Olanda, miraggio #3. Cees Nooteboom
Nuovo appuntamento con una serie curata da Antonio De Sortis sulla cultura olandese, su viaggio e post-colonialismo, sulle traduzioni dimenticate da recuperare. Qui la prima parte, qui la seconda.
di Antonio De Sortis
Da meno lontano
Cominciai a frequentare l’Olanda che il clima nel paese era appena cambiato. Non potevo saperlo. D’altronde provate pure a spiegarglielo, nessun diciottenne accetterà mai di vivere il pieno di una fase decadente, soprattutto se per anni gli hanno insegnato a vedere in quella che è a tutti gli effetti una crisi una specie di possibilità. C’era come un chiacchiericcio, e a me, sprovveduto monoglotta, ricordava la malsana eccitazione che di norma precede un guaio annunciato. Ma il guaio si era già consumato, pochi mesi prima, quando il politico di estrema destra Geert Wilders aveva diffuso un documentario di propaganda antiislamica intitolato Fitna. All’epoca vivevo all’Aia e ricordo che ovunque si temeva che il linguaggio allarmista, violento di quel video scatenasse qualche reazione inconsulta, qualcosa di simile al caso Theo van Gogh, il regista assassinato nel 2004 dopo l’uscita di un altro film dai toni fortemente polemici verso l’Islam, Submission.
Quindici anni dopo, con Mark Rutte uscito definitivamente di scena, si può affermare che Wilders sia il leader politico olandese più longevo in circolazione. Benché buona parte dell’elettorato moderato e progressista lo consideri un ciarlatano, col tempo il fondatore del PVV, il Partito per la Libertà, ha guadagnato terreno, anticipando con successo personaggi più noti nell’esibizione di un phisique du role da perfido antagonista e nell’esercizio di una (sotto)specie di (bassa) magia che per breve tempo avremmo definito post truth.
Ricordo altrettanto nitidamente il momento in cui la smagliante immagine pubblica di Wilders rischiò di venire intaccata dalla scoperta delle sue origini indonesiane. Venne fuori che sua madre era nata nelle ex Indie Orientali, dove l’Islam è la religione di gran lunga più diffusa, con conseguente scapicollarsi dell’interessato nel fare distinguo, illustrare agli elettori la limpidezza del suo albero genealogico – misto, sarà pur vero, ma sempre in ossequio alle buone usanze e combinazioni tra coloni olandesi. In rete circola un fascicolo in cui si denuncia la possibile “non cristianità” della bisnonna di Wilders, inoltre non si è ben capito cosa dedurre dalla scelta ostinata di decolorarsi i capelli. In generale non è un bel dibattito, ed è tutto ciò che ricordo della politica olandese di quegli anni. La mia sensazione è che né a giustificarsi né a rivendicare i propri soggiorni nelle ex Indie ci si faccia una bella figura. Ascoltando qualunque occidentale cresciuto in una colonia non c’è modo di distinguere chiaramente il semplice moto di simpatia per i popoli con cui ha convissuto dalla nostalgia dell’impero.
Nel suo recente Revolusi. L’Indonesia e la nascita del mondo moderno, il giornalista belga David Van Reybrouck spiega perché in Olanda per lungo tempo si sia parlato poco e male dell’eredità coloniale. Secondo Van Reybrouck, già autore del fortunatissimo Congo, lo si fa volentieri a condizione di esaltarne solo le pagine roboanti, che è più facile nobilitare; quando si nomina il secolo d’oro delle Province Unite tutto è desiderabile poiché ricondotto all’identità europea, ai successi ottenuti dal piccolo paese costiero mentre rivaleggia in Oriente con inglesi, francesi e portoghesi. Per decenni gli olandesi hanno prediletto una parte molto contenuta della loro storia asiatica, condivisa al contrario con un altro territorio cinquanta volte più vasto del proprio. Un territorio, l’Indonesia, che oggi fonda il suo, di racconto, sulla pletora di giovani rivoluzionari che lo portarono a essere il primo paese a conquistare l’indipendenza nel secondo dopoguerra.Gli olandesi approdarono in Asia nel Seicento con la VOC, la Compagnia delle Indie Orientali. Un primo avamposto, un piccolo forte, fu installato sull’isola di Ambon, nell’arcipelago delle Molucche. Da lì la flotta prese a trafficare in spezie in tutto l’Oceano Indiano, a trattare schiavi e importare merci, senza vere e proprie mire militari.
Nei due secoli della sua esistenza la VOC fu capace di azioni atroci, ma si limitò in sostanza a contendersi il monopolio sugli scambi nei porti più fiorenti, come Macao o Manila, o a occupare le piccole isole dove le spezie più rare, come la noce moscata, abbondavano. Fu chiaro da subito che uno dei grandi discrimini fra potenze asiatiche e potenze globali era la determinazione a isolarsi per conservarsi (le prime) anziché espandersi (le seconde). Nel suo saggio Il cappello di Vermeer. Il Seicento e la nascita del mondo globalizzato, Timothy Brook descrive ad esempio il diverso comportamento assunto dai geografi europei e asiatici nei decenni in cui il commercio nell’Oceano Indiano andava intensificandosi. Mentre olandesi e portoghesi si scervellavano a individuare rotte più brevi e sicure per raggiungere le Indie, mappandone le coste e l’immediato entroterra, i cinesi non mostrarono mai alcun desiderio di aggiornare la propria cartografia.
Nelle loro mappe seicentesche quello europeo restava un mondo “esterno” e dai confini sconclusionati, che nessuno aveva interesse a tradurre in un linguaggio, appunto, globalizzato. Al contrario, in Europa le case borghesi venivano arredate con i più svariati cimeli orientali, o talvolta con manufatti che ne imitavano le tecniche e lo stile. Ancora oggi, se dal centro di Amsterdam ci si spinge verso il Rijksmuseum, la più importante pinacoteca dei Paesi Bassi, è probabile incappare nei negozi di antiquariato di Nieuwe Spiegelstraat e dintorni; quando nelle vetrine proponenti vasi in porcellana, monili d’avorio, statue di ebano ci si imbatte anche nelle famose ceramiche Delfts Blauw, be’, non ci si illuda alla vista dei delicati soggetti primaverili, poiché anch’essi nascono a imitazione delle più eccentriche versioni cinesi. È quella che Brook, mutuando una nozione dal saggista cubano Fernando Ortiz, definisce “transculturazione”: nel Seicento l’esotico penetrò in Europa in maniera capillare ma con significati traslati, ed esiti talvolta fuorvianti. Una volta arrivati al Rijksmuseum, soffermandosi a osservare i dipinti di Vermeer, si noterà magari un qualche capo di abbigliamento, un accessorio, un disegno appeso a una parete, qualcosa di nascosto in piena vista che non dovrebbe essere lì, ma di cui non riusciamo più a ricordare l’origine; da cinque secoli ci appropriamo delle culture altrui, ne siamo gli eredi sbandati, incontrollabili.
Quando i gesuiti portoghesi arrivarono in Cina, decisi ad esportare il dio d’occidente, ottennero pure qualche successo, ma attirandosi accuse di sedizione da parte dei governi locali e venendo in alcuni casi essi stessi, assieme agli olandesi e ai lavoratori delle flotte deportati dall’Africa, scambiati per piccoli demoni, e come tali raffigurati. D’altronde, cosa ne abbiamo fatto noi, dopo averli presi in prestito, dei draghi che abbiamo visto avvitarsi in un piattino da tè, o dei Buddha dagli alluci grandi quanto vasche da bagno, che ci si paravano davanti alla foce di un fiume?
Nel corso del Settecento gli olandesi furono tra i pochissimi a trafficare con il regno di Ayutthaya, l’odierna Thailandia, unico paese del sud-est asiatico a rimanere indipendente, e instaurarono un rapporto esclusivo con il Giappone isolazionista degli shōgun. In Giappone non volevano evangelizzatori, e già all’epoca l’Olanda dovette apparire come l’interlocutore più laico e spregiudicato, disinteressato a qualsiasi interesse che non fosse economico. Nell’Ottocento l’intero arcipelago delle Indie Orientali divenne ufficialmente una colonia, e gli olandesi presero a sfruttarne il suolo, soggiogarono la popolazione obbligandola a lavorare nelle piantagioni di tabacco, di tè e di caffè per diversificare le esportazioni, nella costruzione di strade e città. Potremmo pensare che la civiltà europea vi abbia quantomeno lasciato un segno: eppure gli olandesi non esportarono in Indonesia né la religione, che rimase, eccetto che a Bali, l’Islam, né la propria lingua. Riuscirono a diffonderci definitivamente la malaria.
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Ho incontrato Cees Nooteboom un’unica volta, nel maggio del 2017, in occasione del Salone del Libro di Torino; lo avrei visto e ascoltato diverse altre volte, ma a debita distanza, mentre solo in quella circostanza ci stringemmo la mano. Mi autografò anche una copia di Cerchi infiniti, compendio dei suoi viaggi in Giappone pubblicato in Italia pochi mesi prima. Credo venne scattata una foto, che andò prontamente perduta. Quel giorno assistetti inoltre a una conversazione pubblica, molto partecipata, tra Nooteboom, che tra le altre cose veniva insignito del Premio Mondello, e il compianto Ernesto Ferrero; scopro in questo momento che ne esiste una registrazione su You Tube, ma in ossequio a quanto di più prezioso è custodito nella letteratura dell’autore olandese – il tempo – andrò a memoria. Mi pare di ricordare che a Nooteboom fu chiesto in cosa consistesse, per uno che viaggiava ininterrottamente da una vita, essere olandese, e lui rispose che a conti fatti la sua vera casa è la lingua; e con lingua, mi pare si intendesse la lingua nederlandese, la lingua in cui Nooteboom scrive e di cui è il maggiore interprete in letteratura. Per un esploratore, un flaneur del suo calibro, il grande paradosso è vivere la lingua letteraria come costante, incolmabile ritorno a casa.
Franciscus Cornelius Nooteboom è nato nel 1933 all’Aia, ha compiuto novant’anni lo scorso luglio. Da giovane si formò in un seminario cattolico dove apprese il latino. Nella prima metà del Novecento le lingue morte erano, nei Paesi Bassi, appannaggio di chi frequentava il liceo ma soprattutto di un già esiguo mondo cattolico che nel dopoguerra avrebbe mosso gli ultimi passi verso l’estinzione. A proposito di questa sua esperienza Nooteboom si esprime pubblicamente con grande ironia, eppure la sua letteratura è senz’altro segnata, nel suo continuo girovagare, svicolare, da una sorta di languore originario, che è quello dell’ex seminarista che ha perduto dio, e ne cerca dove può il pallido riflesso. Nostalgia del sacro e richiamo originario della lingua si amalgamano nella sua scrittura.
La fascinazione di Nooteboom per il Giappone ha un oggetto prediletto, il libro di Genji. Si tratta di un romanzo cortese scritto nel anno Mille da una autrice, Murasaki Shikibu, considerata fra le massime figure del medioevo giapponese. In più occasioni Nooteboom ha definito quest’opera, assieme a Le Note del Guanciale di Sei Shōnagon, anticipatrici del romanzo moderno: «Shōnagon è chiara come Madame de Sévigné […] Per di più, qui la lingua è un’altra cosa. Mentre nei Paesi Bassi i maestri di scuola sono già preparati alla prossima deformazione ortografica, in Giappone la lingua è sacra, inviolabile, espressione dell’anima nazionale, a tal punto che è inimmaginabile che uno straniero possa arrivare realmente a parlarla.» Una lingua e una religione, nella loro forma più pura sono inconoscibili a chi tenti fuori tempo massimo di ficcarci il naso. Si resta avvolti nelle proprie «tenebre occidentali», poiché «chi un giorno si è chiuso dolcemente alle spalle la porta di una religione in genere non è così incline a sostituire i suoi vecchi valori scartati con una nuova serie di miti e misteri […] tuttavia da quei pochi metri di terra nuda si sprigiona un incanto e una sfida misteriosa a cui è difficile resistere.»
Prima ancora che scrittore di viaggio Nooteboom è stato un romanziere di valore assoluto. Ha raggiunto la notorietà con la pubblicazione di Rituali, titolo ormai rarissimo e di cui auspichiamo solerte ristampa, ambientato ad Amsterdam negli anni Ottanta, in un mondo già post-ideologico, che finge di riflettere quando è invece lanciato rovinosamente verso l’oblio di sé. In questo contesto si verifica l’epifanico incontro e confronto fra il protagonista Inni Wintrop e Philip Taads, ritualista del tè e interprete della teologia zen. Suggestioni claustrali e dogmatiche; il novizio cattolico e quello buddhista sono accomunati da alcune posture. Si intuisce implacabile la tensione verso un nucleo divino dell’esistenza che si scontra necessariamente con il nulla della vita mondana. Vita mondana che è appunto gioco, svago, frenesia, accumulazione, distruzione. Per Inni l’incontro col diverso è in questo caso sguardo su di sé, su una tipologia dell’umano costretta, suo malgrado, a fare i conti con l’eclissi di dio. Rituali è uno spartiacque nella letteratura olandese. Ci si potrebbe interrogare su quali altre ragioni giustifichino la passione di Nooteboom per il Giappone e, a partire da essa, se esista un parallelismo fra la religiosità europea e quella asiatica, individuandola magari nell’incrocio fra Meister Eckhart e il Buddha che lo stesso autore suggerisce. Ma il Giappone è anche il paese che occupò le Indie Orientali durante la Seconda Guerra Mondiale, e molti indos, molti olandesi che hanno preso parte alla vicenda coloniale, sono stati segnati dalla prigionia in quella che sarebbe poi diventata l’Indonesia. Non a questo sembra rivolgersi Nooteboom quando scrive di Asia.
Gli scritti di viaggio sono a tutti gli effetti parte del mio lavoro letterario. E poi questa smania di viaggiare, sì, c’entra anche col fatto che all’estero sei un signor nessuno. A parte il completo di foggia buona e il bel paio di scarpe prese in Thailandia nessuno si accorge di te. Apprezzo l’anonimato.
In questa intervista rilasciata nel 1982 a Jan Brokken, all’epoca giornalista dell’Haagse Post, Nooteboom racconta del suo lavoro per la rivista Avenue, la stessa per cui anche Harry Mulisch aveva pubblicato i suoi racconti cubani e che gli permise di viaggiare visitando gli scenari più disparati. Nonostante la sua presenza ai cosiddetti crocevia della Storia, da Budapest a Parigi a Berlino, Nooteboom non ha mai fatto cronaca né ha mai confermato il cliché dell’avventuriero che antepone alla scrittura la forte esperienza di vita. I suoi libri di viaggio, compresi quelli sull’Asia, sono ricchi di visioni costiere o insulari, ma il mare non viene mai solcato. È piuttosto osservato, lo scrittore scruta l’acqua come può fare il guardiano in cima al faro. Di rado è a bordo di grandi imbarcazioni, niente navi da crociera o pescherecci, al massimo battelli, barche per il trasporto cittadino. Non posso che esprimere la mia approvazione, io che una sola volta montando su una bagnarola nel centro di Rotterdam mi sono spinto sotto l’Erasmusbrug per vederlo da vicino e ho vomitato l’anima manco avessi soggiornato notti innumerevoli su una baleniera. I tragitti in barca devono essere brevi, per piccole tratte, il resto lo si ottiene procedendo senza meta, senza cercare con precisione, perché ogni ricerca è ingannevole, e anche a farsi ingannare bisogna esser capaci.
A questo proposito Nooteboom ricorda Rimbaud che si arruola per la guerra di Aceh e parte con le milizie volontarie alla volta di Sumatra solo per disertare e darsi alla macchia appena arrivato: avventurarsi è la scusa per poi rendersi invisibile, smarrirsi nelle tenebre orientali. Ne Il Buddha dietro lo steccato, fulmineo pamphlet dedicato alla Thailandia, uscito – e mai più trovato – per la defunta Traveller Feltrinelli, la materia è ancora più impalpabile. Nooteboom risolve profondi momenti di raccoglimento in una smorfia, in una scrollata di spalle; mentre finge di giungere le mani in preghiera le agita in aria per scacciare una mosca. Il sacro è l’effimero per eccellenza, e viaggiare in Asia per vedere confermate le proprie attese spirituali «è come chiedere a un fan dell’Ajax dove sia il più vicino convento di benedettini». Certo, qualcosa può sempre coglierci di sorpresa, come l’inatteso gesticolare di danzatrici balinesi o un’ipnotica visione di karashishi dipinti. Ma sono ricordi difficilmente documentabili. Non sono inventati, ma nemmeno credibili. Questi incontri Nooteboom pare farli da qualche parte nella sua mente, in una stanza vuota in cui pure accade qualcosa, un gioco di rifrazioni che nessuno, se non quella lingua, quel nederlandese lì, può appunto documentare. Ecco allora l’Oriente. Non esotismo, gusto per il lontano, ma versione dell’assenza, incontro sporadico con il niente.
«Il centro del mondo si è spostato con lui. No, così è detto male: il centro del mondo è al tempo stesso in ogni luogo, ma quando uno si trova momentaneamente in un certo punto, allora è soltanto lì. In Spagna i Paesi Bassi sono un’ombra, in America l’Europa è un fantasma, in Asia esiste prima quello che c’è vicino, appena dopo il resto.»