Non sembrerà il complimento che vuole essere, ma Miranda July ha realizzato il suo miglior film nel momento in cui ha deciso di farsi da parte. L’artista americana, del resto, ha sempre amato cimentarsi in campi diversi: ha all’attivo due dischi usciti per l’etichetta indipendente Kill Rock Stars; ha scritto due libri, entrambi pubblicati in Italia da Feltrinelli, oltre a numerosi racconti apparsi su riviste come The Paris Review e The New Yorker; ha anche creato opere presentate al MOMA di San Francisco e alla Biennale di Venezia. Più che naturale per lei, dunque, cambiare direzione pure in ambito cinematografico: dopo essersi messa al centro di Me and You and Everyone We Know (2005) e The Future (2011), con Kajillionaire, premiato al Festival del cinema di Roma come miglior film nella sezione Alice nella città, ha realizzato il suo primo lungometraggio che non la vede come protagonista. Restare dietro la macchina da presa le ha dato finalmente l’opportunità di avvalersi di un cast di alto livello; ha potuto cioè affidare i suoi personaggi a quel tipo di attori con i quali, per sua stessa ammissione, avrebbe avuto difficoltà a condividere la scena, forte comunque di un’impronta autoriale ormai ben definita e conosciuta tanto dal pubblico quanto dagli addetti ai lavori.
Al posto della stessa regista, al centro di Kajillionaire c’è la famiglia Dyne, composta dalla ventiseienne Old Dolio, interpretata da Evan Rachel Wood, e dai suoi genitori Robert e Theresa, rispettivamente Richard Jenkins e Debra Winger. L’espressione “famiglia disfunzionale”, per quanto abusata, li descrive alla perfezione: la madre e il padre di Old Dolio sembrano non provare, o quantomeno non manifestare, alcun affetto nei confronti della figlia, trattata alla stregua di una semplice partner in crime. I tre sono infatti dei piccoli truffatori, e attraverso le loro imprese Miranda July fa due operazioni molto interessanti. Innanzitutto ribalta la premessa stessa del film, che si presenta come un heist movie ma poi mette in scena truffe così terribili da spostare altrove l’attenzione; non c’è dubbio alcuno sul fatto che i Dyne vivrebbero meglio facendo qualsiasi altra cosa: con i colpi messi a segno quando va bene ottengono pochi dollari, somme che non rassicurano né allontanano i creditori, quando va male racimolano qualche oggetto da barattare magari per qualcosa di più utile. Appare chiaro allora come la loro sia principalmente una forma mentis, e Kajillionaire si rivela così una riflessione su un certo stile di vita, sperimentato della stessa regista nei suoi anni da giovane punk e qui portato fino alle estreme conseguenze; veniamo insomma messi di fronte a una scelta di libertà che comporta un prezzo da pagare, come nel capolavoro di Agnès Varda Senza tetto né legge.
L’altra operazione si lega a quello che è forse l’unico vero tema ricorrente in tutta la filmografia di Miranda July: le situazioni quotidiane in cui ciascuno di noi si comporta come un artista. Nel compiere i loro colpi i Dyne in effetti agiscono spesso come se fossero impegnati in una performance; e non a caso sia in italiano che in inglese esistono espressioni come “artista della truffa” o “con artist”. La regista americana enfatizza tale aspetto, ma ha sempre la sensibilità necessaria a evitare uno sguardo troppo estetizzante su queste situazioni, andando a legarle invece a un vissuto con cui lo spettatore può facilmente relazionarsi: a chi non è mai capitato, in un modo o nell’altro, di recitare una parte, di impersonare un ruolo diverso dal proprio, di esibirsi per qualcuno, di indossare una maschera o un costume? Di fare insomma ciò che fa un artista per il suo pubblico? La grande intuizione qui è che se per i Dyne la normalità è relazionarsi l’uno con l’altro come farebbero i componenti di una banda, la recita sarà far finta di essere i membri di una famiglia comune. Lo faranno a un certo punto nella casa di un malato terminale, in una scena di grandissimo cinema che da sola vale la visione del film. Nonostante il sentimento sia diverso – in Kajillionaire è un momento davvero toccante – a qualcuno, vedendo quella scena, verrà forse in mente il Truman Burbank che urla dal finestrino della sua auto “somebody help me, I’m being spontaneous”, dopo aver iniziato a sospettare di trovarsi intrappolato in un reality show.
Anche Old Dolio, senza neppure averne piena coscienza, è intrappolata dai suoi genitori; ma si tratta di una situazione destinata a cambiare, perché un elemento esterno arriverà a turbare gli equilibri esistenti: i Dyne a un certo punto incontreranno per caso Melanie, interpretata da Gina Rodriguez, una ragazza latinoamericana che dopo averli conosciuti vorrà unirsi a loro per partecipare ad altri colpi. Melanie può essere considerata, senza troppe forzature, un personaggio meta-filmico: i suoi film preferiti sono quelli di Ocean’s Eleven, dichiara con entusiasmo, ma ben presto, seguendo lo stesso percorso già fatto dallo spettatore, capisce che non sta per vivere un’esperienza da heist movie; sta piuttosto per iniziare a fare i conti con la tossicità dei rapporti all’interno della famiglia Dyne. A partire da una situazione molto particolare dovrà quindi decidere se tirarsi fuori, e se aiutare Old Dolio a fare altrettanto. Per quest’ultima in ogni caso non sarà facile intraprendere un percorso di emancipazione e di conoscenza di sé. Evan Rachel Wood interpreta il personaggio con notevole bravura e restituisce con efficacia alcuni tratti peculiari della ragazza, dalla diffidenza verso il prossimo al profondo disagio che le causa ogni contatto fisico, fino a una fluidità sessuale evidenziata dal tono di voce estremamente basso – il vero tono di voce dell’attrice, che di solito ne usa uno più alto frutto del lavoro con un vocal coach.
Un’altra scena straordinaria segnerà una svolta nella storia di Old Dolio: senza anticipare troppo, si svolge completamente al buio e va senz’altro letta come l’allegoria di un parto, dunque come la metafora abbastanza scontata di una possibile rinascita, scritta e diretta però con una maestria tale da consegnare anche questi minuti alla collezione del miglior cinema visto negli ultimi anni. Il film, più tardi, finirà con un bacio: non tanto una scena romantica, quanto un momento di autodeterminazione e di liberazione. Kajillionaire può allora essere considerato, alla luce della sua conclusione, come il racconto di quanto possa essere difficile arrivare a quel bacio: di tutti gli ostacoli che ognuno di noi incontra oppure si fabbrica da solo, mettendosi i bastoni tra le ruote, attaccandosi a falsi convincimenti, trovando una giustificazione per tutto e per tutti, lavorando contro di sé e contro il proprio desiderio. Ogni spettatore, al termine della visione, a quel bacio potrà sostituire un momento della propria vita.
Gilles Nicoli è nato a Roma sette giorni prima che Julio Cortázar morisse a Parigi. Scrive soprattutto di libri, cinema e videogiochi.
