di Livia Stark
L’installazione di luce Out di Fabrizio Crisafulli, creata nel settembre 2023 al Parco dell’Uccellina in Maremma, fornisce lo spunto per alcune riflessioni sui rapporti tra arte contemporanea e natura. Il lavoro è stato realizzato nell’ambito della quarta edizione del festival “Dune. Arti, Paesaggi, Utopie”, diretto da Giorgio Zorcù, nella sezione costituita, come si legge nei materiali del festival, da un “campus creativo transdisciplinare che utilizza il linguaggio dell’arte come strumento di indagine, valorizzazione e connessione interiore con l’ambiente, aperto a giovani talenti e a un gruppo di Maestri riconosciuti”. Tra questi, negli ultimi due anni, è stato invitato Crisafulli. Il format di Dune è piuttosto consonante con il progetto “teatro dei luoghi” che Crisafulli porta avanti da molto tempo. Un progetto nel quale, come dice l’artista, “il luogo dove lo spettacolo teatrale viene creato e presentato viene assunto quale matrice della creazione”. Rispetto al lavoro del performer, alla parola, al movimento e a tutti gli elementi espressivi del teatro, in questo progetto viene affidata al luogo “una funzione generativa simile a quella usualmente svolta dal testo”. Nelle installazioni, Crisafulli adotta un approccio simile a quello del “teatro dei luoghi”: il sito diviene matrice della creazione della luce, del suono, dei percorsi.

Raggiunta attraverso un sentiero notturno nel bosco, Out si presentava con la forza di una manifestazione: l’ambiente abbracciato dal lavoro era molto ampio e riusciva a unire luce, spazio, alberi, aria, cielo, animali in un unico respiro. In primo piano, due grandi pini marittimi ridisegnati nella penombra attraverso linee di luce che ne riprendevano parzialmente le forme; e, in lontananza, in fondo a una radura, un terzo grande pino. Su due alberi, in primo e in secondo piano, dei tondi colorati, uno blu e uno rosso, innescavano le relazioni tra le parti, tra gli spazi, tra albero e albero, tra rosso e blu. L’installazione faceva percepire ogni albero come un essere, una presenza viva, quasi un attore. Il calore con cui la luce restituiva gli elementi e la forza che l’ambiente acquistava nella percezione producevano l’apparire improvviso di un paesaggio immaginifico del quale rimaneva presente la matrice. La voce dei grilli, la notte e il cielo stellato erano altri elementi che il lavoro assimilava, e che fondeva con il segreto delle forme luminose. Quello che colpisce di questo lavoro è la capacità di coniugare le istanze dell’arte contemporanea, la tecnologia, la luce, con il sentire profondo della natura. Il rispetto per l’ambiente, in un’opera come questa, si realizza attraverso uno spostamento visionario e poetico che reinterpreta la natura relazionandola con l’oggi e la cultura. Abbiamo posto alcune domande all’autore.
A cosa è legato il titolo Out?
Al fatto che l’installazione è stata realizzata in esterno e soprattutto alla sua collocazione territoriale in un luogo lontano; in un’area interna del parco che il pubblico poteva raggiungere a piedi dopo una lunga camminata notturna nel bosco. E al suo essere una stazione finale rispetto agli interventi dei giovani artisti del campus, al termine del percorso, dietro una grande barriera di verde.

Nel tuo “teatro dei luoghi” lavori con quello che c’è, con il sito trovato, i suoi oggetti, gli spazi, le memorie, le funzioni, i rumori, trasformandoli in un luogo nuovo, fortemente immaginativo, e con un senso di apertura. Un teatro di visioni motivate dall’esistente, che nascono dalla situazione in cui operi. Ho potuto constatare che gli spettatori di Out erano stupiti nel vedere un loro luogo così trasformato in senso fantastico e allo stesso tempo così “rispettato” nella sua essenza. Mi ha colpito la reazione di alcuni che, al primo contatto visivo con l’installazione, avevano un sussulto. A partire da quel primo momento, il tempo, per lo spettatore, sembrava cambiare. Il pubblico entrava in un presente dilatato, nel quale memoria e immaginazione sembravano convergere. Che tipo di specificità comporta lavorare in un luogo isolato, e nel quale i punti di riferimento sono la natura, il parco, le piante?
In quel luogo non arriva nemmeno indirettamente la luce della città e il buio ha quindi una notevole profondità. In queste condizioni, con questa estensione dell’oscurità, si può lavorare con una grande ampiezza di gradi e di sfumature. Con la luce, le cose e i loro dettagli, le infinite variazioni del verde e del paesaggio, possono “accendersi” di potenze inaspettate. Le cose minime e i particolari acquistano grande importanza. Nel fare questo lavoro mi sono reso conto, meglio che in altre circostanze, che ciò che alla fine prende forma è innanzitutto una condizione atmosferica. La penombra e l’aria entrano a far parte delle materie con le quali si lavora e svolgono un ruolo centrale. Per Out è stato come lavorare sulla sensibilità non solo degli alberi, ma anche dello spazio e dell’aria. Una certa influenza sul lavoro penso l’abbia avuta il mio stare sul posto a lavorare di notte. Il sentire la presenza delle piante e degli animali. Il terreno dove abbiamo disposto gli apparecchi era pieno di tane di cicale, e i cinghiali sono ghiotti di cicale. Dovevamo evitare di disporre gli apparecchi sulle tane perché di notte i cinghiali avrebbero potuto spostarli: data la precisione dei puntamenti, specialmente dove avevamo creato dei mascherini, dovevano rimanere sempre in posizione. La presenza degli animali era molto forte. La mattina trovavamo sul terreno le loro tracce. A un certo punto ho sentito raccontare che una volpe aveva rubato dei guanti da elettricista. Forse anche questi aspetti hanno influito sulle mie scelte, come ad esempio quella di non mettere musica e di lasciare nell’installazione il sottofondo reale dei grilli. Non volevo che il lavoro fosse indifferente alla presenza degli animali, che in qualche imponderabile misura l’aveva nutrita.
L’installazione ha messo in campo, com’è tipico del tuo lavoro, un uso della luce non come semplice mezzo per illuminare, ma come materia che si mette in relazione alle cose instaurando con esse quello che definisci “un reciproco scambio”.
Siamo lontani dall’idea di “illuminare” gli oggetti, e vicini invece a una concezione della luce, appunto, come materia e forza autonoma, la cui forma si definisce nel rapporto con le cose. Nel normale atto di illuminare, la luce va verso l’oggetto. Qui invece anche l’oggetto, in un certo senso, va verso la luce. L’oggetto viene posto in relazione alla luce e suggerisce ad essa cosa fare. Cerco di spiegarmi. Per Out ho usato delle lavagne luminose sulle quali abbiamo collocato dei mascherini di vetro neri per filtrare la luce: una forma di proto-mapping che misi a punto nei miei laboratori, quando ancora non c’era il digitale, e che uso spesso. La forma viene conferita alla luce manualmente, con un procedimento artigianale, graduale, accurato ed attento, di incisione dei mascherini dipinti di nero. L’operazione si svolge sul posto, con l’apparecchio puntato verso l’oggetto. Le scelte, nel disegnare la luce, derivano dal lavoro di osservazione, momento dopo momento, del rapporto che in ogni punto si crea tra la luce e l’oggetto. La forma che la luce prende alla fine risente della forma dell’oggetto. Ma non è un ricalco: tra la forma dell’oggetto e quella della luce si creano degli scarti, che concorrono a creare tensione tra i due elementi, e tra materiale e immateriale. Il processo, durante il quale la luce trae ripetutamente indicazioni dall’oggetto e ripetutamente torna su di esso trasformandolo, è, appunto, uno scambio. Uno scambio di forme e anche uno scambio di proprietà: l’oggetto tende a diventare luce e la luce oggetto; il primo tende a smaterializzarsi e la seconda a divenire materia.
Come in Bagliori, il lavoro che hai realizzato alla “spiaggia delle capanne” nell’edizione di Dune dello scorso anno, c’erano in Out delle forme geometriche colorate, fortemente illuminate. Che ruolo svolgevano?

Avevano una funzione catalizzatrice, esattamente come in Bagliori. Il tondo blu era su un albero in primo piano, quello rosso su un albero distante un centinaio di metri. Un discorso di congiunzioni. Congiunzioni nello spazio. E anche nel tempo. Quei tondi erano pure la memoria dell’installazione dello scorso anno: nesso che diversi spettatori hanno recepito. Molti avevano visto Bagliori e se ne ricordavano bene. Quelle forme, di legno dipinto e illuminate, erano anche un raccordo tra le due cosmologie messe in gioco: quella della natura e quella della luce elettrica. Due mondi, nell’installazione, immanenti l’uno rispetto all’altro.
Bagliori e Out avevano aspetti comuni, ma erano anche opere molto diverse. Mi sembra ad esempio che, rispetto alla percezione dello spettatore, adottassero meccanismi differenti: in Bagliori, che era un percorso sulla spiaggia di alcune centinaia di metri, il pubblico
percorreva l’installazione scoprendone gradualmente i diversi risvolti, in Out si trovava a un certo punto davanti all’opera, percependola immediatamente nella sua totalità. Inoltre, Out era nel bosco e Bagliori sul mare, e questo ha influenzato la sonorizzazione spaziale creata per quest’ultima da Andreino Salvadori, dove si sentivano, tra l’altro, delle onde provenire dall’entroterra, cosa che creava uno spaesamento, in sintonia con il carattere visionario del lavoro. La sera dell’inaugurazione c’era poi un’azione sulla spiaggia della performer statunitense Melissa Lohman, che apportava nell’installazione la presenza poetica del corpo.
Certo, questi aspetti segnano delle differenze tra i due lavori; che però avevano in comune il fatto sostanziale di creare delle visioni a partire dall’esistente, di essere elaborati fantastici radicati nei luoghi.
Hai affermato che, nella tua prospettiva di ricerca, consideri un lavoro riuscito se insegna qualcosa anche a te che l’hai realizzato. Cosa ti ha insegnato Out?
Un aspetto che, realizzando Out, ho compreso meglio di altre volte è che nel lavoro con la luce, in situazioni come questa, la penombra e l’aria divengono, come ho accennato, tra le principali materie dell’operare. Con l’installazione, nel luogo non cambiavano solo la luce, lo spazio, gli oggetti. Cambiava l’aria, si potrebbe dire. La qualità atmosferica conferiva al lavoro una cifra specifica.
La mia sensazione era di immersione nell’opera e nel luogo, di un invito a stare.
Come dice Böhme, che ha fatto dell’atmosferologia una disciplina usata negli studi artistici, l’atmosfera, che è qualcosa che si può percepire solo in atto, sul momento, sul posto, non ti fa allontanare. L’atmosfera non intrattiene. Trattiene.
Come definiresti i rapporti tra arte e natura in un lavoro come Out?
Non si è trattato di portare l’arte nella natura, nel senso di collocare opere nel verde, ma di entrare in relazione con una specifica porzione di paesaggio e i suoi caratteri, attraverso un lavoro costruito appositamente per il posto, irriproducibile altrove. Mi piaceva moltissimo stare lì a lavorare. Come spesso mi capita col teatro dei luoghi, durante la preparazione di Out si è creato in me un moto “affettivo” e anche un senso di appartenenza. Penso che l’arte possa contribuire a far partecipare la natura alle relazioni contemporanee non solo in quanto mondo da proteggere, ma anche come motore e veicolo di nuove istanze e sensibilità.
Immagine di copertina: Out, installazione di Fabrizio Crisafulli, Parco dell’Uccellina, festival Dune 2023 (foto Francesco Rossi)
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