città che ha bisogno di un giaciglio, che necessita di riposo e silenzio, ecco cosa sei. Ed è un vero coup de théâtre che in questi ultimi mesi sia stata la culla di una personale importantissima come quella dedicata all’artista britannica Tracey Emin.

Sta per chiudersi in questi giorni infatti Sex and solitude, la più grande mostra mai allestita in Italia sulla rappresentante di punta della YBA, curata da Arturo Galansino e inaugurata lo scorso marzo a Palazzo Strozzi. È in questi ultimi giorni di passione che decido di visitarla, vincendo pregiudizi sciocchi e afa bestiale. Mi sembra che le opere e il pubblico, dopo mesi in cui di Emin si è parlato ovunque, riescano a liberarsi ulteriormente del guinzaglio della propria madre e madrina, in una vulnerabilità totalmente esposta di fronte alla quale non possiamo che ritrovarci piccoli, sicuramente impreparati, fra l’incanto e la ferita, fra un inutile pudore e una desiderio dolorante.

Il percorso che si snoda per le dieci sale di Palazzo Strozzi – inglobando anche un’opera al neon sulla facciata in bugnato e un’enorme scultura bronzea che invade il cortile interno – racconta, a partire dal titolo, un binomio che racchiude l’essenza più intima della nostra esistenza: come si coniuga il nostro desiderio dell’altro con la solitudine? Ci sentiamo soli quando siamo connessi – anche carnalmente – all’altro o la consapevolezza della solitudine esiste solo nell’isolamento che si avvicenda nei giorni senza l’altro?

La narrazione, veritiera e complessa, a volte sgradevole, vissuta e voyeuristica insieme, portata avanti da Emin, che racconta storie di corpi desideranti al di là degli anni, della malattia, abbraccia corpi che si trovano e si perdono. Corpi sottratti a se stessi dal deterioramento, corpi che si ribellano, che sfidano le convenzioni e provocano in chi li osserva una molteplicità di sentimenti: spavento, imbarazzo, intesa. Ci si sente messi in scacco con Tracey Emin, e siamo costretti a stare al gioco durante il tempo trascorso assieme alla sua arte. Perché non ci è possibile – osservando, fotografando, instagrammando – far finta di nulla. Non sono spettri quelli che si aggirano in queste tele, su questi ricami, ma uomini e donne in carne e ossa, toccati dalla vita e dunque toccanti. Ciò che viene confessato a chi si aggira per Palazzo Strozzi, in questi ultimi giorni di mostra, non è niente di meno che il mistero di un essere umano, l’aria che respiriamo, il materiale grezzo della vita stessa.

Obliquo e inatteso, il modus operandi di Emin racconta una fisicità costante, un mondo caldo e istintivo: se le gocce di pittura acrilica sulla tela ricordano liquidi corporei, solo guardando le sculture da molto vicino si possono trovare le impronte digitali dell’artista. Che vive dentro e assieme all’opera. In questi mesi si è molto parlato di Sex and solitude, delle sue oltre sessanta opere, realizzate in un lasso di tempo che va dagli anni Novanta ai giorni nostri. Utilizzando una vasta gamma di tecniche – ricamo, appliqué, neon, pittura, installazioni, film, fotografia, incisione, assemblaggio e scrittura – l’artista crea opere di immagini e testo di una schiettezza disarmante, che utilizzano una narrazione autobiografica in prima persona combinata con frasi scorrette e goffe, il tutto con un risultato di immediatezza e autenticità inedite. Ed è qui che intimità e vulnerabilità pongono domande senza offrire risposte immediate. Empatizzare con opere che parlano di intimità ferita, di dolore trasformato in icona, di sessualità esposta può essere complesso anche perché il percorso tracciato nel museo fiorentino non ammette scorciatoie: l’arte di Emin non ci chiede di essere amata ma di lasciarsi vivere, permettendole e permettendoci il racconto onesto e brutale di un passato senza censure.

Addentrandoci nelle sale della mostra dividiamo lo spazio con le sue figure scarne, tracciate con rapidi gesti del pennello su carta e tela, abitanti di un mondo in cui desiderio, amore, sesso si accompagnano spesso al dolore. Questi temi autobiografici e confessionali costituiscono da sempre il materiale emotivo attraverso il quale l’artista britannica è nota ormai da tempo. Dalla prima sala che accoglie un neon alto quattro metri e mezzo, vero e proprio amplificatore emotivo, sexy e audace, vibrante e candido – si tratta di Love Poem for CF – e due grandi tele, scopriamo una produzione che ha toccato serie fotografiche bellissime – come Naked photos. The life model goes mad -, lo spazio ricreato di una performance del 1996 – Exorcism of the last painting I ever made – in cui la confusione degli oggetti conduce lo spettatore all’interno del caos interiore di Emin, immergendolo non più in una performance ma in una reale esperienza di vita. Esorcismi, tentativi di liberazione, la bellezza della vita di una strega. Si tratta spesso di quadri di grandi dimensioni, lirici, sottili nello sfumare dal figurativo all’astratto, con un tratto sicuro e morbido che sembra farsi scrittura, anche quando non integra le parole, e con un’armonia cromatica che poggia sull’essenziale. Una fusione malinconica è il nucleo di Sex and solitude, che, lontano da ogni pornografia, indaga il bisogno di intimità come dimensione di esistenza, oltre che di riconoscimento autentico di sé e dell’altro. La selezione delle opere celebra una sempre maggiore affinità con l’arte di Louise Bourgeois con la quale condivide l’assertività della propria soggettività femminile e l’ossessione per i temi del vuoto, dell’assenza e della lacerazione. E ancora grandi scritte, grandi sorprese, dichiarazioni spietate ed esplicite, acrilici dal tratto grosso e dalla pennellata sicura, libera, trapunte dalle cuciture irregolari, meravigliosi calicò ricamati, sculture grandi e piccole in bronzo ricoperte da nitrato d’argento o patina bianca. Film d’animazione, piccoli disegni, appliqué con tessuti floreali, incisioni con monotipo serigrafico. La produzione di Emin tocca tutto. E da tutto si lascia toccare.

Emin si rappresenta spesso sdraiata e nuda, a gambe aperte, mentre si masturba o durante l’atto sessuale con figure maschili che sembrano fantasmi. Sono immagini tratteggiate rapidamente, nel tempo divenute la sua firma – tutte opere che dimostrano la duratura influenza di Schiele, la cui Onanierende Frau mit gespreizten Schenkeln del 1913 ha avuto un impatto notevole sull’arte di Emin. Queste opere, da Not Fuckable a Coming Down From Love, dall’esplicito contenuto erotico, permettono di capovolgere l’antico paradigma della donna come oggetto silenzioso e passivo, sostituendolo con quello di un soggetto femminile attivo, padrone della propria sessualità. Godendo dell’istrionismo e usando i tragici eventi della sua vita come contenuto per parlare al pubblico di tutto il mondo, celebra così una sessualità senza vergogna e rivendica il proprio corpo come quel territorio dove si combattono le guerre più private e, insieme, più collettive. E sempre, sempre politiche. Il corpo diventa così fulcro di una ricerca artistica che trasforma l’autobiografico in universale. Riscattata dal ruolo passivo di musa del genio maschile, la nudità femminile si fa veicolo di amore e passione, ma anche di dolore e vulnerabilità. Nonostante la sua straziante storia personale, la litania di abusi subiti e i suoi argomenti spesso scatologici e sessuali, Emin ha un modo affascinante di usare il linguaggio, sposando frasi scritte a mano romantiche e a tratti umoristiche con delicati ricami su tessuto, o in neon da tenui colori zuccherini.

Quello immaginato da Emin è un amore desiderato, abbandonato, addolorato, carnale, mentale. C’è Emin in ogni opera, sempre e comunque, i suoi occhi d’abisso, i suoi antichi tatuaggi, in un intreccio inestricabile tra eros e vuoto esistenziale, sesso e solitudine, quel binomio arcaico plasmato da millenni di condizionamenti culturali, religiosi e sociali. Un patto velenoso che ha trasformato la sessualità in una gabbia dorata, dentro la quale milioni di codici morali hanno deformato l’essenza primigenia dell’eros, riducendolo a strumento di potere o a bandiera di ribellione. Così, tra annientamento bigotto e asettica voluttuosità, si è finito per incatenare il sesso alla solitudine in una dialettica travagliata che non vuole solo essere il cuore della mostra ma gettare un ponte alla ricerca del miglior equilibrio chiedendo a chi osserva se l’arte potrà mai restituire dignità al sesso sottraendolo tanto alla prigionia morale quanto alla banalizzazione consumistica.

Su questo e molto dovremmo interrogare esperti e artisti, pubblico pagante e presenzialisti dei vernissage, anche se forse la più importante personalità da interpellare a riguardo sarebbe Firenze, fra il distrutto e il distratto, città ferma. Quando esco dalla grande corte interna sono quasi le sei del pomeriggio: saluto nuovamente la maestosa figura femminile in bronzo – un corpo gigante e mutilato di oltre sette metri –  frammentato nell’esecuzione, eppure così potente e vulnerabile. Lascio che i miei occhi si attardino sul mondo fuori dalla maestosità rinascimentale di Palazzo Strozzi, la città riesce a scrivere il silenzio di acqua e pietra che, come un coprifuoco, si sparge appena fuori dal centro, e poi i colori tutti diversi dei palazzi mi stringono forte, come un corpo stiracchiato. Muscoli e carne, viscere e sensi, vorrei abbracciare Tracey Emin, chiederle di ripartire da qui, rifiutando il passato, consumando il presente e guardando al futuro.

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Autore

beatricepagni@minimaetmoralia.it

Beatrice Pagni è nata e cresciuta nella campagna toscana, figlia della miglior provincia cronica. Redattrice di minimaetmoralia, ha scritto e continua a scrivere di musica e cultura per diverse testate (Sentireascoltare, Il Mucchio Selvaggio, Il Foglio Letterario), oltre ad aver esplorato il mondo della web tv con l'esperienza targata Decamerette.

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