Memorie di una letteratura futura. Conversazione tra Matteo Meschiari e Giulia Caminito

(Illustrazione: Marco Rocchi)

Certe presentazioni di libri non si esauriscono nell’incontro coi lettori, proseguono anche dopo, in forma privata, così che può capitare di continuare a sviscerare gli argomenti affrontati e le tematiche emerse fuori dalla libreria, intanto che incombe l’ora della cena e si decide di proseguire la discussione a tavola. È stato così in occasione della tappa romana, che ho avuto il piacere di condurre insieme a Giulia Caminito, de L’ora del mondo di Matteo Meschiari, portato di recente in libreria, nella splendida veste grafica a cura di Studio Ifix di Maurizo Ceccato, nel prestigioso catalogo di Hacca edizioni.
In una trattoria di San Lorenzo, in compagnia dell’autore di questo gioiello letterario di rara finezza e di una caraffa di vino rosso, io e Giulia ci siamo trovati concordi sul fatto che con L’ora del mondo Meschiari abbia fatto un tentativo di segnare un passo nuovo; senza dubbi gli va dato merito di aver scritto un romanzo capace di innescare considerazioni e generare discorsi e ragionamenti. Non credo infatti sia un caso che i primi a fare luce su quest’opera, evidenziandone alcune fondamentali peculiarità, siano stati due tra i più brillanti cervelli delle nostre patrie lettere: Peppe Fiore, che su La Lettura scrive “Nell’ecosistema della cultura la vitalità di un canone si può misurare, tra le altre cose, dalla sua capacita di produrre mutazioni, anomalie inclassificabili che, scostandosi da esso, lo rivitalizzano e nei casi migliori fanno da avanguardia per la sua evoluzione. Da questo punto di vista L’ora del mondo di Matteo Meschiari dimostrerebbe che il romanzo in Italia non è mai stato così vivo”, e Giovanni Bitetto, che su Flanerì sostiene che “La scrittura di Matteo Meschiari è importante perché pone alla base uno sguardo diverso, inconsueto per tematiche e focalizzazione, o almeno parzialmente estraneo alle mode culturali contemporanee, dominate dalla lallazione di vite post-borghesi e dall’ossessivo scrutare la lanugine nel proprio ombelico”.
La discussione, nata dalle suggestioni evocate dalla lettura del romanzo e dal conseguente dibattito, ha dato spunto a numerosi considerazioni sul ruolo degli scrittori e sulle possibilità della letteratura oggi, sulla scena (editoriale e letteraria), sui nostri e altrui intenti e approcci (politici, letterari, filosofici) alla narrazione e altre questioni che riteniamo possano e debbano essere condivise e dibattute, anche perché siamo tutti dell’idea che siano molti gli autori e le autrici che abbiano in merito interessanti cose da dire. Sarebbe a mio avviso stimolante sentire le opinioni a riguardo, oltre che degli autori citati in seguito da Giulia e Matteo, anche quello di autori centrali della nostra contemporaneità: penso ad esempio a Giorgio Vasta e Nicola Lagioia, a maestri come Filippo Tuena e Francesco Pecoraro, a grandi voci come Giuseppe Genna e Antonio Scurati, a Helena Janeczek e Loredana Lipperini, ma anche ad autori più giovani come appunto i succitati Fiore e Bitetto, Marco Lupo, Luciano Funetta, Alcide Pierantozzi, Nadia Terranova, Claudia Durastanti, e potrei continuare a lungo. Dico questo anche perché ci è inoltre sembrato che alcuni punti toccati nella discussione della serata facciano parte di una sorta di sentire comune che non ha forse ancora trovato le giuste definizioni. Su questo e su molto altro ci si è interrogati fino a quando le lancette dell’orologio ci hanno proiettato nel nuovo giorno e si è fatta l’ora di andare. Nel salutarci, concordi sull’opinione che oggi più che mai gli scrittori debbano parlare e confrontarsi, abbiamo pensato di tracciare alcuni punti emersi dalla conversazione nel dialogo seguente – corredato della straordinaria illustrazione pensata appositamente per l’occasione da Marco Rocchi –, con protagonisti Giulia Caminito, romana classe 1988, autrice dei romanzi La grande A (Giunti, 2016) e Un giorno verrà (Bompiani, 2019) e dell’albo, illustrato da Maja Celija, La ballerina e il marinaio (Orecchio Acerbo, 2018) e Matteo Meschiari, scrittore, poeta e antropologo nato nel 1968 a Modena e di stanza a Palermo, autore fra gli altri di Artico Nero (Exòrma, 2016), Appenninica (Oèdipus, 2017), Neghentopia (Exòrma, 2017), e Bambini. Un manifesto politico (Armillaria, 2018).

Gianluca Liguori

 

Giulia Caminito: Mi sono spesso chiesta che fine abbiano fatto nelle narrazioni contemporanee leggende, parabole, fiabe, favole, miti, frammenti. Possiamo dire che oggi in Italia stiamo vivendo in un periodo di cieca venerazione della forma romanzo, la quale rischia di inghiottire tutte le altre possibilità del testo come narrazione e di mettere in atto l’equivalenza pericolosa “romanzo=letteratura”. Perché è già accaduto e cosa prevedi che invece accadrà nel futuro più prossimo?

Matteo Meschiari: Ho un’idea su come le cose dovrebbero andare, non su come andranno in realtà. Ho insomma la sensazione, ma non sono l’unico, che l’epica borghese-famigliare, le storie di corna, i conti irrisolti con gli anni di piombo, l’alpe salvifica, le amiche geniali, i disagi periferici, la mafia, continueranno indefessamente a ispirare romanzi e a far vincere premi. Se qualcosa cambierà, invece, sarà il pianeta Terra: la confusione climatica, la dissoluzione ambientale, la diaspora e la migrazione, le guerre di razza e religione, l’accanimento dei pochi sui molti, le nuove schiavitù, il neoliberismo cannibale assumeranno proporzioni impossibili da arginare, e allora anche il romanzo italiano dovrà uscire dall’ipnosi. Ovviamente questo cambio di passo è già in corso, la mia perplessità è su come sta avvenendo, perché secondo me non si tratta banalmente di cambiare tema, di applicare il canone usuale ai nuovi soggetti, ma di fondare un immaginario completamente diverso. Ora, questo non accade lavorando solo su stile, trama e genere, ma deve passare attraverso una reale mutazione antropologica, uno scossone così forte da cambiare completamente la percezione del posto dell’uomo nel cosmo. Se non ci arriveremo con l’intelligenza ci arriveremo per forza, tirati per i capelli, ma intanto leggende, miti, l’epica arcaica, sono strumenti fondamentali nel processo in atto, non perché imitandoli potremo rinsanguare l’anemia del romanzo, ma perché, se studiati seriamente, ci suggeriscono dei modi completamente altri di immaginare. Sono dei grimaldelli cognitivi, insomma, sono delle sostanze psicotrope che spostano le soglie della percezione, e per me, oggi, c’è bisogno proprio di questo. Però se mi chiedi queste cose, immagino, è perché ci stai pensando per conto tuo. Proprio l’altro giorno sfogliavo il tuo La ballerina e il marinaio, una favola profondamente poetica su morte e metamorfosi, illustrata da Maja Celija. Testo, immagini, invenzione leggendaria, un antirealismo necessario. So che non hai una fede, una qualunque, lo dici tu stessa, ma con la scrittura che hai, sei sicura di non averne una?

GC: Forse ho sempre avuto fede nella filosofia, la presa di coscienza, lo studio, l’indagine, l’evoluzione del sapere (o almeno così mi ripetevo), ma da un certo momento in poi il legame tra la filosofia e la vita mi è apparso sempre più labile, più evanescente; l’ambiente accademico come una bolla, il ragionamento come un accessorio. Per questo sto cercando di capire in che modo la filosofia possa entrare nella mia scrittura e perciò mi appassiona la maniera in cui tu sovverti i modelli della letteratura a partire dall’antropologia e non solo.
Su questo vorrei chiederti qualcosa. Secondo me la lettura di L’ora del mondo non può non far pensare a una grande opera come il Così parlò Zarathustra, solo per fare un esempio di narrazione che fa parte della nostra tradizione occidentale, qual è per te il necessario rapporto tra letteratura e filosofia e letteratura e antropologia? E quanto è importante che l’humus di cui si nutre l’autore sia eterogeneo e renda conto di una complessità che esuli dallo studio o la lettura dei nostri autori di riferimento? Quanto conta uscire dalla letteratura per arricchirla e dove dovremo guardare?

MM: Non credo di essere molto filosofico, e nella tua domanda sul rapporto tra filosofia e letteratura c’è già un germe di risposta che vorrei tu sviluppassi, perché capisco che è ineludibile. Per scrivere nel XXI secolo, che sarà il secolo dei collassi, penso però che oltre a leggersi Gilgamesh, il Kalevala, l’Edda di Snorri, bisognerà mettersi a studiare anche un po’ di geologia, geografia, antropologia, botanica, biologia, virologia, economia, polemologia… Gli autori con la maiuscola contano molto, questo è certo, ma non bastano. In L’ora del mondo il sapere che rischia di perdersi è una strana altalena verticale tra i crinali appenninici e le valli del troppo umano. Un’altalena, appunto, non una dialettica. Le Terre Soprane sono la poesia, per me Seamus Heaney e Derek Walcott, le Pianure sono un manuale del trapper e una serie TV sull’apocalisse zombie. Abbiamo bisogno di entrambe le geografie mentali, non solo per scrivere, ma per sopravvivere. Faulkner e Fukushima… Tu che ne pensi? Perché mi viene in mente quello che hai fatto in Un giorno verrà, dove una storia di fede religiosa si intreccia a una storia di fede anarchica, due geografie reali e mentali, due antropologie poco dette e poco raccontate in un mondo in cui la scelta estrema, politica, letteraria, è vivamente sconsigliata.

GC: In Un giorno verrà ho provato (non so se ci sono riuscita) a creare un terreno narrativo in cui far incontrare alcuni nodi filosofici per me importanti che riguardano la politica, la fratellanza, il sacro. Per farti un esempio: il personaggio di Lupo, il protagonista, porta con sé nel nome sicuramente una carica leggendaria non indifferente, ma anche un simbolismo filosofico di hobbesiana memoria, eppure agisce nel romanzo come se la giustizia, la sua idea di politica, gli appartenessero in maniera naturale, facessero parte del suo dna, e in questo modo volevo tentare di riportare nel romanzo un dibattito per me importante sul ruolo della socialità e della politica, come insieme di leggi e di regole che devono evitare agli uomini e alle donne di comportarsi come lupi, oppure come campo prettamente umano, naturalità del senso di giustizia. È un discorso complesso che io qui posso solo accennare e chissà se chi ha letto il romanzo lo abbia anche solo immaginato…
Ma tornando ai lupi e alle lupe, Libera, la tua bambina protagonista è una creatura dei lupi e dei boschi, una umana che si comporta da bestia, quando incontra altri uomini questi provano a correggerla, deve ripulirsi e indossare vestiti consoni per loro; ma nel libro appaiono anche figure ibride, uomini e donne per metà animali, animali parlanti e animali silenti. Questo labile confine cosa ci racconta rispetto all’essere umani e quanto per te conta l’idea della metamorfosi e della continuità tra le specie?

MM: Nel mondo di Libera ci sono dei in forma animale, semidei a cavallo tra uomo e animale, animali che parlano, animali silenziosi ma che sentono. L’animalità, non ce lo dice solo Agamben, è al cuore della riflessione politica e filosofica del XXI secolo e la revisione dei confini ontologici tra uomo e animale è necessaria ora più che mai, ma non nel senso di dissolvere i confini tra le specie in nome di un livellamento “democratico”, un unico impasto New Age per stampini con forme diverse. Penso piuttosto all’animismo prospettivista di Viveiros de Castro, alla sua carica eversiva quando viene fatto agire nelle dinamiche identitarie, nelle pratiche di riconoscimento di sé e dell’altro. Vedere animali come “persone non umane”, calarsi nella testa degli animali, sondare il fondo animale dell’uomo può fare molto bene tanto alla società quanto alle letterature antropocentriche. Che posto hanno gli animali nella tua scrittura? La tua idea di storia, quella che raccogli, quella che scriverai, è storia di soli umani?

GC: Non ho ancora capito che ruolo abbiano, ma so che devono esserci e devono avere un ruolo da protagonisti, come Checco la gazzella di La Grande A oppure Cane il lupo di Un giorno verrà. Ho cercato nei due romanzi di affrontare il tema della appartenenza tra individui di specie diverse, di affettività, ma anche di ciò che è naturale per una specie e per l’altra e di ipocrisia degli uomini e delle donne verso le altre specie. Forse questo immaginario animale nel mio caso arriva dal mondo delle fiabe, dalle mie letture di bambina che ho sempre conservato anche da adulta.
In merito alle età di chi legge, credo che il tuo libro possa di certo essere letto a tutte le età e possa rispetto alle conoscenze del lettore o della lettrice rivelare sempre qualcosa di nuovo. Attraverso i simboli e le allegorie, attraverso le citazioni implicite e i riferimenti si può entrare in dialogo col testo a più livelli. Quanto è importante oggi rimettere sul piano, anche della narrativa, il ruolo dell’interpretazione e non della semplice leggibilità secondo te?

MM: Interpretare per me significa non accontentarsi della datità del mondo, che ovviamente non esiste se non nel monopensiero che la politica gerarchica e totalitaria prova a imporre sempre e in ogni ambito della vita, non a caso anche quello religioso. Per me costruire testi plurimi è solo un altro modo per fare politica utopica. A che cosa serve l’utopia se non a ricordarci che non dobbiamo accontentarci dello status quo? Che cos’è l’utopia se non una pratica dell’immaginario per sperare diversamente? Non è stato molto notato, ma i titoli dei capitoli del libro, che sono 34, sono presi in sequenza da versi contenuti nei 34 canti dell’Inferno della Commedia di Dante, il più grande manuale occidentale di teoria delle anime e dell’arte dell’interpretazione. Quando parli però di leggibilità mi viene in mente il must editoriale per cui c’è sempre qualcuno che ti dirà che devi scrivere per il “lettore medio”, come se il lettore medio, qualunque cosa esso sia, fosse incapace di complessità, di interpretazione, di lettura del sovrasenso. Per te bisogna scrivere per essere capiti o per invogliare a capire?

GC: Bisognerebbe scrivere per il secondo motivo, per far cominciare il processo dell’interpretazione, auspicarsi una seconda e una terza lettura, un ritorno sulle parti non capite, un continuo domandarsi. Ma sarei ipocrita se non ammettessi che non ho la libertà testuale che hai tu e che mi sento molto sotto pressione rispetto alla leggibilità e alla necessità di andare incontro ai lettori, credo che sia anche dovuto al mio rapporto con l’editoria, al fatto di averci lavorato, al lavoro da editor che faccio. L’editoriale sta tendendo temo a superare il letterario, l’equazione di cui parlavamo prima si potrebbe anche estendere così letteratura=editoria=romanzo. L’editoria oggi sente di essere in pericolo, di potersi esaurire, l’ecatombe dei lettori è alle porte, i soldi per gli anticipi non esisteranno più, scriveranno solo youtuber e influencer, quindi c’è bisogno di romanzi buoni, realmente letterari, che però si facciano leggere e che non mettano in questione le capacità di comprensione del lettore.
Spazio, luogo e tempo tutto deve essere chiaro e ben delineato. Per questo L’ora del mondo è un libro interessante perché si arriva a un punto in cui le coordinate temporali saltano completamente, il lettore/lettrice è costretto a interrogarsi sulla consequenzialità delle azioni, sui momenti in cui accadono persino nascite e morti. Cosa vuol dire azzerare il tempo della narrazione, neutralizzare le coordinate di lettura e quali sono degli esempi interessanti secondo te nel panorama letterario estero che compiono azioni di questo tipo?

MM: Per questa cosa, devo confessarlo, ho usato ancora una volta le letterature delle origini. Ad esempio, nell’epica antico-francese, il paladino muore alla fine di una lassa, ma in quella successiva è ancora vivo per poi morire di nuovo: all’autore non importava seguire una logica temporale lineare. Il discorso è forse un po’ erudito, ma si può dire che in certi oggetti letterari “inattuali” la temporalità viene scomposta e moltiplicata per ampliare i punti di vista. Non la solita polifonia del romanzo, quindi, ma una policronia prospettica. Un altro esempio è il viaggio agli inferi di Gilgamesh, oppure la navigazione arcipelagica di San Brandano. Possiamo visualizzarlo così: il tempo della modernità è una linea continua disegnata su un foglio, ma se prendi il foglio e ci fai un origami, la linea resta continua, in senso assoluto, eppure si spezza in molti frammenti visibili e invisibili. Tu lavori sempre con il passato, ma lo fai dal presente, quindi lavori a una specie di restauro, di ricostruzione, e il tempo che allestisci è quello articolato e non lineare dell’intreccio. Che cosa vuoi indurre con questo smontaggio-rimontaggio?

GC: Io ho l’ossessione per i ricordi, il tempo che riemerge, il tempo soggettivo, e mi piace andare avanti e indietro col mio cursore narrativo per svelare meccanismi della storia che una cronologia lineare forse non renderebbe. Ognuno credo debba provare a mettere la propria idea di temporalità all’interno di ciò che scrive, il tempo è cronico, diacronico, è messianico, è bergsoniano, è cairologico, è redentivo? Ci sono tanti modi per parlare di passato, presente e futuro e penso che soprattutto nel passato dei grandi romanzieri e romanziere l’idea del tempo tra oggettivo e soggettivo sia stato movente forte di scrittura.
Se non si ha una propria idea di tempo, anche atemporale come nel tuo caso, provocatoria, di rottura, come si può pensare di parlare di progresso o futuro per i personaggi, come si gestiscono le loro memorie, il loro guardare avanti, le missioni che devono compiere?
Per esempio il compito di Libera nel tuo libro è quello di trovare un personaggio: il mezzo patriarca perduto che si è allontanato dalla sua metà ed è scomparso nel mondo degli umani. Ma non tutti sono a favore di questa ricerca, che salverebbe gli uomini e le donne comuni. Perché alcuni ipotizzano un punto zero, un punto di blackout in cui le generazioni si fermano, in cui l’umano collassa e allora si ricomincia da capo. Tu da che parte sei: quella della salvezza o quella dell’apocalisse rigenerativa?

MM: Temo la mera estinzione, non credo nella retorica dell’apocalisse rigenerativa, sforzandomi un po’ vorrei la salvezza per tutti. Il 99% della letteratura postapocalittica parla di microcomunità di sopravvissuti. L’idea è ambigua: si salvano solo i più forti, oppure i più giusti, oppure i più capaci. Gli eletti, insomma, e dall’altra parte ci sono tutti gli altri, più o meno metaforicamente degli zombie. L’idea di provare a salvare tutti, invece, è molto complessa, tanto da un punto di vista pratico quanto narrativo. Ma sarai d’accordo: è l’unica veramente seria. Nei manuali che dovremmo scrivere per chi tra 20 o 100 anni starà molto peggio di noi, non dovremmo mettere solo le istruzioni per fabbricare un depuratore dell’acqua o una punta di selce, ma anche che cos’è l’antropologia del dono, come si fabbrica un flauto, come far giocare un bambino. Se insomma non potremo salvare tutti, dobbiamo da subito, adesso, provare a salvare un’ipotesi antropologica, un’idea di donna e di uomo che sarà storicamente perdente ma che potrà contrastare il crollo dell’umano, la ferocia, l’estinzione dell’empatia.

GC: A proposito dell’Apocalisse e della distopia, so che stai lavorando sulle distopie del nostro passato, sull’Apocalisse già avvenuta e su quanto poco abbiamo tramandato delle nostre passate catastrofi e delle gestioni delle crisi più insanabili. Ce ne puoi parlare anche in riferimento al fatto che il distopico sembra essere diventato un genere d’elezione per la narrativa contemporanea? Ci serve davvero un futuro minimamente distorto o ci basterebbe ricercare e far tornare un passato catastrofico?

MM: La distopia, quella che si fa in Italia, sembra aver preso una piega abbastanza provinciale, un po’ per mancanza di coraggio, un po’ perché proprio non si è capaci di farla. Avrai sentito gente che ama abusare del termine e gente lamentarsi dell’abuso e della moda. Nel frattempo si producono distopie un po’ scariche, quelle vicinissime alle realtà, quelle che giocano sullo scarto minimo, sulla sfumatura, sulla traccia. È come se ci fosse paura di scivolare nella letteratura di genere, ci si vergogna di fare fantascienza, e anche quando di fatto la si fa, ci si affretta a dare la chiave di lettura sociopolitica per smarcarsi dal rischio ed esser presi per scrittori poco seri. Va a finire però che l’Italia non ha né il suo Volodine né il suo McCarthy. Poi c’è anche il fraintendimento per cui distopia significa futuro. Invece bisognerebbe ricordare più spesso quello che diceva Benjamin sull’Apocalisse, che è uno sguardo rivolto all’indietro. Se ad esempio avessimo voglia di leggere Procopio di Cesarea potremmo farci un quadro dell’Italia del VI secolo d.C. al limite dell’allucinazione, con eventi climatici e sociali letteralmente apocalittici, difficili da immaginare nella loro crudezza e devastazione. Ci sono stati davvero, e in confronto The Walking Dead è una favola alla Disney. A parte questo, trovo affascinante immaginare delle “retrodistopie”. In una di queste ho fatto agire popoli e personaggi nel Devoniano, tra 416 e 359 milioni di anni fa… Ma non è una poetica dello stupore, è solo la ricerca di zone nuove. Qualcuno potrebbe parlare di post-esotismo… Ma che cosa pensano di questo alcuni scrittori italiani, ad esempio Tommaso Pincio, Vanni Santoni, Matteo Nucci o Michele Vaccari? Sarebbe bello cominciare a parlarne seriamente. Tu che cosa pensi della distopia che non costruisce utopia, e cosa pensi del fantastico, non come genere ma come possibilità cognitiva?

GC: A me convince molto la distopia retroattiva, mi viene in mente l’ultimo romanzo di Viola Di Grado che è Fuoco al cielo. Il suo lavoro mi ha convinta perché la sua ricerca ha fatto riemergere una vicenda assolutamente non italiana, non borghese, non famigliare, un quadro apocalittico, terribile e temibile, ma già accaduto, il che nella persona che sono provoca molto più turbamento della proiezione futura.
Io sono molto legata al passato e all’accaduto, ma ho imparato dallo studio dell’anarchia il ruolo potente e costruttivo dell’utopia e del portare il fantastico nella sfera politica e conoscitiva, come ideale regolativo e motore delle idee presenti. Cerco di tenerlo a mente quando studio o quando scrivo.
Qualcosa che mi ha affascinata e che è lontano da me quasi come una fantasticheria, è la tua idea di anima. Il tuo libro, infatti, ha alcune pagine dedicate a spiegare al lettore/lettrice cos’è un’anima e tu le introduci dicendo che si possono anche ignorare quelle pagine, non servono alla storia, e a me pare che invece proprio lì tu abbia nascosto la chiave di volta della tua narrazione. Cosa c’entra l’animismo con la letteratura per te e quali sono le anime di L’ora del mondo?

MM: L’ora del mondo è una specie di trattato delle anime, è un libro animista, e Libera, finché le va, è un essere psicopompo. Per me l’animismo, che è vitalissimo in qualunque anfratto della modernità, è un grimaldello irrinunciabile, proprio come l’epica e il mito. È un modo infinitamente potente di reimmaginare la realtà, i rapporti tra i viventi, le relazioni tra persone umane e non umane, e proprio per questo è anche l’alternativa più efficace al pensiero teista, è un virus che cova sottopelle e che è in grado di sgonfiare l’arroganza politica e poetica delle religioni rivelate. Una macchina critica e narrativa, insomma, verso lo shift antropologico di cui parlavo poco fa.

GC: Il mito porta con sé da sempre elementi sovversivi, tabù, proiezioni inquietanti, turbamenti; credi che produrre una nuova mitologia o meglio recuperare una mitologia arcaica ma attualizzarla nei nostri luoghi e tempi possa ancora avere quel potere scatenante, quella capacità perturbante?

MM: Non si può usare il mito degli altri per far funzionare il proprio testo. Bisogna fare mitopoiesi, cioè occorre costruire ex novo un sistema-mondo in cui gli eventi mitici che si vogliono raccontare funzionino nel modo più “naturale” possibile. Quindi non basta utilizzare uno stile falsamente arcaico, far muovere due personaggi copiati da un libro di epica delle medie e tentare un abbozzo di cosmologia alla Marvel. Ci vuole un’attitudine cosmografica che non può prescindere dalla linguistica, dalla filologia, dalla geografia, dall’etnologia. Molti testi fantasy sono penosamente insoddisfacenti proprio perché si avverte immediatamente che galleggiano nel vuoto, come un iceberg senza la parte sommersa. C’è poi un secondo problema, per me enorme. La maggior parte di coloro che vogliono fare mitopoiesi si limitano a leggere le solite cose, e male. Un po’ di miti germanici, un po’ di folklore irlandese, quando là fuori ci sono la Groenlandia, l’Australia, l’Oceania, l’Amazzonia, l’Africa… Ho come l’impressione che ci sia un fondamentale etnocentrismo anche in letteratura, tranne quando l’altrove arriva nella vita e la rovescia. Per te Etiopia, Eritrea, entrate nella storia della tua famiglia e poi nella tua scrittura. Il tuo mito africano, quanto ti ha reso scrittrice, quanto lo hai inventato scrivendo?

GC: L’idea di scrivere dell’Africa è nata proprio con la speranza di un recupero che fosse per me anche mitologico, iniziare una ricognizione dei miei antenati, delle mie origini, andando a ritroso nel tempo, fino alle Marche di Un giorno verrà, vorrei in realtà continuare un percorso sempre più profondo. Nella prima stesura di La Grande A c’erano anche molte fiabe e leggende africane, che io aveva cercato di incorporare nella mia narrazione, ma poi le ho tolte nelle versioni successive, perché non mi sembravano essere parte sincera di quello che stavo raccontando, ma solo appendici, come arti inerti appesi al corpo del romanzo, avevo qualche anno in meno e so di avere ancora molto da imparare per capire come usare i materiali che vorrei in modo che siano autentici, significativi per me e per le storie che racconto.
L’ultima domanda che ti faccio invece è per l’argomento a cui tengo di più. Come entra la politica in ciò che scrivi? Libera è la “signorina anarchia” e L’ora del mondo è una parabola anarchica, oppure no? Credi che la narrazione possa farcela a essere veicolo di una politica che torni a sposarsi con il sapere?

MM: Libera ha una mano sola, è nata così. Se hai una mano sola non puoi applaudire. Per me è un’immagine abbastanza intuitiva per criticare il pensiero dialettico, quello di “destra e sinistra”, di “noi e loro”, di “salvi e dannati”, ecc. Sì, Libera è l’anarchia per quello che l’anarchia dovrebbe essere sempre: un pensiero che non è mai binario, mai dicotomico, mai rassegnato alla sintesi identitaria, mai dualista e “bianco e nero”. Ogni cosa che scrivo è politica, nel senso che dice delle cose politiche in maniera semplificata, visibile, schierata. L’ora del mondo è un libro sull’immaginario come tattica di resistenza. Racconta una storia e un’idea. Non l’ho scritto per intrattenere o insegnare qualcosa, ma per additare un’utopia, che parte dai faggi e arriva alle fabbriche. Il tuo bisnonno materno era anarchico, hai scritto su di lui. Ma in che modo l’anarchia ti accompagna nella scrittura, anche quando non ne parli?

GC: Mi accompagna come mi accompagnano le altre compagne filosofiche della mia vita, come lenti e possibili sguardi, come terremoti di quello che credo di sapere, come opportunità in più di comprendere e di proiettarmi. L’anarchia, per quanto purtroppo si dica, è una filosofia immortale.

Commenti
5 Commenti a “Memorie di una letteratura futura. Conversazione tra Matteo Meschiari e Giulia Caminito”
  1. sergio falcone ha detto:

    “… autori centrali della nostra contemporaneità…”.
    No comment.

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