Ricchezza digitale e povertà analogica. La fun morality di Instagram

di Paolo Landi

Chiunque stia sui social, soprattutto Facebook ma anche Instagram, sarà incappato, prima o poi, nella richiesta di amicizia di nomi altisonanti, tipo David Rothschild (che a volte ci contatta anche come Jacob) evocativi di banche mondiali, oppure arabeggianti al profumo di petrolio come Abdullah Al-Ahmad; o anche asiatici: e qui sono in azione, a guardare i profili, belle ragazze che si chiamano Jianya Tang o Mia Wong. Tutti la prendono alla larga, “exciting kicking new projects”, “looking forward to sharing ideas and learning more about you”, tutti propongono “profitable business”, qualcuno si spinge a dichiarare “I really need you to guide me and be my assistant”. Continuando le conversazioni si scoprirà presto che vogliono comunicare via whatsapp, per avere il nostro numero di telefono, propedeutico a una infiltrazione più profonda nelle nostre vite digitali, per carpire informazioni che servono loro, evidentemente, per fare affari in quella zona d’ombra che Facebook e Instagram riservano, per chi ci casca, alle truffe, all’usura, a traffici poco chiari. I social, nella loro euforia, sono speciali per lucrare sulle depressioni, in senso sia psicologico che economico. Lo fanno cominciando con l’applicare il loro primo comandamento: eccitare lo snob che è in noi, soprattutto in noi follower. Contattati – e in inglese! – da un Rothschild o da uno sceicco intravediamo subito delle opportunità, invece che un imbroglio. Perché i social sono speciali anche nel frustrare continuamente il bisogno di uguaglianza, che pure sembrerebbero applicare con spreco di democrazia, allevando orde di ansiosi per la propria posizione: i truffatori digitali lo sanno e nelle migliaia di contatti che attivano ogni giorno, qualcuno che risponde lo trovano. E probabilmente anche qualcuno che accetta le loro offerte. A cosa ci abituano infatti i social? Semplificando: a pensare come i ricchi.

Anche chi non è ricco su Instagram e su Facebook ha sempre la sensazione di “essere qualcuno”. Non siamo ricchi ma i social ci consentono di comportarci virtualmente come se lo fossimo, ci rendono individualisti, solleticando il nostro narcisismo con i like che riceviamo e che restituiamo o non restituiamo, ci disabituano a pensare, diciamo, in termini sindacali. Il tentativo del movimento operaio all’inizio del secolo scorso di liberare i lavoratori dalla povertà consentendo loro una vita dignitosa, naufraga definitivamente, tra alterne vicende, in questo 2021, quando la società sembra ridursi ad offrire due cose: ricchezza o povertà, senza vie di mezzo. E chi vuole sembrare povero su Instagram? Ovviamente nessuno. Chi non può tuffarsi nella piscina della sua villa o in quella di amici, mostrerà sul suo profilo uno scorcio azzurro di quella comunale. Non è solo una provocazione: i social dicono molto su come la società stia cambiando, sulla radicalizzazione classista che rimpiazza il livellamento auspicato nella post rivoluzione industriale, quando appartenere alla classe media sembrava un obiettivo. Instagram ci allena ogni giorno a ragionare come i ricchi. Nella vita reale si notano dissonanze preoccupanti: monumentali cancelli in ferro battuto sbarrano l’accesso a villette modeste; sofisticati sistemi d’allarme proteggono case dove non c’è niente da rubare e l’unica cosa da portar via e da disperdere per sempre sarebbe il cattivo gusto dei proprietari; casalinghe qualunque tengono in braccio un barboncino; nelle periferie estreme delle grandi città, dove gli enormi condomini sconfinano in campagne devastate e svincoli autostradali, c’è quasi sempre un ristorante di sushi. Non c’è niente da rimpiangere, quel che c’era da dire su omologazione, autenticità e concretezza lo disse già Pasolini nel 1973. Ora dobbiamo solo prendere atto di questa mutazione epocale: pochi anni fa, in era pre-tecnologica, si alimentava l’illusione, attraverso la pubblicità, che il possesso di più cose rendesse più felici. Secoli di educazione alla parsimonia gettati al vento in cambio della gratificazione immediata che l’acquisto di una qualsiasi merce poteva dare. Ora anche questa dimensione analogica va a farsi benedire. L’economia virtuale dei social network ci dice che la felicità non sta più nell’accumulo di oggetti, bensì nella sua semplice esaltazione: la diffusione di massa dei beni lascia il posto a una cultura quotidiana dominata dalla mitologia della felicità privata e da generici ideali edonisti.

Se n’era accorto, già negli anni ’60, Edgar Morin, oggi centenario, attirando l’attenzione sulla cultura di massa che orientava la ricerca della salvezza individuale verso il tempo libero e ciò che sembrava veramente nuovo, già in quegli anni, era il progresso di una concezione ludica della vita. Le grandi corporation tecnologiche hanno aiutato oggi a perfezionarla, mutando la società delle merci in civiltà del desiderio, dove il benessere materiale è sufficiente che possa essere rappresentato, non essendo poi così importante che esista davvero.

Un diritto al lusso che, grazie ai social, diventa preoccupazione quotidiana globale. La rivendicazione di tempo per sé, di momenti di vita ritagliati sui desideri individuali tracima su Instagram, mostrando popoli di ogni etnia e cultura impegnati nella ricerca di una confusa realizzazione personale. Il profilo della figlia ventenne di Woody Allen, che vive nella penthouse del padre in Fifth Avenue, è intercambiabile con quello di una coetanea di qualunque nazionalità, addestrata dall’algoritmo di Instagram a mostrare peluche, cibi gourmet, tramonti, vacanze con il boyfriend. A forza di convincerci che siamo tutti uguali, Instagram ci sta persuadendo che essere, anzi “sembrare”, è più importante che avere. Anche il denaro perciò si smaterializza. Il processo era iniziato anni fa con il credito a basso costo che aveva alimentato il culto della novità da comprare subito, il “compra adesso paghi poi”; la plastic revolution delle carte di credito aveva perfezionato il sistema, abituandoci ad un uso astratto del denaro. Oggi, nelle società evolute, nei grandi agglomerati metropolitani, tirare fuori una banconota dal portafoglio è sempre di più un gesto desueto. Si compra sui marketplace e sui social e si paga con un click mentre si afferma quella riserva di valore, nata e sviluppatasi in Rete, che va sotto il nome di Bitcoin. Non una moneta vera e propria, determinata da un Ente centrale né da meccanismi finanziari sofisticati, ma una valuta il cui valore è determinato unicamente dal meccanismo domanda-offerta.

Wikipedia spiega che utilizza un database distribuito tra i nodi della Rete che tengono traccia delle transazioni: è un altro modo per abituarci a considerare digitale anche il portafoglio, archiviabile tra poco a reperto archeologico nella sua fisicità, anch’esso sostituito, come la macchina fotografica, la calcolatrice, il lettore cd, lo sportello bancario ecc. dal nostro smartphone. Mentre la maggioranza delle persone è occupata sui social a sembrare ricca, i veri ricchi, con le loro storie epiche, diventano modelli di una nuova mitologia della ricchezza: basta un’idea per diventare milionari, ci dicono gli Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp), i Jeff Bezos (Amazon), i Larry Page (Google), i Jack Dorsey (Twitter) mentre i Bill Gates e gli Steve Jobs appartengono ormai all’era delle sperimentazioni tecnologiche nei garage della Silicon Valley, un mondo così vicino ma ormai così lontano, surclassato dalle “business idea” di questi startupper giovanissimi, diventati in un batter d’occhio i padroni del mondo. La mitologia vuole infatti che siano soprattutto i giovani a diventare billionaire smanettando sui telefoni. Niente di più obsoleto della retorica della fatica, dei sacrifici, perfino della competitività professionale, per affermarsi nel lavoro: la ricchezza scaturisce da un’idea, che è ciò che devono aver pensato anche i Rothschild, gli Abdullah Al-Ahmad e le Jianya Tang quando ci contattano su Facebook per estorcerci del denaro. La “fun morality” vuole che ci si diverta lavorando, al diavolo il mitizzato lavoro di squadra, tutto accade nel cervello di un ragazzo, non necessariamente diplomato a Eton; agli sfigati i lavori che richiedono sforzo fisico e lo stipendio mensile.

In questo scenario l’emigrazione dal terzo mondo verso l’Occidente, che potrebbe sembrare non entrarci nulla con queste considerazioni, è perfettamente funzionale. Quando tutti sono, o piuttosto sembrano, o si sentono ricchi c’è bisogno di identificare il povero in modo preciso. Quando il virus della ricchezza ha definitivamente colonizzato i nostri cervelli siamo pronti ad accogliere o a rifiutare sdegnosamente i perseguitati che bussano alle nostre porte. Più l’individualismo social prende piede, più perde significato il concetto di solidarietà. Se proteggo la mia casetta con un cancello alto cinque metri, dimostrando di non avere un’idea sensata del valore delle cose, per quale ragione dovrei dividere quel che ho con degli sconosciuti? L’internazionalismo delle bandiere dei lavoratori sostituito dal globalismo delle immagini sui social, con la lotta di classe derubricata a lotta contro i poveri e i loro simboli, non perché siamo diventati davvero ricchi (conviene ripeterlo), ma solo perché la ricchezza ce l’hanno ficcata in testa. Raccontano che Karl Lagerfeld abbassasse le tendine ai finestrini della Bentley con autista sulla quale viaggiava, quando attraversava le periferie di Parigi e le rialzasse solo nei pressi di Place Vendome. I poveri sono brutti da vedere, la loro immagine, che Lagerfeld rimuoveva, ha cominciato a disturbare anche noi. Nello stesso tempo ci servono, sentiamo la necessità di identificarli, sono il nostro nuovo nemico, perché ci ricordano i nostri fallimenti umani e tendiamo ad addossare loro ogni colpa, nello stesso modo in cui a un ricco perdoniamo tutto.

La ragazza cacciata di casa dai genitori magrebini dopo il suo coming out, ha usato i centomila euro raccolti dal crowdfunding solidale per comprarsi una Mini, non proprio un’utilitaria, scatenando l’odio e gli insulti sui social e diventando, da paladina dei diritti e delle libertà, una bieca approfittatrice abbagliata dal lusso. Jean Paul Sartre constatava, in un saggio sul razzismo scritto negli anni ’50, che nel settore dell’edilizia il razzismo non esisteva, era proprio un fenomeno sconosciuto. Uomini di diverse nazionalità lavorano in questo campo da secoli. Già in epoca preindustriale gli artigiani costruttori giravano per tutta Europa e ogni nazione aveva la sua specialità da offrire. Oggi è il substrato popolare e operaio che vota Lega il primo a voler cacciare gli stranieri, tradendo quel nobile passato. Non sono più i detentori dei privilegi a volerli conservare chiudendosi, sono i meno abbienti a confermare questa recrudescenza della guerra tra poveri. Mentre la ricchezza sembra sempre di più un’invenzione alla quale preferiamo credere, amplificando sui social le foto del nostro modesto benessere snobisticamente mascherato, i poveri esistono davvero.

Ma abbiamo imparato a superare il panico moralista che ci attanagliava in epoca analogica, quando le cose ancora si potevano toccare con mano, e ci riportava alla realtà. Oggi, nell’immaterialità che ci pervade, nella felicità che dilaga sui social, nella ricchezza che sembra finalmente conquistata perché abbiamo imparato a dare valore a un drink sorseggiato davanti al sole che cala e postarlo ci fa sembrare degli happy few, sarà complicato riappropriarci delle nostre autentiche catastrofi e della nostra vera povertà.

Commenti
2 Commenti a “Ricchezza digitale e povertà analogica. La fun morality di Instagram”
  1. Andrea ha detto:

    Amen

  2. Luca di Paolo ha detto:

    – Non siamo ricchi ma i social ci consentono di comportarci virtualmente come se lo fossimo, ci rendono individualisti, solleticando il nostro narcisismo con i like che riceviamo e che restituiamo o non restituiamo, ci disabituano a pensare, diciamo, in termini sindacali. Il tentativo del movimento operaio all’inizio del secolo scorso di liberare i lavoratori dalla povertà consentendo loro una vita dignitosa, naufraga definitivamente, tra alterne vicende, in questo 2021, quando la società sembra ridursi ad offrire due cose: ricchezza o povertà, senza vie di mezzo –

    Sembra comunque che anche storicamente le azioni operaie volevano volgere ad un’evoluzione culturale, economica e sociale, ma questo non è il loro caso; questa evoluzione di simbiotica povertà camuffata in ricchezza e viceversa, ha fatto veramente “lamplain”, e sembra funzionare, ricchezza o non ricchezza.

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