Santi numi, per essere seri scherzando

Ti sei mai chiesto
qual è la tua funzione?

[Franco Battiato – Pollution]

Per ragioni che nulla hanno a che vedere con questa recensione, nei giorni scorsi, mi interrogavo su quali fossero – dando per scontato che vi fossero, fatto in sé però ancora tutto da verificare – il senso e il valore della scrittura. Perché si scrive è una domanda di impossibile risoluzione, almeno per me. Allora ho pensato di ribaltare la questione e guardare le cose da una prospettiva complementare. La domanda, più precisamente e meno filosoficamente, con alcuna pretesta di valore universale ma ben delimitata ai confini della mia persona, è diventata: cosa mi piace nei libri che leggo? Trascurando in questa occasione il noioso ragionamento che mi ha condotto a una momentanea risposta, posso sintetizzare utilizzando due parole. Inadeguatezza e divertimento. Sull’inadeguatezza non è il momento di soffermarci, dedichiamoci soltanto al divertimento, al divertissement di Pascal, a quello che si tende a definire – in accezione negativa – intrattenimento e che butta dentro letteratura di genere, testi dal tono scanzonato, libri leggeri finendo per trasformarsi in una definizione polpettone, indistinguibile e senza più sapore.

Ora direte, perché mai devi sempre iniziare raccontando di cose che non hanno niente a che fare con il libro di cui poi scriverai? Perché, in realtà, hanno sempre a che fare con il libro di cui vi parlerò. Santi Numi di J. M. è infatti un divertissement perfettamente riuscito. Il preambolo era necessario per liberare subito il campo da possibili equivoci: per me non c’è nulla di male se un libro si pone l’obiettivo di non essere serioso e se il suo autore – ho verificato in una lunga telefonata – ha lo stesso atteggiamento di Geppetto davanti al suo Pinocchio, appassionato, innamorato, ma ben consapevole che il suo è pur sempre un pezzo di legno, o meglio di carta, è che si tratta sicuramente di una cosa alquanto buffa e da non prendere con troppa serietà.

Il libro di J. M. è oggettivamente un suicidio editoriale: una raccolta di racconti, alcuni molto brevi che ricordano le esperienze di micronarrazioni di cui l’autore ci aveva già dato prova in Polpette, e per di più densi di ironia. Lo sanno tutti che non esiste accoppiata peggiore della comicità associata ai racconti. Fosse stato un romanzo, ancora ancora. E come si sia arrivati a ragionare in questi termini è a dir poco assurdo se consideriamo la storia della letteratura, quindi della letteratura in Italia. Perdonatemi la superficialità del discorso, perché non ho né le competenze né lo spazio per un riassunto di troppi anni di storia, ma fidatevi se scrivo che la nostra tradizione è quella della novella e se il tono preferito era quello della commedia. Oggi sembrano invece caratteristiche da ricercare nella letteratura anglosassone e così, per la sfortuna di raccolte come quella di J.M., si è tutti alla ricerca del Grande Romanzo Italiano. Che noia, posso dirlo? Ormai l’ho detto.

Questa patina di serietà richiesta ai romanzi sembra venir fuori da un errore di lettura: spesso si tendono a leggere i testi – faccio l’esempio estremo della Bibbia, il più grande long seller della storia – in una chiave tremendamente più seriosa di quanto fosse probabilmente nelle intenzioni degli autori. Leggendo si potrebbe notare una certa diffusa ironia, una simpatia, quelle battute di spirito che come diceva Freud sono un chiaro ed evidente tentativo della mente di rendere la realtà più gradevole. Cavazzoni, autore molto caro a J. M., ripeteva spesso che l’ironia è una questione di udito, non dipende tanto da chi scrive ma da chi legge perché potrebbe, semplicemente e senza fargliene una colpa, incapace di ascoltarla, di coglierla. La mancanza di ironia sembrerebbe essere una questione di sordità. O di cecità se si pensa a quanto la vita sia spesso tragicomica e la maggioranza di noi si concentri sulla parte tragica, dimenticando la comicità in qualche angolo del cervello. Ci deve essere un meccanismo, nascosto non tanto nei singoli testi ma in una postura alla lettura, che ci ha portato a virare tutto verso una maggiore serietà: e se fosse la distanza temporale? Ossia, se fosse proprio lo scorrere del tempo, la distanza tra noi e l’autore, tra noi lettori e ciò che si narra, a conferire una maggior dignità e seriosità al testo? Forse, poiché si tende a definire il nostro tempo come quello dell’intrattenimento, della leggerezza a tutti i costi, allora si arriva a credere che i tempi passati fossero più austeri e l’uomo più impegnato. Come se ogni autore raccontasse storie non per il gusto di intrattenere, ma di far filosofia. Non di emozionare, magari di divertire, ma soltanto di impartire grandi lezioni di vita. L’ossessione di dover imparare dai libri è una malattia dalla quale forse non ci liberemo mai. Ho scritto malattia? Forse per qualcuno è una necessità, ma non per me. Per questa ragione il preambolo di cui sopra: a me interessa divertirmi. E in questo Santi Numi compie il suo dovere. Hanno qualcosa dei racconti di mio nonno, al terzo bicchiere di vino, durante l’ennesimo pasto in famiglia: non c’era nessuno che lo prendesse sul serio, ma tutti lo stavamo ad ascoltare perché ci faceva divertire.

Tutto il divagamento sulle origini della nostra letteratura trecentesca e settecentesca, tra le altre, non è stato casuale: nei racconti di J. M., a metà strada tra l’agiografia e il pettegolezzo, si respira un’atmosfera medievale, di vite comunissime che vengono assunte a grandi esempi di virtù. Il narratore, come un vero compilatore, si mette da parte, alza le mani, non si assume alcuna responsabilità sulle storie di cui conterà: in questo modo l’assurdità delle esperienze, i vizi dei protagonisti e le loro miserie, la loro vera e piena umanità, non comportano nessun grado di separazione, non c’è un noi e un loro. Ma siamo tutti così. Poveri, stupidi, santi e alle volte beoti, molto spesso beoti. Santi numi, oltre al titolo, sembrerebbe essere l’espressione che ognuno di noi si lascia scappare quando la vita incastra troppe coincidenze, mette in fila troppi eventi assurdi per essere veri. Placido parla di un ideale oraziano, della possibilità di essere seri scherzando perché la commedia può essere anche tragica, invece la tragedia non possiede comicità. In quest’ottica l’operazione dell’autore è evidente: anche quando si parla di demenzialità, e alcuni di questi racconti lo sono, sfidano il possibile, sono così troppo assurdi da diventare appunto demenziali, bisogna guardare più alla tradizione dei Monty Python che a una certa commedia italiana più recente. Gli stessi Monty Python che nel cinema hanno rubato alla storia le gesta di Re Artù – o di Gesù Cristo – per tirarne fuori delle esperienze dissacranti, ironiche, demenziali, intelligentissime così come fa J. M. in questa raccolta. Non è un caso se la fede, e l’autore gioca appunto con false vite di santi, sia terreno fertile per una certa produzione. La religione ha bisogno di fede, la stessa che il lettore concede al narratore e ai personaggi. J. M. ironizza, mi pare di aver intuito in alcuni racconti, addirittura sul ruolo stesso delle scrittore, sulle ossessioni di storie necessariamente vere, questa ricerca costante di cronaca da inserire in romanzi che hanno sempre l’odore del giallo.

Di Santi Numi potete leggere decine di recensioni precise e puntuali che raccontano di questo o quell’episodio, di tal personaggio o di un altro, mi limiterò ad anticiparvi l’incontro con figure tipiche della nostra cultura religiosa le cui esperienze sono rivisitate e figure che effettivamente riprendono episodi realmente accaduti nella vera pianura padana raccontata da Masini. Pare infatti che le motivazioni dell’autore fossero di doppia natura: da un lato riproporre al giorno d’oggi – ma non proprio oggi, comunque negli anni ’70 o ’80 perché il distacco temporale rende potenzialmente credibili le storie e quindi aumenta l’ironia, gli anni in cui l’autore è cresciuto e l’ultima epoca pre internet – delle esperienze vecchie di secoli e di ambientarle in luoghi che lui conosce bene e che, per conformazione geografia e sociologica, aumentano ancora la credibilità. Tra un’osteria e un’altra sembra plausibile incontrare personaggi come quelli di J. M. Superando il confine tra storie vere e storie inventate, perché qualcuno possiede un sistema infallibile per separare il vero dal falso?

La struttura degli episodi merita un piccolo approfondimento perché ho riscontrato una certa somiglianza ai racconti orali, al costrutto di una barzelletta. L’oralità ha dei tempi diversi, si ripete, tende a parlarsi addosso e così fa il narratore che spesso si dilunga in preamboli inutili, in dettagli che se da un lato hanno il compito di rendere più credibile la storia dall’altra parte non fanno che aumentare l’assurdità del racconto. I racconti si caricano, aumenta l’aspettativa e poi il testo si chiude – ma non si spiega o si conclude realmente – proprio come una barzelletta: con i tempi giusti, senza una parola di troppo, suscitando se non una risata almeno un sorriso. Questo non è affatto scontato per un testo scritto che non ha la certezza di essere letto ad alta voce. Ecco il consiglio, leggetelo a voce alta. Leggetelo come se vi fosse qualcun altro a raccontare quelle storie.

Poiché queste storie sembrano essere i racconti minori di vite più grandi, quegli episodi che ogni narrazione che si rispetti tenderebbe a trascurare, mi sono tornati alla mente tre testi minori di autori invece noti per tutt’altro. Cinematografo occidentale di De Amicis sembra raccontare quel che forse è accaduto a J. M. quando si è reso conto di avere tra le mani delle storie che nascevano per vere e proprie associazioni di idee, cariche di un’ironia inaspettata e quasi fuori luogo. Il Varmo di Nievo invece mi ricorda le ambientazioni, quel tono da Arcadia, perché un mondo senza tecnologia, in luoghi come la pianura padana, se stiamo parlando degli anni ’70 del ‘900 o degli anni ’70 del ‘200 poco importa. Poi ci sono i nomignoli, quei nomi che sembrano delle storpiature, che aumentano la percezione del buffo in tutto ciò che è umile. Infine L’Allegro Buffalmacco di France che riprende lo stile di Boccaccio e Sacchetti, della tradizione italiana e lo fa da straniero amante del genere, che ricerca la stessa comicità e ironia facendone un’amorevole, e piena di devozione, parodia. Così anche Santi Numi sembra essere un omaggio al nostro passato prossimo, raccontato dal futuro o come se fosse remoto se non addirittura trapassato.

Tutti i libri citati sono stati scritti nell’ottocento, perché mi pare che J. M. vada a ritroso nelle sue scelte, non cerchi in alcun modo il Grande Romanzo Italiano quanto piuttosto un nuovo e ben riuscito Decameron. C’è l’ironia di chi guarda nell’epica, nei racconti cavallereschi e ne evidenzia i paradossi – costruendo personaggi che non hanno alcun motivo per dire la cosa giusta, ma si lasciano andare e dicono la cosa che a tutti passerebbe per la testa. E spesso sono parolacce e imprecazioni, maledizioni al cielo e al destino, ben lontani da eroismo, santità e beatitudine. Nel racconto La venerabile Nanda Azzali di San Pancrazio e la storia dell’uva troviamo un lunghissimo, quasi una pagina intera, periodo intervallato da un unico punto. Un esercizio stilistico necessario per fornire delle informazioni essenziali alla lettura? No, assolutamente, è una lunga elucubrazione inutile che però non ci allontana dalla pagina, anzi ci fa sorridere. O come nell’ultimo racconto, in cui un certo Lazzaro – nomen omen – è quasi stramazzato e un cherubino, il nonno di Lazzaro e un ex vescovo di Poitiers discutono sul destino del protagonista. Sono lì a riflettere sul da farsi e la scena appare quasi come una parodia dello scrittore alle prese con se stesso, i suoi dubbi e i diversi possibili finali della storia. Il conciliabolo invisibile dei tre è forse proprio la scrittura e magari non è un caso se l’autore abbia inserito questo racconto proprio alla fine della raccolta.

Ma mi fermerei qui perché a fare troppe speculazioni si rischia di attribuire all’autore qualcosa che non esiste. Evitiamo di correre il rischio delle persone che vogliono sembrare a tutti i costi intelligenti e finiscono per vedere cose dove non ci sono. Il risultato potrebbe essere quello di ritrovarsi nella prossima raccolta di J. M., in una scanzonata commiserazione dei nostri difetti più evidenti. Perché leggere questo libro? Perché racconta belle storie, la risposta più semplice.

Ora che la mia esperienza di lettura è conclusa posso rubare ancora poche parole, se non fossero state sufficienti quelle già spese, per regalare qualche altro punto dignità a un testo che sa essere leggero senza per questo aver nulla di superficiale. Non credo di dire assurdità quando sostengo che la cosa peggiore che possa succederci è morire, allora tutto il resto – abbiate pazienza e vogliate essere prosaici – possiamo tranquillamente considerarlo come un gioco. E riderne. Dei libri, delle nostre storie e anche di noi stessi. Soprattutto di noi stessi.

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