Sovvertire l’algebra: “Tommaso e l’algebra del destino” di Enrico Macioci

di Afredo Palomba

«La malasorte è un sommo artista dei dettagli», scrive Enrico Macioci in Tommaso e l’algebra del destino (Sem, 2020). E la malasorte decide, un giorno, di accanirsi su un bambino di cinque anni e mezzo, Tommaso Rovere, il protagonista del romanzo, che si ritrova chiuso nell’auto paterna mentre il genitore egoista e responsabile di averlo lasciato solo lotta, in coma, per sopravvivere. La prima cosa che verrebbe da chiedersi è: può una vicenda che dura poco più di ventiquattr’ore – dall’alba del 14 all’alba del 15 agosto 2014 – costituire a tutti gli effetti un romanzo di formazione, sebbene oltretutto la ‘formazione’ riguardi un cinquenne? Sì, a quanto pare è possibile.

Il tempo che passa è elemento problematico, in un bildungsroman; posto allora che Tommaso e l’algebra del destino lo sia, qui il tempo è più che problematico: è un nemico sadico, impietoso, scandito meticolosamente dalla voce narrante. Questa procede, in un consapevole indiretto libero, di personaggio in personaggio, analizzandone l’intimità alla maniera di un entomologo ma come tenendo d’occhio l’orologio, considerando con freddezza l’avvicendarsi dei minuti e delle ore e, sempre, tornando all’agonia del piccolo protagonista. Tommaso, imbrigliato al seggiolone sul sedile posteriore della Citroën di Giorgio Rovere, i vetri semioscurati da una tenda traforata e quindi difficilissimo a essere individuato dagli sparuti passanti, avverte su di sé l’angoscia del prolungato abbandono in una condizione fisica e psicologica sempre più compromessa, accompagnato da voci interiori che solo in parte sembrano emanazioni di una psiche infantile prostrata e sono invece più simili a veri e propri fantasmi: un coro greco che lo circonda – ora incoraggiandolo e suggerendogli strategie di sopravvivenza, ora spaventandolo a morte – e lo aiuta ad acquisire coscienza della sua desolata condizione. «La solitudine – dice il narratore – allunga il tempo, lo rende appiccicoso come un chewing gum. La solitudine fa crescere i bambini più in fretta, sottrae loro il sogno dell’eterna felicità, […] non rispetta le regole del tempo. La solitudine è un’onda di tempo senza frammenti, è puro tempo nudo e crudo», tempo da riempire perfino di spettri, pur di non impazzire.

Non stupisce che un’esperienza così sconvolgente, per un bimbo dell’età di Tommaso, costituisca un addio definitivo allo stupore dell’infanzia e, forse, è proprio tale rinuncia l’elemento più doloroso del romanzo di Macioci: «Nella testa di Tommaso scattò un clic. Una porta fino a quel momento aperta – la porta della stanza luminosa che ospitava le fate, i maghi, Babbo Natale, gli gnomi, gli unicorni – si chiuse con un colpo secco lasciandolo fuori, al buio».

L’ingresso nell’età adulta prelude allora al mondo di un padre incomprensibile, traditore, che «se ne sbatte il cazzo» di Tommaso, di un nonno pur affettuoso e protettivo ma che non è lì ad aiutarlo, di una madre incapace di ammettere il naufragio del proprio matrimonio, perché «gli adulti parlano e parlano e il più delle volte non mantengono le loro promesse». Gli uomini e le donne che popolano il romanzo, anche le comparse, sono sempre figure irrisolte, in qualche modo in crisi, e proprio in una situazione di crisi il piccolo Tommaso arriva, e contrario, a somigliare al padre, per il destino miserando e in apparenza comune a entrambi di «spegnersi nell’immobilità, nell’impotenza e nella stupidità»: Giorgio per un ridicolo incidente e Tommaso vittima di una malasorte che, si diceva all’inizio, ama scompaginare le possibilità di salvezza e sembra procedere inarrestabile insieme alle vicende, alone mortifero – a un certo punto addirittura manifesto – che impregna il presente del piccolo prigioniero e lo avvelena.

Romanzo, Tommaso e l’algebra del destino, in cui Macioci paga il proprio debito alla narrativa di Stephen King, riproponendo tanto alcune atmosfere rarefatte e infantili de La bambina che amava Tom Gordon quanto quelle claustrofobiche, schizoidi di Misery. Romanzo, pure, non privo di difetti formali, quali inefficaci reticenze della voce narrante – «ma non era una sagoma bensì… qualcos’altro»; «La figura si era girata mantenendosi immobile, e il volto… il suo volto…», «Tommaso sembrava sul punto di… di…» etc. – o un ritornare troppo insistito a concetti acquosissimi quali “anima” e “vita” – «la vita è una guerra. La vita è un giro di giostra», «La vita è un’algebra ancora da decifrare» etc. – che talvolta ingoffiscono il narratore onnisciente e lo fanno rassomigliare a una sorta di filosofo sapienziale urbano.

Romanzo peraltro molto ben scritto, in cui il lettore è condotto in una storia ai limiti dell’horror che sa parlare con toni lievi di abbandono, solitudine, trauma, innocenza, sacrificio. Ed è proprio sul concetto di sacrificio che gioca il finale, e sull’esortazione, anche crudele, a non smettere di credere, perché «credere trasformava la realtà». Questo imparerà Tommaso, scontando sulla sua pelle tutta la sofferenza necessaria a sovvertire l’algebra del destino, a cambiare la realtà, a sopravvivere.

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