Gang, Fool, ecologia e violenza. Alla Biennale vanno in scena le omissioni del linguaggio
OHRN – Un’allegra famigliola polacca – madre, padre, figlia – si riunisce per cena discorrendo del più e del meno. Siamo in un contesto progressista, lo intuiamo dal fatto che la figlia ha preparato un “sanguinaccio vegano” e che chiede con insistenza ai genitori di poter adottare un cucciolo di cane sfortunato, così sfortunato che non ha nemmeno una zampa. A un certo punto la madre chiede se hanno sentito parlare di un gruppo terrorista gay che entra nelle case, fa delle insolite domande sulla storia del paese e poi picchia, violenta, tortura e perfino uccide le sue vittime. Esista una simile gang di stupratori gay? In men che non si dica l’incubo si incarna, diventa realtà: suonano alla porta ed entrano i Fag Fighters, un duo in passamontagna pink che comincia a interrogare i malcapitati sui personaggi politici e culturali della Polonia, rivelando agli ignari esaminandi i gusti omosessuali di queste grandi personalità. E dando vita a un vortice di ultraviolenza che ricorda Arancia Meccanica, ma che ha il dichiarato intento di farsi beffe del presupposto orientamento gay friendly della famigliola, che tiene persino esposta sul balcone la bandiera arcobaleno.
Si apre con questa scena, immersa in un segno comico tra l’allucinato e il grottesco, lo spettacolo «Phobia» che il regista svedese Markus Öhrn ha realizzato in collaborazione con l’artista e attivista polacco Karol Radziszewski e presentato alla Biennale di Venezia 2024. I Fag Fighters sono infatti un’invenzione di Radziszewski, un’immaginaria gay-gang che compie azioni violente di guerriglia urbana, apparsa in diversi formati artistici. Nella versione teatrale la loro violenza si scaglia su persone apparentemente non fobiche, come la famigliola progressista del primo quadro; l’art director a capo di un brand di “vestiti inclusivi”, che sfrutta le pride flags per la sua comunicazione; e alla fine lo stesso Markus Öhrn, che si è messo in testa di realizzare uno spettacolo sull’omo-bi-transfobia in un contesto come quello polacco, attraversato da forti contrasti su questo tema e una politica (fino alle recenti elezioni del 2023) apertamente filoclericale e nazionalista.
Nell’arco dei tre quadri il copione è simile – un pedante e intimidatorio quiz di storia, l’esplosione dell’ultraviolenza – ma ogni volta l’acceleratore del gore viene spinto un po’ di più. Dallo stupro con uno dildo a motore dell’art director, costretto poi a mangiare la propria merda, fino al vero e proprio smembramento del regista Öhrn (colpevole di essere venuto fin dalla Svezia a fare la lezione ai movimenti lgbtq polacchi), lo spettacolo si trasforma in un grand guignol contemporaneo – anzi, in un gran gaygnol, potremmo dire – dove regna l’esagerazione e il rovesciamento nel comico va di pari passo al raccapriccio: tanto che mentre si tagliano dita, si sventrano corpi, e il sangue schizza copioso, il pubblico in sala sghignazza a ogni nuova esagerazione.
Anche se può sembrare uno spettacolo nettamente schierato, in particolare contro il pinkwashing, «Phobia» si costruisce attorno a un’iperbole visuale che ha come obiettivo soprattutto creare un dispositivo ossimorico di comicità e repulsione. A ben guardare anche l’ultraviolenza dei Fag Fighter può essere letta in modo ambivalente: va letta come reale auspicio punitivo, per quanto allegorico? Oppure è l’incarnazione delle paure degli omofobi – e anche di chi si dice gay friendly ma in fondo è ancora carico di pregiudizi eternonormativi? Gioca sull’estremismo woke, trasfigurandolo in violenza e creando un giustiziere immaginario come nei fumetti Marvel? O sotto sotto sta satirizzando anche su quello?
Pur non essendoci dubbi di carattere politico sul posizionamento dello spettacolo, il dispositivo di Öhrn sembra fatto apposta per estremizzare alcune posizioni, lasciando allo spettatore la reazione verso quella a cui risulta più ostile. Nonostante sia immersa in un gusto grottesco, alla fine «Phobia» è uno di quei classici dispositivi retorici che allestisce posizioni confliggenti – diciamo nell’arco del pensiero progressista – e lascia che il pubblico faccia il resto del lavoro. In alcuni casi ci riesce, perché una buona fetta di pubblico sembrava sinceramente divertita (incluso chi scrive), e in altri casi riesce meno. È chiaro, tuttavia, che se non si aderisce al gioco l’assenza di un discorso “forte” rende lo spettacolo un oggetto grottesco in sé, il che può lasciare comprensibilmente perplessi.
CROUCH – Diversa atmosfera per un altro dei lavori presentati alla Biennale Teatro 2024, «Truth’s a Dog Must to Kennel» del britannico Tim Crouch, che ci porta con un monologo sospeso tra dramma e commedia all’interno di una rappresentazione del Re Lear, una delle opere shakespeariane dal finale più scuro e senza speranza. E in effetti, pur oscillando tra battute e barzellette che sembrano dirottare la performance verso la stand-up comedy, il testo di Crouch ci porta dritto verso una visione sconsolata del teatro, un’arte antica e forse persino obsoleta dopo la pandemia da covid, che ha riscritto le relazioni umane alla luce della realtà digitale e della possibilità di dislocazione delle conversazioni – le riunioni online e le conversazioni messaggistica in cui siamo tutti un po’ più immersi. Il performer indossa un visore VR in cui sembra osservare una realtà aumentata che si sovrascrive allo stesso pubblico: ci siamo noi, seduti in platea, ma c’è anche lo spettatore che guarda il telefono, quello che si addormente, quello che reagisce allo spettacolo. E naturalmente c’è il Lear, raccontato dal fool, il Matto – il ruolo che Crouch ritaglia per sé stesso. Ma nonostante il gioco di rimandi di virtuale non c’è nulla, perché tanto la platea che la scena è raccontata dall’attore e immaginata dal pubblico: siamo di fronte al più antico dei riti, quello senza alcun fronzolo, il racconto teatrale di un performer al suo pubblico. Perché allora scomodare la virtualità? Perché in fondo – come afferma Crouch – ogni cosa è virtuale e allo stesso tempo reale. Ogni cosa si situa su più piani di realtà e questo può essere un bene quanto un male.
Siamo abituati da tempo ai giochi di metateatralità della drammaturgia di Tim Crouch, tradotta e rappresentata per anni in Italia dall’Accademia degli Artefatti di Fabrizio Arcuri. Ma se in questo lavoro l’autore britannico ritaglia per sé il ruolo del matto, di chi può suggerire la verità più scomoda mentre sembra dire tutt’altro (il verso del Lear che dà il titolo al lavoro è un’allusione al castigo inflitto dal re alla figlia Cordelia per avergli in sostanza detto la verità), una ragione c’è. Il suo entrare e uscire dal racconto, dalla cornice della rappresentazione, serve a suggerici la possibilità che a morire, oltre a Cordelia e alla verità, sia anche il teatro. Questo vecchio rito ridotto a una forma di necrofilia, un’arte che continuiamo a praticare perché non sappiamo come uscirne, perché ci sono professioni da proseguire, lunari da sbarcare, quando invece il senso profondo dell’incontrarsi, fisicamente, con i corpi, in uno spazio scenico è entrato profondamente in crisi. È come tenersi la mamma morta in freezer per continuare a riscuotere la pensione, dice Crouch, con un colpo di black humor tipicamente inglese. Ma l’amarezza della considerazione aleggia su un lavoro che, se da un lato neppure cerca di dare davvero una risposta a questa amara considerazione, dall’altro in fondo la sconfessa regalandoci una performance profondamente incentrata sul potere dell’attore, dell’immaginazione, della drammaturgia.
CONTI E ROTELLA – Una nota finale, per questa edizione che è l’ultima firmata da Ricci-Forte, è il rinnovarsi dei percorsi formativi e di attenzione dedicati alla nuova drammatugia, tra college, mise en espace e messe in scena. Dopo Stefano Fortin (al cui esito finale non ho avuto modo di assistere, ma che con scritture come «Cenere» e «George II» si è confermato come uno degli autori più interessanti di questi anni) sono andati in scena i testi delle due vincitrici Biennale College, Rosalinda Conti e Eliana Rotella, diretti rispettivamente da Martina Badiluzzi e Fabio Condemi. Due scritture convincenti e mature, molto diverse nello stile, accomunate tuttavia da una certa tendenza – molto diffusa nella scrittura per il teatro di questi anni – da un uso della didascalia teatrale come forma letteraria, evocativa, sostitutiva della scena. «Così erano le cose appena nata la luce» di Rosalinda Conti ci proietta, attraverso i discorsi e le relazioni di quattro persone, dentro una vertigine temporale che abbraccia l’evoluzione del mondo e la nostra possibile estinzione, tessendo il carattere minuto delle esistenze biologiche (ed emotive) degli individui con la dimensione geologica della vicenda che porta all’apparizione e alla sparizione di un’intera specie. Sullo sfondo una nuova consapevolezza della dimensione umana, spodestata dal piedistallo su cui il racconto biblico l’ha posizionata per secoli, e immersa in una dimensione temporale che solo apparentemente sembra annichilirla, ma che invece potrebbe persino esaltarla: non è un caso sé, in questo scorrere avanti e indietro nel tempo, nulla dei protagonisti davvero muore ma tutto in altra forma resta. Senza evocarlo direttamente, il tema ecologico si affaccia in questo tentativo di reset del discorso umano su sé stesso, che molto deve alle recenti teorie antropologiche, scientifiche e fisiche.
Se per Conti un certo didascalismo serve a convocare in scena l’oltreumano, per Rotella è l’occasione di scavare nelle reticenze del linguaggio all’interno di una relazione tra un uomo e una donna dove si innestano dinamiche di potere, squilibrio, evocazione della violenza. «Livido» è un testo breve, giocato sull’evocazione di un trauma di cui non si ha ricordo, come un livido, appunto, che compare senza che sappiamo ricostuire il momento dell’impatto del nostro corpo con qualcosa di cui non ricordiamo nemmeno l’esistenza. Giocando sul mito di Eco e Narciso, evocati direttamente in scena grazie ai nomi dei due personaggi, il testo esplora la dimensione omessa, dalla memoria quanto dal linguaggio, supportata in questa dimensione di scavo proprio dalla voce narrante, che si interpola nel dialogo a due rivelando pensieri profondi, reazioni opposte a quelle messe in pratica, fratture emotive che pian piano emergono.
Con la conclusione del mandato di Ricci-Forte ci auguriamo davvero che il progetto di formazione dedicato alla drammaturgia possa continuare, perché come hanno ricordato Davide Carnevali – che ha portato avanti i laboratori – e Andrea Porcheddu – che ha curato gli incontri con autrici e autori – in questi anni Venezia è diventata il polo di formazione, ricerca e messa in scena legato alla scrittura per il teatro che manca alla scena italiana. Un polo che dovrebbe prosperare, stabilizzarsi, magari diffondersi persino altrove, per consentire al nostro paese di proseguire su un campo fecondo come quello della drammaturgia contemporanea, che in Europa è un genere solido con cui il teatro odierno ripensa sé stesso e il suo discorso – sempre politico – sul mondo. In questi mesi di cambiamenti delle direzioni delle istituzioni teatrali sarebbe auspicabile e necessario che qualcuno raccogliesse e facesse prosperare questo importante passo realizzato alla Biennale.
Graziano Graziani (Roma, 1978) è scrittore e critico teatrale. Collabora con Radio 3 Rai (Fahrenheit, Tre Soldi) e Rai 5 (Memo). Caporedattore del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha collaborato con Paese Sera, Frigidaire, Il Nuovo Male, Carta e ha scritto per diverse altre testate (Opera Mundi, Lo Straniero, Diario). Ha pubblicato vari saggi di teatro e curato volumi per Editoria&Spettacolo e Titivillus. Ha pubblicato l’opera narrativa Esperia (Gaffi, 2008); una prosa teatralizzata sugli ultimi giorni di vita di Van Gogh dal titolo Il ritratto del dottor Gachet (La Camera Verde, 2009); I sonetti der Corvaccio (La Camera Verde, 2011), una Spoon River in 108 sonetti romaneschi; i reportage narrativi sulla micronazioni Stati d’eccezione. Cosa sono le micronazioni? (Edizioni dell’Asino, Roma, 2012). Cura un blog intitolato anch’esso Stati d’Eccezione.