Trent’anni fa moriva Raul Gardini, un uomo già consegnato alla storia

di Matteo Bianchi

«I morti sono i migliori colpevoli. Non possono difendersi», sentenziò lo scrittore Raymond Chandler. E con Gardini pare sia stato proprio così. Lo scorso 23 luglio ricorreva il trentennale della morte di Raul Gardini, visionario tycoon ravennate il cui nome è legato a imponenti scalate finanziarie (Eridania, Beghin Sey, Montedison, Enimont), a operazioni borsistiche avventurose (con speculazioni allo scoperto), a imprese sportive memorabili, come la Fastnet Race e la Coppa America con Paul Cayard e l’indimenticato Moro di Venezia) e purtroppo alle ignobili vicende di “Tangentopoli”, che rischiarono di coinvolgerlo a causa di una presunta maxitangente che avrebbe pagato direttamente ai partiti – lui che «con i politici non ci avrebbe nemmeno mangiato un piatto di spaghetti», almeno a detta di Antonio Di Pietro. Soltanto la morte, probabilmente, lo sottrasse a quel destino.

Non c’è dubbio che, nell’ambito dell’inchiesta “Mani Pulite”, il processo Enimont sia stato uno dei filoni principali, quello più attenzionato dai media, anche perché trasmesso in diretta televisiva. Un processo incentrato su una presunta maxitangente da centocinquanta miliardi di lire che sarebbe stata pagata ai partiti da alcuni dirigenti del gruppo Ferruzzi, o da Gardini stesso, che però all’epoca non era più ai vertici del gruppo in questione. Una vicenda giudiziaria conclusasi con qualche assoluzione e parecchie condanne, benché mitigate da una legge – il decreto Biondi – emanata frettolosamente. Restano in molti a ritenere che le cose sarebbero andate diversamente se Gardini avesse potuto testimoniare; tuttavia l’imprenditore ravennate è uscito di scena troppo presto. Per mano sua o di altri? È quello che ha tentato di stabilire Gianluca Barbera scrivendo L’ultima notte di Raul Gardini, pubblicato lo scorso anno per Chiarelettere e poi divenuto un podcast per il Narratore audiolibri realizzato da Piano P di Carlo Annese. Un romanzo che condensa e reinterpreta una bibliografia sterminata, tra cui spicca il lapidario Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini (Minimum Fax, 2018) di Matteo Cavezzali.

VENERDÌ 23 LUGLIO 1993

Quella fatidica mattina Raul Gardini, soprannominato il “Corsaro”, il “Contadino”, a capo di un impero finanziario e industriale secondo, in Italia, solo a quello degli Agnelli e con ramificazioni dall’America alla Russia, era atteso in procura per essere interrogato – e forse perfino arrestato – dal pm Di Pietro. Ma non varcò mai i cancelli del Palazzo di Giustizia. Pochi minuti prima delle 9:00 il suo corpo fu rinvenuto privo di vita, a Palazzo Belgioioso, nel cuore della Milano degli affari. Si era suicidato o qualcuno gli aveva sparato? Rammenta Di Pietro: «Per me la sua morte è stata un colpo molto duro, quasi un coitus interruptus. Il suo interrogatorio avrebbe rappresentato una svolta per l’inchiesta e per la storia d’Italia. Avrebbe fatto i nomi dei beneficiari della tangente Enimont da centocinquanta miliardi. Se l’avessi fatto arrestare subito, quella stessa notte, sarebbe ancora qui con noi. È stato questo il mio errore. Quella doveva essere una giornata decisiva per Mani Pulite, purtroppo non è mai cominciata».

Non tutti, però, credono all’ipotesi del suicidio, avallata dalla magistratura. I sostenitori del suicidio affermano che lo avrebbe fatto poiché sarebbe stato impossibile per lui immaginarsi in una cella, con tutto ciò che ne conseguiva: il suicidio di Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni e suo rivale in affari, nel carcere di San Vittore tre giorni prima lo aveva sconvolto al punto da fargli dire: «È morto da eroe!». Di sicuro, la morte di Gardini ha fatto comodo a tanti, evitando la galera a diverse persone. Basta questo a ipotizzare un omicidio? Secondo Barbera, assolutamente: ci sono svariati dettagli che non tornano in quella scomparsa, specie nell’iter in cui ci si è arrivati. «Raul non si sarebbe mai tolto la vita, non era il tipo», dichiarò la moglie Idina, a caldo.

UN IMPRENDITORE SENZA LIMITI

Raul Gardini non piaceva ai politici e i politici non piacevano a lui. Li considerava delle sanguisughe, dei «vitelli che non si vogliono svezzare». Durante il braccio di ferro tra Montedison (Gardini) ed Eni (Cagliari) per il controllo di Enimont, ebbe la sfacciataggine di affermare: «La chimica sono io». Craxi se la legò al dito. E non solo lui: non è da tralasciare che all’epoca Eni rappresentava la cassaforte dei partiti, da cui attingere a piacere e dove piazzare i loro sodali. L’idea che Gardini potesse metterci le mani sopra era intollerabile.

Carismatico, sfrontato, generoso, senza limiti, ammirato e temuto, prima genio visionario poi “anello debole” dell’imprenditoria italiana, Gardini proveniva da Ravenna, da una famiglia di possidenti terrieri. Aveva studiato agraria. Dopo aver sposato Idina, figlia di Serafino Ferruzzi, aveva assunto il comando del gruppo alla morte del suocero, schiantatosi in uno strano incidente aereo, nel 1979. Era un solitario, un individualista convinto. Appassionato di vela, appena poteva prendeva la via del mare. Non sedeva al tavolo, se non era lui a condurre il gioco. A fotografarlo alla perfezione è una sua stessa frase: «Per me l’opinione degli altri non conta nulla». Nel cosiddetto “salotto buono” dell’imprenditoria italiana era considerato un “parvenu”. E seguendo le tracce di Barbera, era disposto a tutto per realizzare i suoi sogni. Correva il 1988 quando Montedison, guidata da Gardini, e Eni, presieduta prima da Franco Reviglio e poi da Gabriele Cagliari, diedero vita a Enimont, un colosso mondiale dell’energia, un arduo sodalizio tra pubblico e privato. Ma tra i due interlocutori subito s’innescò una guerra per il controllo della nuova società. L’establishment politico, per cui Eni era una vera e propria “vacca da mungere”, si mise di traverso mentre Gardini annaspava: travolto dai debiti, contratti anche per fondare Enimont, fu messo da parte dalla famiglia Ferruzzi, smaniosa di siglare una tregua con la politica. Montedison fu costretta a sbarazzarsi della sua quota; di più, doveva far fronte a tasse per mille miliardi di lire scaturite dalla plusvalenza generata dall’operazione. In questo frangente nacque la famigerata maxitangente: per ottenere uno sconto fiscale “libera tutti”, oltre che un prezzo di vendita vantaggioso – furono ben 2805 miliardi di lire i denari pagati dallo Stato, sui quali poi indagò la Corte dei Conti. Allorché la magistratura drizzò le antenne e Gardini finì inevitabilmente nel mirino del pool di Mani Pulite; perciò fu convocato in procura, potendo essere arrestato.

L’INTERROGATIVO PERPETUO

Accade l’irreparabile. E Berbera stringe sapientemente il focus, coinvolgendo il lettore nel tracollo, e al contempo trasmettendo un’ingiustificabile bisogno di verità: erano le 9:01 di venerdì e un’ambulanza riceveva la chiamata per precipitarsi in piazza Belgioioso, al numero 2. Nello storico palazzo Raul Gardini fu trovato riverso sul letto, la testa avvolta in un asciugamano zuppo di sangue. Respirava ancora, sebbene affannosamente. Una mano stringeva l’arma, l’altra un giornale sulla cui prima pagina saltava all’occhio: «Tangenti, Garofano accusa Gardini!». Forse leggere quella notizia per lui fu il colpo di grazia. Garofano lavorava per lui. E ora gli scaricava addosso tutte le responsabilità. Quando Gardini giungeva in ospedale non c’era più niente da fare. Partì un’inchiesta che emise rapidamente un verdetto: si trattava di un suicidio. Ma tra le pagine Barbera non si dà pace: in primis l’arma del delitto, la pistola, ha cambiato più volte di posto. Poi i colpi in testa: sono stati uno o due? La versione ufficiale asserisce uno, sebbene non ci sia una deposizione limpida. E come mai sulle mani di Gardini, incalza lo scrittore, non furono riscontrare tracce di polvere da sparo? Sono solo alcuni degli interrogativi ancora senza risposta. Senza contare che quella mattina, poco prima di morire, l’imprenditore aveva chiesto al domestico di stirargli i calzoni per uscire: dopo l’incontro con i pm in procura, sempre che non fosse stato arrestato, era sua intenzione presenziare al funerale di Cagliari. È plausibile che abbia ricevuto una telefonata che lo sconvolse al punto da decidersi per quel passo? Dai tabulati non risultò. E che dire del bigliettino di addio ai familiari ritrovato sul comodino? La prima perizia della grafia stabilì che era stato scritto un anno prima. Ma una seconda perizia, facendo risalire la datazione ai minuti precedenti la sua morte, avrebbe fornito la prova decisiva ai giudici.

DUE PERIZIE, UNA VITTIMA

Quale delle due perizie è da ritenersi più attendibile? Tra coloro che propendono per l’omicidio, si sono fatte strada varie teorie. Si è ipotizzata perfino la longa manus della mafia, a causa dei rapporti controversi di una delle società del gruppo, la Calcestruzzi Spa, con gli ambienti della malavita organizzata: anni dopo le parole di un pentito, nell’ambito delle indagini sull’uccisione di Falcone e Borsellino, hanno indotto la procura di Caltanissetta a “riaprire” il caso. In realtà, il romanzo di Gianluca Barbera impiega i meccanismi del genere giallo e della saga familiare per affrontare uno snodo cruciale del nostro Paese. Se la tragedia di Gardini fu sotto i riflettori finendo in pasto all’opinione pubblica, in ombra rimase la caduta rovinosa della dinastia Ferruzzi. Seguendo il boato omesso di quell’arma da fuoco, e il bivio conseguente che produsse, Barbera allarga la prospettiva nonché la rete di possibili influenze subite dalla vittima, tentando nel finale una ricostruzione verosimile dei fatti, poiché quella morte cambiò il corso del processo Enimont e, in un certo senso, anche quello della storia economica di un’intera comunità, rivelandosi inevitabilmente accidentale. D’altronde, «la verità viene sempre da lontano e riguarda tutti».

 

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