Kiki Gyan, un vortice disco dimenticato

L’Eden Revival Church di Kokomlelmle, nell’entroterra di Accra, è un enorme fabbricato rosso mattone che sembra uscito da un quartiere immaginario creato con una delle prime versioni di The Sims, il videogioco di simulazione che furoreggiava sui nostri pc nei primi duemila.

È il dieci giugno del duemilaquattro e un uomo magrissimo entra in chiesa per tentare l’ultima carta, quella delle preghiere, delle speranze, perdute e ritrovate. Kiki Gyan ha compiuto quarantasette anni da pochi giorni eppure, sulle spalle, pare portarne ottanta; entra nel bagno della chiesa e vi rimane per circa mezz’ora. Poi la sua storia si chiude con il rumore sordo dei pugni alla porta di chi è rimasto fuori e cerca di capire cosa sia successo. Sul pavimento del gabinetto il corpo morto di Kiki disegna la fine del bambino prodigio del Ghana, dell’artista che ha toccato con le mani milioni di dollari e che se ne va con settanta centesimi in tasca. Evapora una vita enorme, un talento troppo grande, un successo vorticoso che lo ha reso piccolissimo e tossico, malato e impenitente, padre e infedele, genio e sciocco.

Questa è la storia di Kiki Gyan, un’illusione interrotta, un vortice disco che continua a suonare sui nostri piatti.

Fra i più talentuosi pianisti al mondo, Kiki Gyan è stato anche uno dei pionieri di quella novità che si stava imponendo intorno alla metà degli anni settanta, il sound Afrobeat e i suoi fratelli Afro-funk e high life.

È necessaria qui una breve introduzione su quella che fu la storia dell’high-life e su cosa successe dopo: alla vigilia dell’indipendenza, il genere high-life rappresentava la musica alla moda all’interno dell’aristocrazia ghanese. Era la musica dell’alta società e delle élite locali che si radunavano per feste da ballo in cui le persone si vestivano con abiti elegantissimi e cappelli a cilindro. Siamo nel cuore degli anni ‘50. Club privati e costosi sparsi lungo la costa, party il cui ingresso era troppo costoso per la maggior parte dei cittadini, dunque coloro che ascoltavano e guardavano dall’esterno iniziarono a chiamare tutto quel bel trambusto “high life”, musica per coloro che potevano godersi una una vita mondana. Si trattava di un misto di musica tradizionale locale con un pizzico di calypso e jazz, che gli conferiva un gusto leggero e sbarazzino. E il re dell’alta vita era il musicista Emmanuel Teteh Mensah, o E.T. Mensah per gli amici, leader dei Tempos. La maggior parte delle band musicali che proponeva high life si dividevano in dance band e guitar band, le prime – molto popolari nelle aree urbane di Ghana, Liberia, Gambia, Nigeria e Sierra Leone – godevano di un’orchestra in stile brass band americane, combinando la musica tradizionale con elementi swing, calypso e musica da ballo Afro-Cubana, importata dal Nord America e dai Caraibi. Le seconde invece, più diffuse nelle zone rurali delle campagne africane e quindi più vicine alle persone, concentravano la massima attenzione sulle chitarre e su tutti gli strumenti a corde, prendendo in prestito molti suoni dalla tradizione blues dei neri americani. Se E.T. Mensah & The Tempos militavano nelle dance band conquistando anche un famoso duetto con Louis Armstrong, E.K. Nyame & his Akan Trio raccoglievano consensi e macinavano dischi (più di 400 registrazioni incise) con le guitar band.

Non vorremmo mai controbattere alle parole di Fela Kuti che molti anni fa dichiarò che “without Tony Allen, there would be no Afrobeat” (il figlio Femi Kuti ha sempre contestato l’origine della dichiarazione) ma quantomeno sarebbe logico aggiungere che senza l’high life non ci sarebbe stato l’Afrobeat.

Le lunghe dita snelle di Kiki hanno iniziato a toccare i tasti bianchi e neri del pianoforte molto presto: Gyan nasce in una famiglia della middle class ghanese il 7 giugno del 1957 a Takoradi. Lì ha il privilegio di frequentare la Chapel Hill Preparatory School, una delle migliori scuole private del paese. A 5 anni, Kiki inizia a suonare come dilettante. È vispo, attento e pieno di talento e a soli 12 anni, mentre sta per completare la formazione scolastica di base, è già un tastierista professionista a pieno titolo. L’amore incondizionato per la musica e una certa insistenza da parte dell’industria musicale lo spingono a interrompere gli studi prima dei 15 anni e a spostarsi in città, ad Accra, dove inizia a suonare con band molto popolari in Ghana come i Blue Monks, i Boom Talents, la Pargadeja Band, gli Avengers. “C’era troppa musica in me; non potevo restare a scuola”, confesserà qualche anno più tardi a chi gli chiederà il perché di quella scelta. Quando la Pargadeja Band vola in Inghilterra per un tour, il giovanissimo Kiki incontra per la prima volta quella che sarebbe diventata la band della maturità, la Osibisa Band. Devono passare un po’ di anni prima che Kiki entri nella band, anni di attesa, desiderio, studio, concerti con i Black Santiagos e poi finalmente la notizia che ogni aspirante prima ballerina aspetta disperatamente: Robert Bailey, pianista degli Osibisa, ha lasciato il gruppo, il posto è vacante, e sì, Kiki è decisamente il candidato perfetto. Il sogno si realizza.

Grazie a una comprensione quasi metafisica del suono, dell’armonia e della composizione, in pochissimo tempo il talento di Kiki si diffonde anche nella comunità musicale inglese portandolo alla fama e all’attenzione quasi ossessiva dei fan, soprattutto delle ragazze. Yeni Anikulapo, figlia di Fela Kuti, si innamora perdutamente di lui e i due si sposano verso la fine degli anni settanta. Poco dopo la fidanzata ghanese di Kiki torna con forza nella vita dell’artista e Yeni svanisce nel nulla. “Abbiamo viaggiato in tutto il mondo, abbiamo volato in prima classe, abbiamo dormito nei migliori hotel e abbiamo avuto le migliori ragazze. Amico, la vita era bella, troppo bella”, come riportato negli articoli del corrispondente ghanese Sekyi-Addo raccolti per la BBC World Service nel 2001.

Fortunatamente, accanto alle avventure amorose, i risultati della sua popolarità arrivano direttamente dal talento musicale sopraffino di Kiki: sessioni in studio con Mick Jagger ed Elton John, concerti per la regina Elisabetta II a Buckingham Palace, sono solo alcuni dei momenti che attraversano la vita di un diciottenne già milionario, considerato uno dei migliori tastieristi sulla faccia della terra (nel sondaggio mondiale Kiki Gyan si piazza in ottava posizione occupando l’aria rarefatta della top ten con pesi massimi come Steve Winwood e Billy Preston). Non ha ancora vent’anni, ha già incontrato star come Marvin Gaye, Peter Tosh, Stevie Wonder ed è un colosso musicale che potrebbe raccontare ben più di una vita.

Quando, nel 1976, decise di lasciare gli Osibibisa per continuare con una carriera solista, la notizia colpisce l’attenzione pubblica. Perché abbandonare così il gruppo dei propri sogni dopo aver aspettato per anni la possibilità di calcare assieme gli stessi palchi? La mancanza di riconoscimento pare sia stata la ragione principale della sua uscita, assieme a un certo disprezzo nei confronti dei fratelli Osei, i leader del gruppo, i quali si erano presi il totale merito di alcune canzoni pubblicate e sembravano trattare il giovane Kiki più come un roadie e non come un membro effettivo della band. Ad oggi va effettivamente sottolineato come ogni brano degli Osibisa non riporti il nome di Kiki tra i crediti. Vissuto come un vero e proprio tradimento, Kiki cerca di metabolizzare quell’inganno viaggiando per gli Stati Uniti prima e tornando in Ghana dopo. È arrivato il momento di mostrare a tutto il mondo che la stella di Kiki può brillare anche da sola.

I primissimi brani attingono dal reggae e si lasciano sedurre da un abbraccio soul funk piacevolissimo che permette a Gyan un discreto successo di mercato. Il disco di debutto, Afro Reggae, esce nel 1977 per la P.V.P Records e sembra progettato per mostrare il caleidoscopico talento di Kiki nella molteplice veste di cantante/compositore/musicista/produttore. Assistito dall’ex membro dei Funkees, Jake Sollo e dal collega ghanese Kofi Ayivor, Kiki produce in totale autonomia la maggior parte dei suoni dell’album, suonando tastiere, sintetizzatori e basso.

È in quegli anni che discoteca diventa un concetto globale e travolge il giovane Kiki Gyan e nel 1979 il secondo atto apre le porte a uno stile prettamente disco funk: Feeling So Good, pubblicato dalla Boom Records, gode di una sonorità iridescente e melodiosa. Quasi un libro mastro di arpeggi e modulazioni per un album che mantiene esattamente ciò che il titolo aveva promesso, sentirsi bene: è la gioia che si manifesta nella musica, una luce potente e amica, fatta di groove, Rhodes disco e fluidità ipnotizzanti grazie a pattern percussivi che si fanno fisici e mistici. Un delizioso esempio di gioia che si manifesta nel suono dove tutto è luminoso, le armonie incantano con un approccio gentile. Siamo di fronte a una produzione nitida e potente che sa esattamente quale direzione prendere: il funk deve essere selvaggio, fumante, senza vergogna. Quale può essere dunque la volontà dietro questi brani se non quella di portare le persone sulla pista da ballo e tenerle lì?

Nel 1983 arrivano otto nuove tracce che segnano un ritorno alle origini highlife dei giorni trascorsi tra le file degli Osibisa: Feelin’ Alright regala brani dalla struttura solidissima, con ballad che planano soavi su un suono che è figlio degli anni ottanta, delle sue strumentalismo interstellare e carico di fascino. Pubblicato sotto l’etichetta nigeriana Top Records, si tratta di un album che accarezza il boogie e il neo soul, mostrando una creatività musicale compatta e lucente con brani molto più strutturati, secondo gli standard del pop commerciale del tempo, ben lontani dai lunghi momenti strumentali dei suoi primi lavori.

Ma ciò che più porterà successo a Kiki è il secondo singolo co-prodotto assieme al batterista Kofi Ayivor: Keep On Dancing / 24 Hours In A Disco uscito nel 1979 – che nel 2012 ha avuto una ristampa sotto l’etichetta Soundway Records – : inizialmente pubblicato come singolo in Nigeria tramite Boom Records nel 1979, il taglio funk swinging è uno dei lavori più funky di Kiki Gyan con linee di base allegre e fiati euforici rivestiti da ritmi percussivi – tra l’organico e il vibrante – che riempiono la performance vocale semplice ma affascinante di Kiki Gyan. La canzone, che ha co-prodotto con Kofi Ayivor, è la sua ultima ode al genere che amava di più, la disco, con ogni elemento che incoraggia l’espressione aperta delle emozioni attraverso la danza. Il brano si è fatto strada in innumerevoli programmi radiofonici e televisivi ghanesi negli anni ’90. Il lato b del disco, 24 Hours in the Disco, è un altro pezzo fondamentale della sua discografia, un piccolo vangelo che racconta quanto è meraviglioso perdersi nel funk elettrico sotto luci scintillanti di ballroom oscure. A differenza della maggior parte dei suoi dischi, queste canzoni sono riuscite a sopravvivere grazie alla suddetta raccolta postuma del 2012, una sorta di testamento della sua magia: 24 Hours In A Disco 1978-82 è un elettrizzante viaggio tra le sette delle migliori hit disco di Kiki Gyan. Già, perché la stessa title-track 24 Hours in a Disco, con la sua orchestra di 16 elementi, sembra cambiare il pensiero e la vita di Kiki: classifiche scalate in Regno Unito e America, la fama che si ingigantisce, le droghe che iniziano a circolare con naturale quotidianità, l’esplosione è vicina. Kiki inizia a spendere molti soldi in stupefacenti – soprattutto narcotici e cocaina – e si trasforma in un tossicodipendente compulsivo che entra ed esce dalle cliniche riabilitative, nonostante l’aiuto mostrato da artisti (e amici) come Hugh Masekela e Kojo Antwi. Ogni tentativo di tornare alla normalità fallisce e Kiki diventa un povero mendicante che dorme ovunque, sempre in cerca di qualche moneta.

Quando nel 2002 è stato chiesto a Kiki cosa avrebbe cambiato nella sua vita se avesse potuto riviverla, lui ha risposto: “Prenderei mia madre e la porterei in giro per il mondo. In questi giorni non vado più a trovare mia mamma, perché ogni volta che mi vede la temperatura sale” (Sekyi-Addo 2004). Era anche di dominio pubblico che al musicista fosse stato diagnosticato l’HIV. Nel contesto iperreligioso della società ghanese convenzionale, intrisa di disinformazione sulla malattia, questa era considerata una sorta di punizione per il suo stile di vita “corrotto”. Gyan era stato così trasformato da alcuni dei media ghanesi nel capro espiatorio ideale, condannato in un modo totalmente agnostico rispetto allo sfruttamento e agli anni di abbandono vissuti all’interno dell’industria musicale, in cui aleggiavano il giudizio e lo stigma legati alla malattia.

La figlia di Kiki, Vanessa Sullivan-Gyan, che oggi si occupa di intrattenimento tv e radio, oltre a ricordare costantemente l’importanza che la figura di suo padre ha avuto nel mondo della musica (“Il contributo di mio padre all’industria musicale non è stato adeguatamente riconosciuto. Ha svolto un ruolo importante nell’industria musicale non solo in Ghana ma in tutto il mondo, ma le persone invece hanno trascurato il suo impatto”) ha voluto sottolineare come, al tempo, gli Osibisa non abbiano fatto abbastanza per aiutare Kiki a uscire da quel vortice di distruzione: la dipendenza era diventata la minaccia decisiva della sua carriera e, di fatto, l’aveva ostacolata – e quelli che dovevano essere dei fratelli maggiori e proteggerlo dalle insidie della droga – sono rimasti a guardare. Pare che solo Hugh Masekela avesse provato seriamente ad aiutarlo iscrivendolo a una struttura di riabilitazione in Sud Africa.

Per Vanessa dunque anche il tardivo concerto tributo che si è tenuto nell’ottobre del 2015 appare come una minima presa di coscienza, un modo poco convinto di scusarsi per l’indifferenza mostrata nei confronti di Kiki; nonostante l’insoddisfazione della figlia di Gyan, l’anfiteatro dell’Alliance Francaise di Accra in quell’occasione si è riempito di fan e colleghi musicisti come Gyedu Blay Ambolley, VVIP, Manifest, Adomaa, Edwudzi, Ko-Jo Cue ed è stata presentata la Kiki Gyan Foundation, il cui obiettivo è educare i bambini ai problemi creati dalla dipendenza da droghe. Grazie alla campagna Say No To Drugs, lanciata in quell’occasione, sono stati infatti finanziati progetti legati alla musica e ai giovani talenti che non godono di un adeguato sostegno economico.

Fare oggi laddove non si è fatto in passato: sembra questa la volontà della fondazione che porta il nome di Kiki Gyan, una promessa al futuro. Quella stessa promessa che chiunque abbia avuto la fortuna di ascoltare Gyan dal vivo poteva scorgere nel suo modo di suonare: un ritmo che sprigionava una gioia così contagiosa che il pubblico non poteva che rimanerne affascinato ed esaltato. Con una disinvoltura che contrastava nettamente con il suo aspetto fisico teso, ossuto, consumato come chi di vite riesce a viverne cento, Kiki ha scatenato splendidi riff e svolazzi sulla tastiera con tutta l’onestà e la sfacciataggine di un talento selvaggio e puro. C’era una libertà senza sforzo nel suo modo di esibirsi, la percezione di dissolvenza rispetto alla rigidità di un ambiente sociale chiuso e ostico per un musicista che è stato anche una sorta di figura tragica, un antieroe che non hai mai chiesto la compassione degli altri, un maudit a cui non è certo mancato il coraggio di sperimentare sonorità e idee innovative né il coraggio di abbandonare una band all’apice della fama. O forse solo un ragazzo che suonava la tastiera come fosse un sesto senso.

 

Commenti
Un commento a “Kiki Gyan, un vortice disco dimenticato”
  1. Alessandro ha detto:

    non conoscevo questo musicista, che bella scoperta! grazie

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