L’angelo del mio angelo
di Emanuele Trevi
Che lo si intenda come un particolare genere letterario, dotato di sue leggi nell’apparente improvvisazione, oppure come una pratica di vita affine alla meditazione, o addirittura come un sintomo nevrotico e una superstizione, un diario è sempre un gesto di sfida, una ribellione all’Insensato. Prima ancora che sugli eventuali lettori, agisce su chi lo scrive non tanto come la propria immagine riflessa in uno specchio, ma come se, dalla condanna a non essere che se stessi, scaturisse all’improvviso un’ulteriore possibilità. Sono io, dice il diarista ogni volta che segna una nuova data sul suo quaderno, sono io il mio angelo custode. E dal momento che quest’angelo non è nient’altro che me, io sono, per così dire, l’angelo del mio angelo.
Ogni diario, a suo modo, racconta la storia di questa solitudine, e il prodigioso sdoppiamento che ne attenua, senza mai farla sparire del tutto, l’angoscia. Flannery O’ Connor diceva della malattia che è un posto dove nessuno ti può accompagnare; ma questo vale anche per il sentimento di esistere, e per l’irripetibile e indefinibile modo che ha il tempo di scavare le sue grotte e i suoi fiumi sotterranei in ognuno di noi. In una pagina dei suoi diari, pubblicati col titolo Le ore, i giorni (Edizioni Medusa, pp.293, euro 21,50) Marisa Volpi esprime perfettamente, con una domanda che non cerca nemmeno una risposta, il senso di un esercizio di attenzione che potrebbe apparire futile, non fosse vero che il destino di ognuno, invece che in qualche retorica astrazione, si nasconde proprio lì, in ogni singola inezia che è possibile trascrivere. È una mattina di aprile, non importa di che anno, perché il fatto è di quelli che ogni anno puntuali si ripetono, e ci riguardano solo perché, dal momento che ne prendiamo atto, possiamo pure fingere, senza nessun danno, che vogliano dirci qualcosa, anche se si ostinano a parlarci in una lingua incomprensibile. Di fronte alla casa della scrittrice, che si affaccia su un giardino, sono fioriti i ciliegi. È un bello spettacolo, sullo sfondo del cielo azzurro, ma «fa pena», perché basterà un colpo di vento, come sempre accade, a portarsi via fino all’ultimo petalo. «E allora», si domanda Marisa Volpi, ferma a un semaforo, «mi amo, se sono attratta dai ciliegi ?». E già: troppo spesso e troppo frettolosamente condannato da un luogo comune moralistico, l’amore di sé, in realtà, oltre che il fondamento indispensabile dell’amore del prossimo, è il sentimento più misterioso, incerto, reversibile dell’esistenza. Un peso che non tutte le spalle, ad ogni modo, possono reggere. Storica dell’arte ed autrice di memorie e racconti scanditi da trasalimenti e illuminazioni imprevedibili, Marisa Volpi ha sempre fatto della vista il suo filo d’Arianna, il suo criterio supremo di conoscenza. Sarà da notare, a questo proposito, che ci sono sempre stati dei talenti eminentemente figurativi anche nel campo della parola scritta, o della musica. Non si tratta necessariamente di una spiccata abilità descrittiva: questi talenti, semmai, sono accomunati dal fatto che, per loro, lo sguardo non è un serbatoio di immagini colte nella loro perfezione, ma un lavoro, un processo psichico sempre incerto, sempre alla ricerca di una migliore approssimazione. Non è un caso che i protagonisti di molti racconti di Marisa Volpi siano dei grandi pittori, indagati con tatto sottile e notevole capacità di empatia.
Tutto sommato, l’immagine scelta per la copertina di questi diari, un particolare della Femme devant un aquarium di Matisse, fornisce al libro una specie di introduzione fulminea e perfettamente adeguata. La testa appoggiata sulle braccia conserte, la modella di Matisse ha i lineamenti ben definiti, quasi scultorei, come se fossero modellati dall’intensità stessa della sua attenzione. Di fronte a lei, nella loro sfera liquida, stanno tre pesciolini, ridotti dal movimento e dalla luce a poco più che macchie di colore cangianti e inafferrabili. Sta solo a lei, alla donna che li guarda, decidere di volta in volta della loro forma – mentre loro non fanno che esistere, e di questa fatica non sapranno mai niente. Tutte le pagine di diario di Marisa Volpi, distese su un lungo arco di tempo (dal 1978 al 2007), non fanno che riproporci, variandola all’infinito, la sottile allegoria della conoscenza racchiusa nell’opera di Matisse. Di ogni volto, luogo, gesto, libro, quadro, situazione umana ci restituiscono un’immagine tanto più autentica quanto più provvisoria, e capace di alludere a tutto ciò che di diverso e addirittura di contrario se ne potrebbe dire, se fosse qualcun altro a scriverne. Cogliamo anche meglio questo vitale regime di incertezza e mobilità quando il diario affronta generi e modi di scrittura presenti in libri di diversa natura. Quello del ritratto, per esempio, è un talento che Marisa Volpi ha coltivato a lungo e con grande impegno, come si può verificare in un bel libro del 2004 intitolato Uomini. Nei diari, fittissimi di presenze e relazioni umane, questo talento ci si mostra al suo livello più embrionale, sottomesso all’immediatezza delle impressioni e al variare delle circostanze. Ma come spesso accade in pittura, il rapido schizzo a carboncino rivela, confrontato al quadro rifinito, maggiore imprecisione e insieme maggiore verità. Ricorrendo ancora all’illuminante immagine di Matisse, osserviamo in questo modo i pesciolini prediletti da Marisa Volpi guizzare vivi e vegeti nel loro elemento. E’ una mobilità che nemmeno la morte può completamente raggelare, se il ricordo, la nostalgia, la consapevolezza straziante della perdita sono pur sempre le condizioni attraverso le quali chi non c’è più può continuare a rivelare nuove facce del suo poliedro. Di questi straordinari, inesauribili romanzi dell’intimità il diario di Marisa Volpi pullula al punto che, per riferirne, si impone una scelta. Di certo, per la quantità e la qualità delle osservazioni, salta agli occhi la presenza quasi ingombrante, in un libro pur così affollato di volti e destini, di quell’uomo indimenticabile e in tutti i sensi difficile, così capace di alternare nei suoi legami perfidia e generosità, che è stato Cesare Garboli. E quello che prende a poco a poco forma nel diario è un efficacissimo ritratto di un uomo che fu, nella sua scrittura e nella sua conversazione, a sua volta un sublime ritrattista. Eccolo apparire la prima volta, ospite assieme a Marisa Volpi nella casa fiorentina di Anna Banti, un giorno di settembre del 1982. «Ho rivisto, dopo forse più di vent’anni, Cesare Garboli. E’ tormentato, pieno di umori. Spesso cattivi. È deluso, o recita la delusione. Quando lo ascoltavo al telefono ero attratta dall’immagine che si era fatta di sé: uno che passeggia su e giù d’inverno a Camaiore, come un personaggio di Saltykov-Scedrin». E’ un inizio perfetto, degno di quei memorialisti francesi del Seicento, capaci di sposare la superficialità e la chiaroveggenza, che Garboli amava tanto. Chi ha l’orecchio un po’ allenato alla musica dei diari capisce subito che la storia non finirà qui. Nemmeno con l’ultimo incontro, in ospedale (siamo nel febbraio del 2004) quando al grande amico rimangono ormai pochi giorni di vita. «Ricordati», le dice Garboli, che aveva il vizio delle sentenze sibilline, «che due persone hanno tenuto la mano protettiva su di te: tua madre e tuo marito». Strano congedo: ma non è detto che le cose più importanti che ascoltiamo da chi ci è più caro siano quelle che capiamo al volo. Più che capirle, conviene annotarle, come fossero regali che il tempo troverà il modo di scartare.