The Last Newspaper

Siamo in Cina, all’inizio del Ventunesimo Secolo. Una telecamera riprende una donna che accarezza un gattino, passa le dita facendo pelo e contropelo, poi lo adagia sul pavimento e infine lo schiaccia brutalmente con il tacco della scarpa, uccidendolo. Il video finisce su internet e circola all’impazzata, suscitando orrore e riprovazione, fino a quando una serie di utenti non identificano da un dettaglio del paesaggio la zona di provenienza del filmato, il villaggio, la strada in cui abita la donna, in un crescendo di informazioni via via sempre più precise. I vicini della torturatrice di animali cominciano a evitarla, i suoi datori di lavoro a vessarla, i suoi conoscenti a isolarla.

Pare sia nato così il fenomeno del ‘motore di ricerca in carne umana’, ambiguo esempio di giornalismo investigativo e ‘punitivo’ che in una nazione soffocata dal controllo e dalla censura fornisce un modello paradossale di libertà d’azione (piuttosto tollerata dal grande fratello statale) e di strategia editoriale esplosa nelle tre dimensioni. È solo una delle storie che hanno ispirato Joseph Grima e Kazys Varnlis, chiamati dai curatori Richard Flood e Benjamin Goodsill a contribuire a una parte decisiva di The Last Newspaper, una mostra inaugurata dieci giorni fa al New Museum di New York, che indaga le relazioni fra arte, architettura e la stampa quotidiana. Grima e Varnlis hanno pensato che il modo migliore di onorare il tema fosse pubblicare una testata cartacea e aggiornarla settimanalmente, per tutta la durata della mostra, con sezioni specifiche dedicate alla cultura, agli affari, etc. È molto intrigante che artisti, urbanisti e liberi battitori attivi al di fuori dei circuiti dei media provino ad immaginare oltre la fatidica data in cui la carta esalerà il suo ultimo sospiro (e se poi non accadesse? Qualcuno sta prendendo seriamente in esame questa ipotesi?).
Ma è proprio lo scacco al giornale come lo conosciamo oggi, vessillo di caratteri a stampa che i cittadini aprono in metropolitana, al bar, per strada, diventando così parte dello spazio fisico in cui viviamo, ad offrire le suggestioni più feconde: si vedono opere in cui i quotidiani vengono usati come stracci, si sentono richiami ai ‘tazebao’, si raccolgono visioni, concetti e incubi. È ormai un luogo comune che i ‘giornali’ siano in ‘crisi’. Ma le crisi sono anche uno scherzo ottico che consente di vedere davanti e dietro allo stesso tempo, e illuminare ciò sembrava già assai chiaro, e mettere in stato di evidenza le zone di cui non avevamo mai avuto cura. Pensate alle edicole, ai ragazzini-sandwich, agli strilloni, alle automobili che dopo mezzanotte vendono le prime calde copie cartacee. Pensate al modo in cui lo spazio fisico, urbano e domestico ingaggia la sua danza continua con i giornali, ma anche al doppio destino di finire come carta dei carciofi al mercato oppure nella capsula sicura di un’emeroteca. Aldilà dei risultati un po’ compilativi della mostra, l’idea che ne esce è sintetica e potente: i giornali sono una specie di tutto. Sono una specie del tutto. Sono una specie del tutto a rischio – e non parlo solo del fatidico passaggio fra carta e bit, né del calo degli investimenti pubblicitari, o altro. Parlo della destinazione d’uso profonda dei giornali, che è la totalità dei viventi in un certo contesto linguistico/geografico e in un dato tempo. Il bello di scrivere su un giornale generalista – il bello di leggere un giornale generalista – è che quel breve sacco di informazioni tipografate e sistemate sotto i tuoi occhi non sono mai solo per i tuoi occhi. Sono le stesse che leggerà il capitano d’industria se tu sei una persona che non ha mai guardato in faccia un capitano d’industria. Sono le stesse che leggerà l’ultimo neoassunta nella più lontana branca del tuo impero, se hai la ventura di essere tu, il capitano d’industria. Non è ‘solo’ una – pur cruciale – questione di benessere democratico. È un problema di energia. I giornali rimarranno sempre le case discografiche della realtà – il mezzo insuperato di masticazione selettiva dei fiotti elettrici che attraversano il corpo sociale. Li canalizzano, raccontandoli come in uno specchio, nel quieto trionfo che unisce la riflessione e il giudizio. La dicotomia fra ‘rete’ e giornali per alcuni potrà vedere perdenti i secondi e vincente la prima, ma quando si tratta di convertire l’energia in materia concettuale – storie, idee, cose da dire e da pensare – i giornali si rivelano tuttora una necessità epistemologica, ancor prima che civile e culturale: al loro meglio, i giornali sono i poeti collettivi e anonimi che cantano il rispetto dovuto a ciò che esiste. Fanno sì che una cosa non muti senza ragione in un’altra. Fanno sì, tanto per citare un esempio clamoroso, che Beppe Grillo non si trasformi nel giro di pochi anni dalle nostalgiche nebbie di un talento comico anni ottanta al generatore di entropia politica che conosciamo ora.

Ecco perché la mostra del New Museum è stimolante: perché fa intuire che non ci sarà mai un ‘ultimo quotidiano’ – e che la rete, o gli spazi urbani, o finanche le più futuribili piattaforme dell’editoria di domani, dovranno essere soprattutto mezzi, e non messaggi.

Commenti
3 Commenti a “The Last Newspaper”
  1. giorgio fontana ha detto:

    molto interessante! grazie mille.

  2. Valentina G. Levy ha detto:

    « I giornali rimarranno sempre le case discografiche della realtà » intéressante associazione, soprattutto perché non fa altro che evidenziare doppiamente, il sentimento di crisi che pervade entrambi!
    «L’industria discografica è morta». Profetizzò Alain Levy nel 2002, che non cito certo in qualità di mio ex-suocero, ma in quanto ex-PDG del gruppo EMI- Virgin.
    Senza internet le grandi majors non avrebbero sopravvissuto alla catastrofe d’inizio XXI° secolo, e oggi hanno bisogno delle piccole realtà discografiche per scoprire nuovi talenti e poter arrivare direttamente al pubblico. Le grandi case discografiche non sono lo specchio del panorama musicale che è fatto di centinaia di artisti veri, semisconosciuti, che si esibiscono su piccoli palchi in localini a volte minuscoli e superaffollati. Sono delle vetrine in cui si esaltano le mode del momento, scelte in funzione della loro convenienza a breve, medio e lungo termine, a seconda dei tempi di chiusura dei bilanci. In maniera simile i giornali sembrano limitarsi a mettere insieme le voci molteplici che arrivano anche dal web, selezionandole, manipolandole e poi esponendole in bella mostra, spinti da opportunismo mediatico, economico e politico.
    A mio modestissimo parere, nell’attuale crisi, ad essere rimesse in gioco non sono solo le possibilità comunicative dei giornali rispetto al web, che devono far i conti con la trasmissione delle notizie in tempo reale e l’enorme raggio d’azione di cui la rete dispone, ma soprattutto la “capacità di rappresentazione del mondo” che i giornali troppo spesso non riescono a garantire.
    Del resto gli artisti in mostra in “The last news paper” si propongono proprio di mettere in discussione la possibilità da parte dei quotidiani di definire la Weltanschauung contemporanea, suggerendo l’ipotesi che siano i singoli individui oggi a creare e a mettere insieme le notizie, nonché a indirizzare i flussi dell’informazione, permettendo il proliferare di molteplici interpretazioni della realtà attuale.

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