La sostanza di cui sono fatti i sogni. Su Megalopolis di Francis Ford Coppola

di Marco Arienti

Un etere impalpabile e indistruttibile, chiamato Megalon, capace di saldarsi ai corpi e di avvolgerli mettendoli in connessione tra loro e con l’ambiente circostante; un medium che svela il reale invisibile (del presente e del futuro) e rende trasparente il superfluo visibile, ma anche un tessuto vivo e prodigioso, che risparmia ai viandanti la fatica della deambulazione su cammini mobili e luminosi, e può persino rigenerare le membra danneggiate.

Per costruire la sua città utopica, che realizzi le aspirazioni umane a una vita in armonia, l’architetto visionario Cesar Catilina, protagonista di Megalopolis di Francis Ford Coppola, sa che non ci si può accontentare di materiali tradizionali. Non che si debbano inventare nuovi princìpi, le idee ispiratrici sono già state indicate dai grandi della storia del pensiero (nel film si citano Marco Aurelio, Rousseau, Emerson e molti altri); la rivoluzione necessaria sta piuttosto nelle forme, impensate e (presunte) impensabili, attraverso cui incarnare queste idee.

Allo stesso modo, Coppola (Catilina c’est moi, ovviamente) ha ben chiaro che per ribaltare l’immaginario di oggi e fare un passo verso quello di domani non servono sottigliezze di trama o contorsioni di intreccio, ma basta anche solo raccontare una semplice favola (A fable è il sottotitolo rivelatore), un apologo banale, improbabile e pieno di buchi narrativi. Quello che conta è cercare di modificare la consistenza e l’impasto degli elementi primi dell’esperienza cinematografica, anche a rischio di ottenere un risultato spaesante o indigesto.

Così, Megalopolis è fatto di immagini che sono materia robusta, quasi scultorea, figure plastiche e sature in ogni loro dimensione visiva, che paiono modellate in blocchi compatti di digitale più che tratteggiate dalla luce sullo schermo. E i contenuti si adeguano alla forma: al centro della scene troneggiano spesso architetture monumentali e vertiginose, riprese da angolature dal basso o in dettaglio, e le parole della voce narrante si manifestano come sentenze scolpite su superfici di pietra; se gli esseri umani vengono mostrati spesso solo come ombre o riflessi sulle facciate e sulle vetrate dei palazzi, sono le statue a disperarsi, accasciarsi e crollare in pezzi sulle strade della città in decadenza.

D’altronde per Coppola la civiltà, nelle sue forme più illuminate come in quelle più degenerate, è il luogo in cui gli uomini delegano agli emblemi il potere di sentire, soffrire, agire ed elevarsi al posto loro: soltanto dentro l’arena, durante l’esibizione della cantante bionda e virginale, le élites depravate consumano la propria latente attrazione per una purezza di spirito a loro preclusa, arrivando a svuotarsi il portafoglio in uno slancio effimero di beneficenza e di preoccupazione per il declino della cosa pubblica.

In un panorama di film accondiscendenti, fintamente trasgressivi ma in realtà calcolati al millimetro, Megalopolis può sembrare qualcosa a metà tra un delirio AI-generated e un sabba perturbante di immagini grevi, un frullato epico-trash che mescola il cinema dei primi decenni con l’estetica di Shutterstock, il sermone filosofeggiante con la soap opera, le rivisitazioni postmoderne dell’iconografia della Roma imperiale con il cinecomix; il tutto amalgamato, come si diceva, da un collante di digitale densissimo, che non fa nulla per mimetizzarsi (ancor più che in Povere creature! di Lanthimos, dove si sposava con la ripresa in pellicola).

La verità però è che l’ultimo film di Coppola è tutto il contrario di quello che molti ci hanno visto, cioè l’espressione dell’ego debordante di un regista-produttore d’altri tempi, obnubilato a tal punto dalla propria stessa visionarietà da perdere ogni contatto con le buone norme del gusto e del dialogo didascalico-ma-non-troppo con il pubblico. Invece, Megalopolis è un oggetto non identificato nelle cui pieghe l’autore si fa piccolo fino a sparire; una rinuncia a qualsiasi pretesa di governare le immagini, per lasciarle invece libere di dilagare oltre i limiti del cinema come arte e di cercare nuove possibilità di interagire reciprocamente e con chi guarda.

E da parte loro queste immagini, quasi non aspettando altro che un simile invito a eccedere, prendono a susseguirsi freneticamente e senza nessi evidenti nel montaggio, ad accavallarsi nelle sovrimpressioni, a litigarsi il campo visivo dello schermo negli split screen.

L’idea di fondo è la stessa che enrico ghezzi scorgeva dietro alla palingenesi quotidiana del suo blob televisivo. Nel mettere assieme in tempi ridottissimi quel tentativo di compendio del flusso interminabile della “tv del giorno prima”, non c’era (non ci poteva essere) da parte dei selezionatori nessuna intenzione comunicativa meditata, nessuna progettualità, ma solo il riflesso automatico dell’occhio di fronte al discorso delle immagini, che si richiamano e si scelgono in virtù di echi inaspettati ma al tempo stesso cogenti; chi montava il programma si trovava più a intercettare e restituire quasi meccanicamente delle corrispondenze già in essere che a inventare qualcosa di nuovo sulla base del proprio estro o arbitrio creativo.

Proprio la sovrabbondanza e la varietà degli stimoli da un lato permettono alle immagini di sfuggire alle classificazioni predefinite e alla dittatura dei format autoriali, mentre dall’altro generano in loro una sorta di presenza e di agency autonome, una potenza che nasce dall’aggregazione dei frammenti visivi e al tempo stesso la supera, come il gigantesco Leviatano hobbesiano la cui massa si coagula a partire dall’insieme dei minuscoli sudditi. In un intervento recente sul Manifesto a proposito della critica cinematografica, Carlo S. Hintermann ha suggestivamente scritto: “Come un virus che sfugge da una provetta entra provocatoriamente nel mondo infettandolo, l’immagine viaggia in ogni device, oltrepassa gli schermi si moltiplica, si smarrisce […] Il cinema non è più immagine ma finalmente è un corpo, fatto di infiniti misteri, è la crestomazia dei misteri, non ci appartiene più, esiste nel mondo, è esso stesso il mondo”.

Nella costruzione sbilenca e magniloquente di Megalopolis, il film stesso è l’utopia radicale di una forma di vita dove il linguaggio non è un semplice strumento di mimesi o di valutazione del già dato, ma una continua sorgente di orizzonti visuali alternativi. Si potrebbe parlare – abbondando un po’ in metafore nietzschiane – della volontà di potenza di un cinema al di là del bene e del male, che festeggia euforico la morte non solo dell’autore, ma pure del critico e dello spettatore. Come ci ammonisce ancora Hintermann, “meglio non aspettarsi più un ‘ordine’ perché il cinema è libero e dissociato, non ci vuole più come spettatori, non gli interessano più i giudizi. […] Il furor recensendi si dissolve di fronte a generatori di immagini, dream machine, matrici, da cui il cinema si ri-genera all’infinito”.

Non è forse casuale allora che in una delle prime sequenze, che vede tutti i principali personaggi del film riuniti a ponderare sul futuro della città, Catilina declami il monologo “Essere o non essere” dell’Amleto di Shakespeare, in cui il principe di Danimarca sembra accarezzare l’idea del sonno definitivo della morte, per poi ritrarsi di fronte alla possibilità di sogni sconosciuti.

Lontani da ogni timore, sia Catilina sia Coppola scelgono invece di abbracciare questi sogni, affidandosi completamente al potere della loro sostanza: il Megalon nel caso del primo, e un cinema incompromissorio e fuori misura nel caso del secondo. Ma nella città agonizzante sognare fa paura, e allora la favola, con le sue esagerazioni e il suo lieto fine, è necessaria per aiutarci a familiarizzare con lo stra-ordinario, con quello che ancora non è stato visto, che potrebbe destrutturarci ma forse anche rigenerarci.

 

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