“Domani”, la performance di Romeo Castellucci alla Triennale di Milano
(foto credit: @Luca del Pia)
di Mario De Santis
La performance di Romeo Castellucci “Domani” in scena nei primi giorni di giugno alla Triennale di Milano è stata un’anticipazione della 23.ª Esposizione internazionale della Triennale di Milano intitolata Unknown Unknowns, sottotitolo “Un’introduzione ai misteri” curata da Ersilia Vaudo che si aprirà sempre nella sede di Milano, il 15 luglio, fino all’ 11 dicembre 2022 con incontri, mostre, eventi, laboratori, dibattiti. La parola chiave del “mistero” si può applicare anche a ciò che si è visto in “Domani”, spazzando via però la facilità del riferimento a saperi esoterici dati, sebbene inevitabilmente ci siano tratti di una grammatica del sacro. L’azione è semplice e per l’appunto dal tono arcana: una donna, nella grande aula del piano superiore, spinge un lungo ramo piangendo, ha i globi bianchi, senza pupille e procede come a tentoni. Lacrimando, senza freno, spinge il ramo in avanti come rabdomante aiutandosi con la mano che trema. La donna è alta, molto alta, statura da giocatrice di basket o cose simili (è la performer brasiliana Ana Lucia Barbosa che ha una storia biografica a sua volta molto particolare, di “corpo non conforme” che ha tramutato in forza la sua condizione di vittima di bullismo quando da ragazzina a scuola era chiamata “giraffa”).
All’estremità del ramo sospinto che struscia sul pavimento c’è una piccola scarpa da tennis a misura di bambino. Tutta la performance è ripetuta a loop, dentro un ambiente sonoro creato da Scott Gibbons. Percorrendo incerta lo spazio, mentre il pubblico le gira intorno, la donna inevitabilmente richiama in noi iconografie dei profeti che avanzano nel deserto. Punta questo bastone verso il muro e lasciando scivolare la punta, spinge come a volerlo abbattere, tra il pavimento e la parete. A questo punto la musica diventa un’esplosione di bassi e di frequenze bassissima, sfiorando gli infrasuoni, tanto da far tremare tutta la struttura e insieme il corpo. Romeo Castellucci scrive che la performance entra in dialogo con “ un secondo significante, che è il suono in un rapporto paritario e che trasforma appunto questo tipo di linguaggio”, suono intorno che prima è molto delicato, quasi sospeso. Piccole note sparse, ma anche rumori di uccelli. Azione del corpo e suono vanno a formare, scrive ancora Castellucci, un “emblema” che significa “faccio entrare”.
È una forma della retorica che in epoca romana indicava la disposizione a combinazioni di immagini efficaci che da noi è stato trasmesso poi come quasi figura simbolica, quasi figura che rappresenta qualcosa ( è emblematico, quindi rappresentativo di un insieme di cose). “Domani” invece se ne sta davanti a noi come un’azione che tra suono e vista, è muto. Un geroglifico che salta la logica del significante/significato. Sono emblemi che “ non hanno bisogno di essere detti, sono elementi che hanno bisogno solo di essere visti “ scrive ancora Romeo Castellucci. In questa loro presenza che non rimanda, che non trasporta ad altro (metaphorein) esattamente come la donna si muove ma non trasporta se non là dove ella è, la sua figura prima della persona. Sta come una cosa, sospesa nel suo essere puro passo avanti a noi, significato senza insegne. La scarpa piccola non simbolizza, non significa, anche se crea un campo di tensione, nell’irraggiungibilità dell’ orizzonte che si muove con la donna e l’avanzare della scarpa, e quel campo è una finzione sacra di assoluta menzogna che pure desidera sapere cosa è questa cosa. Le opere teatrali create da Castellucci con Societas Raffaello Sanzio e poi da solo, sembrano costantemente volersi liberare della verità, scrollare di dosso ogni linguaggio di rappresentazione, pure attingendo a tutto il lascito di imago, come un a compresenza di antico in ogni punto del contemporaneo che così scompare come tale e, nella intenzioni di Castellucci, si riformula in un discorso sganciato dai tempi storici, creando azioni emblematiche oscillanti tra un dire il presente e un dire senza tempo.
Questo ammasso di frequenze che sono le tracce di una storia di figure, detti, sogni, saperi, testi, che tracima in noi dai secoli come una geologia di cui non capiamo più l’ordine e che pure sventola come bandiere da lontano si percepisce in questa rappresentazione sacra che ha dimenticato tutte le divinità. Nostra è l’andatura nei giorni, come quella della donna della performance, con incertezza di rabdomanti ciechi. La sfida per noi spettatori è portarci su un territorio enigmatico e sconosciuto. Il linguaggio degli emblemi come del teatro di Castellucci non vuole essere criptico perché si tenda a risalire a una verità data in precedenza. Qui la performance si aggancia al tema dell’esposizione Unknown Unknowns, le cose sconosciute sono nella prospettiva di un domani davanti a cui ci disponiamo come gli atomi di Lucrezio in un vuoto di casuali clinamen. Non si si incontri il già-saputo, ma si lasci entrare la materia da conoscere. Non ci sono interpretazioni da svelare, nessun sapere ieratico, ma porsi di fronte al rigore freddo della materia inerte. La 23° Triennale percorrerà l’ignoto come serie di domande su quello che ancora – scrive la nota di Ersilia Vaudo – “non sappiamo di non sapere” in diversi ambiti: dall’evoluzione della città agli oceani, dalla genetica all’astrofisica. Castellucci apre a una possibilità di poter riconsiderare anche una pratica dell’enigma che aveva attraversato la poesia italiana nei decenni passati, da quella di Milo De Angelis in “Millimetri” a quella di Nanni Cagnone in “Armi senza insegne”, spesso malviste da posizioni di critica ideologica, specie in passato in cui erano più vivi gli antagonismi politici e storici.
Oggi che però il rischio di linguaggi di maniera e del già visto e lo è soprattutto in ciò che si pone come eredità della “ricerca” o della “avanguardia”, rischio presente in tutte le manifestazioni artistiche, forse proprio la disposizione all’ignoto, al mistero della materia e della natura che hanno gli scienziati (si pensi a quanto dice Rovelli della stessa teoria dei Quanti) consente di riconsiderare in parallelo anche quel procedere artistico del linguaggio poetico per “enigma” o forse “emblema” proprio come (qui sia consentita la metafora comparativa) gli scienziati si dispongono al calcolo per trovare ciò che della materia ancora non sanno. Sfuggendo contemporaneamente anche alle sirene dell’altra ideologia di forte pressing culturale, l’egemonia del “populismo pop” che vuole che l’arte di immediata riconoscibilità e di ripetizione del già saputo, del concetto semplice che risantifichi il “bene positivo”, la consolazione delle risposte chiare anziché accettare che la domanda sia muta ( per quella equivoca carica anti Snob che sta attraversando le società occidentali sul piano culturale e politico con le derive che abbiamo già visto). Non viene tollerata la radicale a-significanza, l’enigma dell’avvenire (domani) che non posso sapere-già, proprio come la scienza insegna: non tutto è spiegabile, la ricerca ha bisogno anche di una pratica di sintassi mentale “altra”. Percorso difficile se non viene tollerata la radicale rottura di tutti i significati, l’abbandono delle idee di confort. Sarebbe questa la vera eredità se ce n’è una del Novecento e delle avanguardie e della scoperta scientifica. Starei per dire anche quella di Leopardi, quando osserva il deserto del Vesuvio e le ginestre, cerca una possibilità di conoscenza che avvolga anche l’umano in una più complessa disposizione all’attesa di ciò che sarà delle creatura, anche la più catastrofica. Anche per noi la natura è tale, il vulcano è anche minaccioso, continua ad esserlo, ma – e qui la differenza – la scienza ci aiuta anche a capire come il nostro sia uno solo tra i tanti percorsi della vita sul pianeta.
L’ inconoscibile a priori, ma anche ciò che è a posteriori non si può esaurire. Nessuna scienza ci aiuta a dire come e quando i vulcani erutteranno. Ma continuiamo a conoscerli ad affrontare l’ignoto. Ecco, nel momento in cui questa stessa performance di Castellucci allude – allegorizza? Emblematizza? Significa? – qualcosa di tremendo, con questa risonanza, di echi di frequenze così basse ci avverte che c’è, che esiste nella nostra esistenza, nelle creature, ma anche nella materia stessa, intorno a noi, questo sconosciuto. L’arte diventa un esercizio i costruzione di una logica in apparenza cieca e che tuttavia – come dice Castellucci della significazione del suo emblema – va vista. Anche la scienza, superata la sua vulgata di illuminismo ottimista, si occupa di quello che non è affatto chiaro accettando che non tutto deve però essere ridotto a una risposta a priori, accettando una sfida dell’ignoto dell’ “ancora non so” utilizzando sia l’oggettività della matematica, sia l’immaginazione che cerca risultati non ancora noti. Così in arte si utilizzano sintagmi, segni, una grammatica, ma portandola altrove senza sapere dove. L’enigma allora per noi è pratica che non simboleggia, ma va vista e “lasciata entrare”, Così ci sfiora l’emblema, questa figura femminile molto alta, imponente, col suo eco di grande madre, la scarpa-bambina è irraggiungibile e al tempo stesso apre il suo cammino, fa da leva per abbattere l’universo chiuso intorno, la terra che trema, che domina o si ribella al tentativo, non lo sappiamo ancora. Risuonerà la vibrazione in noi, nel dopo. Il corpo ad accordarsi con la materia data a significare. Come certa poesia, che evidenzia col suo muro di a-significanza, che non sappiamo di non sapere, e con i nostri tentativi di lettura, rifuggendo interpretazioni date, come fa la donna con il bastone sul muro, come fa Castellucci, mettiamo al centro della nostra attenzione la materia di un linguaggio che decide la sua andatura verso quello lo sconosciuto che non sappiamo, verso domani.