Olanda, miraggio

Pubblichiamo la prima puntata di una serie curata da Antonio De Sortis sulla cultura olandese, su viaggio e post-colonialismo, sulle traduzioni dimenticate da recuperare.

di Antonio De Sortis

1. da lontanissimo

Pare che Plinio il Vecchio avesse sentore già da qualche giorno dello spettacolo che lo attendeva, quando affacciandosi a prua scorse l’orizzonte. L’avvicinamento dall’entroterra al Mare Frisicum aveva richiesto tutta una serie di inusuali operazioni nautiche, con l’imbarcazione costretta a incunearsi in fossati limacciosi, invasi dall’acqua salmastra, e la marea che inzuppava i fusti degli alberi fino all’attacco delle fronde. Nulla di propriamente spaventoso; qualcosa, piuttosto, di difficilmente definibile, che mal si conciliava con le aspettative di chi si immaginava un Nord di tutt’altra caratura.

Nel suo libro dedicato alle zone di torbiera, lo scrittore Mathijs Deen ricostruisce l’effetto che dovette sortire l’inconsistenza delle coste nordiche agli occhi della spedizione romana quando nel 47 d. C. varcò, plausibilmente senza accorgersene, la soglia in cui i terreni alluvionali, un tempo tipici del nord dei Paesi Bassi, confluivano nel mare. Plinio il Vecchio, militare e naturalista, dovette riconoscere in quella distesa dove terra cielo e mare si accalcavano, anziché accostarsi regolarmente, una sorta di antimondo, tanto cedevole al passaggio della materia quanto impermeabile allo sguardo dell’osservatore, che pur soffermandosi sulla quantità di grigi, di verdi opachi, di aranci traslucidi, restava interdetto senza trarvi un bel nulla. Da quelle parti anche il buio è poco allettante – si presenta di soppiatto, prestissimo, così che l’immagine cambia, ma non bruscamente. L’unione tra i regni del visibile si rinsalda, e in assenza di tratti eminenti – gli astri quasi sempre oscurati, la sponda inabissata, la marea che ha compiuto il suo corso – il paesaggio scompare.

Ricordo che il buio ci sorprese in modo analogo dopo una pedalata nelle campagne della Frisia Occidentale. Il gruppo era composto da cinque o sei persone, dove il sottoscritto era l’ospite e chi mi accompagnava una famiglia di cari amici olandesi, determinata a occupare la domenica pomeriggio mostrandomi le bellezze del circondario. Il tramonto calato anzitempo e quasi in sordina ci convinse a riparare nel piccolo e semi-sconosciuto centro di Franeker per consultare la mappa e rientrare più avanti al nostro alloggio, situato lì nei pressi in qualche polder. Si trattava, tuttavia, di un fuori programma, e tanto bastò a provocare un certo imbarazzo nei miei accompagnatori. Per esperienza so quanto gli olandesi ci tengano a non fare apparire le loro città troppo spoglie e anonime, specie in presenza di visitatori più forniti di bellezze nazionali. Raramente trovano piacevole finire in the middle of nowhere, men che meno se si è appena conclusa la perlustrazione di una gloriosa natuurgebied, uno di quei vasti settori di patrimonio naturale entro il quale la biodiversità trionfa, ma vagare è proibito.

Il nord dei Paesi Bassi ha i connotati di Cornelis Lely e di Sicco Manholt. Deve il suo aspetto a un ingegnere che ha arginato lunghi tratti di Mare del Nord contrapponendovi un colossale sistema di dighe, e a un contadino diventato ministro, primo vero pianificatore della produzione agricola europea su larga scala. La Frisia è una regione antropizzata non solo esteriormente, mediante una progressiva ottimizzazione del terreno disponibile e recupero di quello indisponibile, ma anche intimamente: il suo è un suolo, cioè, ogni momento progettato e ripensato, pur di ridurre al minimo il margine di casualità che lo interessa – un minimo a sua volta governabile, da isolare in riserve naturali dove anche il selvaggio è installato artificialmente. Mentre pedalavo, mi accorgevo che in quei luoghi lo sguardo si attiene strettamente alla sua funzione classificatrice, e se scavalca una siepe è un disastro. Già Plinio il Vecchio aveva guardato nel punto sbagliato, verrebbe da dire: la sua iniziale perplessità lo aveva distolto dall’uso dei Frisi che ogni sera prendevano posto come ascetiche vedette su certi promontori, scelti opportunamente, mentre la costa si allagava; calcolatissimi isolotti in cui sostare ogni notte, fino al calare della marea.

I miei olandesi devono aver tirato un sospiro di sollievo – ora che il caso li costringeva a fronteggiare un anonimo viale lastricato, vento sibilante, vetrine sbarrate, fatta eccezione per un negozio di dischi, dove acquistai “Some Cities” dei Doves – nell’adocchiare l’unica attrattiva della cittadina; i musei sanno essere degli ottimi diversivi, sopperiscono con la ricchezza del tempo alla povertà dello spazio. I locali del planetario di Franeker mi apparvero, di primo acchito, particolarmente angusti, affollati di strumenti di misurazione, orologi, lenti, ma imputavo quella sensazione al modo in cui certe case-museo sono allestite, e solo entrando nella sala principale capii di trovarmi letteralmente in casa di qualcuno, tale Eise Eisinga; un appartamentino settecentesco al cui soffitto, come un’enorme creatura semovente, era aggrappata la volta celeste, in tutte le sue traiettorie orbitali, solcata dall’intreccio delle costellazioni. Più dei tentacoli lignei, binari su cui transitano i pianeti – almeno i sei già noti alla fine del Settecento – di quella wunderkammer allestita da Eisinga nel privato della propria casa ricordo nitidamente il blu e l’oro delle decorazioni; quello stesso contrasto luminescente tipico dell’arte neogotica che avrei ritrovato nel famedio del cimitero monumentale di Milano, o scorto dal sagrato di Santa Maria sopra Minerva a Roma.

Un cielo così rappresentato, privo di ogni prodigio, sguarnito di asfissianti schiere angeliche, esprime un mistero altrettanto profondo, conoscibile solo grazie a calcoli complessi, e che l’epoca dei Lumi avrebbe spinto lo stesso Eisinga a sondare. Forse è sintomatico che a spiccare sulla mappa della Frisia sia questo planetario, il più antico d’Europa ancora in funzione. Il manufatto è per così dire artigianale, realizzato da un autodidatta che si fece bastare una stanza e per dieci anni la arredò come un piccolo universo per distogliere i propri compaesani da quanto certi fondamentalisti andavano predicando nelle campagne attorno a Franeker; nessuna apocalisse era imminente. L’Olanda del puritanesimo, dei culti protestanti che proliferano e si radicalizzano, opposta al pragmatismo di un cardatore di lana, la cui perizia a distanza di duecentocinquant’anni è francamente inverosimile, per l’esattezza con cui tuttora il planetario ricalca il moto degli astri. Il soffitto dipinto in blu e oro; il cielo parcellizzato e solcato da soli sei pianeti; la storia di un progettista ingenuo, ma che aveva appreso chissà come le leggi del creato. È uno dei miei primi ricordi dell’Olanda.

Leeuwarden, capoluogo frisone di appena 100.000 abitanti, è stato capitale europea della cultura nel 2018. Sapendo che l’anno successivo sarebbe toccato a Matera, all’epoca della proclamazione il fatto mi colpì non poco. Più che l’accostamento in sé – in Basilicata ci sono nato e cresciuto – improbabile ma direi casuale, di quel passaggio di testimone mi incuriosiva sondare un’eventuale somiglianza nelle strategie adottate. Un progetto di rilancio, anche il più fantasioso,  non poteva prescindere da alcuni elementi identitari, da qualcosa che “parlasse da sé”. A differenza del defilato ma pur sempre monumentale paesaggio materano, Leeuwarden e la Frisia hanno dovuto compiere uno sforzo scenografico ulteriore. Oltre al planetario di Eise Eisinga, nella regione spiccano poche altre gemme; lo scrigno è piccolo, ma tutto brilla dello stesso, strano bagliore. Alla fine dell’Ottocento da Leeuwarden era salpata per le Indie Orientali Mata Hari; certo non la danzatrice della Belle Époque, né la spia che pareva tenere in pugno le potenze dell’Europa centrale come amanti imbambolati, ma ancora la giovane sposa Margaretha Zelle.

Costretta a emigrare, da subito diede segnali di intemperanza che si accentuarono quando in Indonesia apprese, ingenua e astuta, quelle danze tribali che altrettanto ingenuamente e astutamente sdoganò a Parigi e Berlino – segnali di intemperanza che a Leeuwarden non hanno esitato a mettere in mostra attraverso un “Mata Hari tour”, con tanto di sosta presso tutte le umili residenze infantili della futura diva orientalista. Ben più illustre cittadino di Leeuwarden è quel M. C. Escher incisore, litografo, autore dello Specchio Magico e delle architetture impossibili, che la capitale europea della Cultura ha energicamente omaggiato nel 2018 attraverso una “Escher Experience”. In verità, un po’ come Margaretha/Mata Hari, la cui vicenda somiglia a uno sforzo di rendersi impalpabile, materia biografica effimera, neanche la figura di Escher è davvero interpretabile alla luce di un retroterra.

Le ricerche che avrebbe condotto sulla prospettiva, attraverso una ossessiva ripetizione degli elementi compositivi che tende, a tutti gli effetti, all’infinito, è personalissima, quasi più vincolata alla sua vicenda biografica – fu il fratellastro Berend, geologo, a introdurlo alla cristallografia – e a uno zoppicante percorso scolastico, che all’arte del suo tempo. Anche Escher fu un progettista ingenuo, o un matematico “intuitivo” come fu definito da Doris Schattschneider. L’unica parentesi figurativa in senso stretto, nel suo percorso, è quella giovanile. L’artista olandese visse a lungo a Siena e a Roma, percorse a piedi e a dorso di mulo l’Appennino meridionale, partecipò a lunghe spedizioni nel mediterraneo a bordo di navi commerciali, costantemente sull’orlo della bancarotta, ripagando l’equipaggio in litografie anziché in denaro.

Il netto rigetto del fascismo segnò la fine del suo apprendistato, cui seguì il rientro in Olanda; da allora si sarebbe concentrato unicamente sulla sperimentazione logico-matematica. Tuttavia, si può azzardare che la monumentalità del panorama e dell’architettura meridionali sia il modello a cui Escher avrebbe anelato di lì in poi, paesaggi funestati dalla minaccia bellica e che l’artista olandese aveva abbandonato a malincuore, ma su cui avrebbe basato quell’idea di tridimensionalità così centrale nell’intera sua ricerca successiva. A guardare le figure celate nei suoi vlakvullingen, Escher sembra concentrato a esaurire ogni possibilità tecnica offerta dalla superficie bidimensionale. E se invece i solidi platonici, le architetture impossibili, gli specchi magici, le stelle che contengono iguane altro non fossero che il contraltare della pianura? Magari il segno di un’insofferenza verso un’immagine statica, di cui si vuole forzare, alterare il punto di fuga?

Nessuna provincia dei Paesi Bassi, nonostante il ricco retaggio nazionale, sembra disporre della giusta capienza per contenere le ambizioni dei suoi figli. Gheldria, Limburgo, Frisia, tutto l’ampio bacino del Reno che un intero popolo aveva faticato ad addomesticare e mettere a frutto a un certo momento non è più bastato, e viene da chiedersi, a questo punto del ragionamento – nel paese che ha avuto la sua golden age, che ha fondato la Compagnia delle Indie, che ha dato pieno sfogo a ogni possibile mania di grandezza spostando la linea del proprio orizzonte fino a Giava e Curaçao, a fronte di un incalcolabile costo di sangue – come mai non sia bastato. Evidentemente non basta apporre all’elenco nuovi tratti di mare – aree costiere prosciugate, porti caraibici – poiché la questione non è geografica, ma prospettica. Da un certo momento non si è più trattato di annettere, di espandere l’immagine, ma di porsi fuori da essa. Alcuni grandissimi autori olandesi a un certo momento hanno come smesso di parlare direttamente del loro paese, spinti da una ineffabile insofferenza, prendendo invece in alcuni loro libri – poco discussi, e forse non a caso, nel nostro paese – a rievocarlo alla lontana. Osservandolo cioè dentro una lente, quasi incapaci di scorgerlo a occhio nudo, affettando estraneità. Urge perciò, per chiarire il concetto, fare una breve rassegna di questi narratori escapisti, esuli, esterni al quadro.

[wordt vervolgd…]

 

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