Maschere di gomma ed epifanie negative. L’horror americano e la tragedia greca

di Ludovico Cantisani

Un uomo che si acceca da solo, inveendo contro il destino e la luce. Un gruppo di donne che, senza alcuna coscienza delle loro azioni, fanno a pezzi un giovane. Una madre uccide i figli per vendicarsi del marito, che ha deciso di sposarsi con un’altra donna. Un dio uccide ciecamente un giovane principe innocente, dopo che il padre, ricevuta un’accusa falsa e infamante sul conto del ragazzo, lo ha maledetto. Se non fosse per l’elemento religioso, queste trame potrebbero appartenere a un film horror o a un qualche trafiletto di cronaca nera. Sono invece le loglines di alcune delle più importanti tragedie dell’Antica Grecia: l’Edipo re, le Baccanti. La Medea. L’Ippolito di Euripide.

L’accostamento tra horror e tragedia greca non è arbitrario. Nei vasi comunicanti in cui si è venuto configurando l’atteggiamento degli autori occidentali verso la narrazione, tragedia classica e cinema dell’orrore – ma anche, ça va sans dire, tragedia shakesperiana – condividono molti echi e una parziale, inconscia derivazione.

Un primo atteggiamento lega assieme il tragico all’horror, sembra quasi un ultimo scampolo di tragico nell’horror: quel magnifico senso di ineluttabilità che, prima ancora dei film, viene restituito dalle colonne sonore di cult come Suspiria o Halloween, quel senso di grandiosa rovina che fatalmente si abbatterà sui personaggi, quantomeno su quanti di loro sono destinati a perire prima che il film finisca.

L’ineluttabile era una delle grandi categorie del pensiero dei greci. Tutta la tragedia greca può essere riletta come una grande riflessione sui rapporti che guidano destino e responsabilità. Dire che via via che da Eschilo ci si muove verso Euripide l’accento passa dal destino imperscrutabile alla responsabilità individuale è fondamentalmente esatto – ma, come ben dimostra Le Baccanti di Euripide, bene o male l’ultima tragedia del canone classico, il tragico è al di là di ogni responsabilizzazione una grandiosa contemplazione della passività umana di fronte agli eventi.

L’ineluttabile nell’horror prende la forma di Michael Myers che, benché più lento, raggiunge sempre ed accoltella le sue vittime. Oppure trova posto negli sguardi al cardiopalma che lancia dietro di sé all’inizio di Suspiria Pat, attraversando a tempo record la Foresta Nera in una notte di pioggia, ma ritrovandosi comunque ad essere impalata in modo creativo una volta ritornata a casa. Comunque sia, una delle figure più ricorrenti del cinema dell’orrore è proprio il personaggio paralizzato di fronte all’apparire del mostro: una paralisi, un’inazione che spesso porta alla morte del personaggio, a meno che non si tratti del protagonista salvifico di turno.

Non si può ridurre però i personaggi “umani” del cinema dell’orrore a una mera passività di fronte al mostro o al destino. Sia perché generalmente alla fine del film uno di loro riesce sempre ad avere la meglio utilizzando più l’ingegno che la forza bruta – e qui il ricordo di Ulisse nella caverna di Polifemo viene spontaneo – ma anche e soprattutto perché, proprio come nella tragedia, è di solito il superamento di un limite ciò che scatena il giro di eventi che porta all’esplodere dell’orrore. È un pattern fin troppo diffuso nel cinema di genere: a un gruppo di persone, generalmente adolescenti o giovani uomini, viene detto di non fare una determinata cosa, di “non aprire quella porta”, di non andare in quello chalet in montagna, di non ripetere quella vecchia formula magica. Il consiglio viene disatteso, e spesso anche denigrato, con il risultato prevedibile di evocare qualche vecchio demone desideroso di tornare in pista.

Se molti horror sono fin troppo prevedibili nel riproporre sempre questa soluzione narrativa di base, rappresentano nondimeno un indizio interessantissimo circa le strutture di fondo del genere, perché si riallacciano paradossalmente a una delle riflessioni più interessanti mai tracciate a proposito delle caratteristiche di fondo del tanto discusso Tragico. Si tratta in realtà di un’osservazione incidentale che il grande grecista Vincenzo Di Benedetto, scomparso nel 2013 lasciava cadere nell’edizione da lui curata delle Baccanti: secondo lui, nella tragedia greca, il vero male viene dal conoscere. Non è l’ignoranza a provocare ed entro una certa misura giustificare il male, come voleva Socrate: tanto il Penteo delle Baccanti, quando Edipo una volta diventato re, quanto in una dinamica del tutto diversa Teseo nell’Ippolito, soffrono e patiscono davvero solo dopo aver scoperto la verità.

Questo paradigma, per cui alla conoscenza segue il male se non altro nella forma della coscienza della bruttura del mondo, viene fedelmente rispettato in quasi tutti gli horror, sia pure in maniera generalmente inconsapevole. La violazione di un tabù quasi sempre prende le mosse da una sorta di “superbia cognitiva”, per cui, per fare un esempio celebre, Jack Torrance accettando l’incarico di custode notturno dell’Overlook Hotel all’inizio di Shining non dà alcuna importanza al fatto che tutti i precedenti candidati avessero rinunciato al posto dopo aver saputo le inenarrabili violenze occorse nell’albergo alcuni anni prima. Non di rado la violazione del tabù e il “superamento del limite” avvengono proprio perché i protagonisti di turno vogliono vedere “cosa succede davvero” ad aprire quella porta, a ripetere quella filastrocca proibita. Del resto è un luogo comune, che il meta-horror Scream ha sardonicamente esplicitato, quello secondo cui nei film dell’orrore con protagonisti giovani o adolescenti, i primi ad essere uccisi sono quelli che hanno appena consumato un rapporto sessuale, se non durante l’atto stesso come in Alien: Covenant. E questo risulta particolarmente interessante per constatare come nell’horror sopravvivano anche tracce di schemi di pensiero religioso di ascendenza cristiana, per inciso.

Tanto la tragedia quanto l’horror quindi hanno dei curiosi risvolti epistemologici: ovviamente non vogliono fare una condanna della conoscenza tout court, ma sembrano piuttosto ansiosi a porvi dei limiti, e dei limiti che siano netti. Ancora più interessante è il nesso che si crea tra questa problematizzazione dell’ideale tradizionale del conoscere, e la questione della visione.

“Sole! Sole! Che io ti veda adesso per l’ultima volta”, urlava Edipo poco prima di accecarsi, dopo aver saputo di aver inconsapevolmente ucciso suo padre e di aver altrettanto inconsapevolmente sposato sua madre. In maniera opposta ma simmetrica, le ultime volte che vedevamo Penteo prima che venisse fatto a pezzi dalle Baccanti il re di Tebe era completamente preso dalla smania voyeuristica di vedere le donne nude fra i boschi, noncurante del fatto che tra di loro ci fosse anche sua madre Agave. Negativa ma al tempo stesso vittoriosa era anche la visione su cui si chiude la Medea, la protagonista sul carro alato del Sole che mostra i cadaveri dei figli da lei stessa uccisi al marito fedifrago Giasone; in generale, l’idea di un’improvvisa visione o intuizione o comunque sia presa-di-coscienza, che implica al tempo stesso il ritorno di qualcosa che era stato dimenticato o represso, è uno dei pattern drammaturgici alla base delle tragedie antiche, variamente ripreso nel cinema contemporaneo.

Una delle inquadrature più celebri del cinema horror, una di quelle per certi versi più riassuntive, sta in Shining di Stanley Kubrick: il piccolo Danny Torrance atterrito dalla paura che sgrana gli occhi vedendo le due gemelline in fondo al corridoio, mentre attraversa col suo triciclo i labirintici corridoi dell’Overlook Hotel. Quell’inquadratura esemplifica al massimo grado una situazione standard dell’horror, che il genere fondamentalmente condivide con la tragedia: il momento della visione spaventosa, che il pubblico condivide con il personaggio principale, il tremendo apparire di qualcosa che è mostruoso e che, proprio perché mostruoso, spesso sfugge ai normali criteri di comprensione umana; qualcosa che, come nei racconti di Lovecraft, è incredibilmente vasto, oppure incredibilmente crudele, o incredibilmente indifferente nei confronti dell’umano. Gli occhi che si sgranano sono una delle immagini più ricorrenti del cinema dell’orrore: per realizzare al meglio la costruzione della tensione, vedendo il personaggio che vede il pubblico pre-vede quella visione orrorifica che, di lì a poche inquadrature, il montaggio condividerà anche con lui. Che siano gemelline assatanate, mostri inumani o assassini mascherati poco importa: quel che conta è che, almeno nel cinema dell’orrore, il terrore è innanzitutto visivo, contestualmente a linguaggio del medium.

Questa problematizzazione della conoscenza e del vedere e questa parziale equiparazione tra conoscenza e vedere in lingua greca, tipica della tragedia greca e fedelmente riecheggiata dal cinema dell’orrore, ha anche una parziale base etimologica: lo stesso verbo, θεωρέω, in senso usuale vuol dire “vedere”, ma nel lessico filosofico vuol dire anche contemplare, quindi “riflettere”, “pensare”, da cui il nostro “teoria”. Nelle stesse identiche regioni di pensiero andava a confluire Blow-Up di Michelangelo Antonioni, horror epistemologico e metafisico nella sostanza che si camuffa come (meta)film d’autore nella forma: anche lì, il progressivo ingrandimento della realtà, ottenuto grazie a semplici mezzi tecnici nello studio di un fotografo, porta all’emersione di un’immagine violenta e sinistra, che a occhio nudo non si rivelava e sulla quale a ben vedere non potremo mai essere sicuri che non si tratti di un’immaginazione del protagonista.

Concentrarsi sul portato negativo e potenzialmente catastrofico della visione illumina però anche su una questione rispetto alla quale l’horror americano e la tragedia greca non potrebbero essere più antitetici: la messinscena del sangue, della violenza. È notorio: nelle scene dei teatri greci, non si vedeva mai neanche una goccia di sangue. La violenza in scena era un vero e proprio tabù visivo, e anche questo è un elemento interessante: l’accecamento di Edipo veniva preannunciato dal protagonista e poi confermato da uno scioccato messaggero, e lo stesso accadeva quando Medea uccideva i suoi figli.

Superfluo dire che nell’horror questo tabù visivo è completamente violato, ribaltato, esasperato fino ad arrivare a scene come la “pioggia” di sangue dei vari Carrie, o la colata di sangue dall’ascensore dello Shining di Kubrick. Sottogeneri dell’horror come il gore e soprattutto lo splatter dipendono proprio da questo, da una quantità incredibile di sangue e di violenza mostrata anche in primo piano – e sullo scandalo che inquadrature di questo tipo di volta in volta suscitavano un regista giocherellone coi generi come Quentin Tarantino ha costruito la sua intera carriera. L’appello a non rappresentare la violenza nondimeno è rimasto, in alcuni singoli autori di altri filoni del cinema internazionale: senza avere l’assolutismo che quest’interdetto aveva presso i greci, hanno adoperato in maniera originale la possibilità di rappresentare la violenza del tutto o in parte fuori campo innanzitutto Michael Haneke, ma anche il Michelangelo Antonioni di Professione: Reporter e i più giovani fratelli D’Innocenzo.

Se c’è un genere del cinema che viene regolarmente accusato di essere “diseducativo” e di turbare i bambini, questo è l’horror, che spesso viene vietato ai minori di 14 o di 18 anni: sorprende allora riscontrare, al di sotto di una forma spesso al limite dell’exploitation, delle innegabili tracce di contenuti “conservatori”. Un primo punto già lo abbiamo incrociato, nell’usuale tabù che l’horror codifica a proposito della sessualità, soprattutto della sessualità: un topos che, già sbeffeggiato nel primo Scream, ha dato vita alla scena più goliardica di Scary Movie. Altre tracce di conservatorismo, molto legate all’attualità del dibattito pubblico americano, le si ritrovano soprattutto nel sottogenere della home invasion. Gli home invasion sono quei film in cui una normale famiglia si ritrova con degli sconosciuti psicopatici che improvvisamente entrano in casa, in barba a ogni proprietà privata: uno schema narrativo che si ritrova nei due The Strangers così come nel film Netflix Hush e, in maniera decostruita e problematizzata proprio a proposito di questioni razziali e di odio di classe, in Noi, il secondo film di Jordan Peele.

A voler andare ancora più a fondo, si può tornare su quel nesso tra horror, tragedia e passività di cui parlavamo all’inizio, e riconoscere come la costruzione narrativa dei film dell’orrore spesso richieda e anzi incoraggi un atteggiamento fatalista, sia fra i personaggi sia nel pubblico rispetto ai personaggi. Un filosofo dai concetti esasperati ma precisi come Adorno, nella raccolta di saggi Contro l’antisemitismo, evidenziava il nesso implicito che c’è tra il fatalismo e un certo atteggiamento mentale che può disporre potenzialmente ma direttamente al fascismo: e faceva l’esempio concreto di alcuni oratori della Destra americana più reazionaria che nei loro comizi dell’immediato dopoguerra insistevano sull’imminenza di una nuova catastrofe, sapendo che i loro ascoltatori “fremevano all’idea di un destino ineludibile, senza neanche distinguere chiaramente tra la distruzione dei loro nemici e la propria”. Anche questo è indicativo, nelle mattanze in cui spesso si risolvono gli horror: e pure non è senza ragione che anche e soprattutto in prodotti fuori dal verosimile come Frontiers di Xavier Gens si riaffacci spesso il personaggio archetipico del nazista nascosto in qualche improbabile landa disabitata in cui i malcapitati di turno si avventurano.

Abbiamo visto come tanto la tragedia greca quanto l’horror classico americano si nutrano spesso di vere e proprie epifanie negative, poste come climax o come punto di svolta nel film. Abbiamo ricordato anche come il più autoriale Blow-Up di Antonioni mettesse in scena una ri-emersione, non molto lontana in termini strutturali da quel “ritorno del rimosso” di freudiana memoria. All’interno degli itinerari dell’arte novecentesca si è venuta a creare una cruciale convergenza tra tragico e horror nella forma di un’epifania esplicita del negativo nel percorso pittorico di Francis Bacon: le cui tele erano, notoriamente, improntate tutte a una visione del mondo estrema e negatrice, in cui il principium individuationis decade per lasciare il posto a forme mostruose, esasperate e contorte di figure umane urlanti se non del tutto prive di volto.

Parlando a proposito di una delle sue opere più note, Studio dal ritratto di Innocenzo X, Bacon aveva detto di essersi interessato alla figura pontificia perché “essere il papa lo mette in una posizione unica e così, come in certe grandi tragedie, è come se fosse issato su un baldacchino”. Partendo da questa frase, l’intellettuale francese Philippe Sollers nel suo Le passioni di Francis Bacon ha costruito un’architettura di pensiero che continuamente accostava Bacon ai grandi nomi del tragico, e in particolare ad Eschilo. Ma era lo stesso Sollers a riportare una citazione di Bacon che diceva: “io ritorno sempre a Shakespeare. Prendete l’ultima grande tirata di Macbeth, quei versi così celebri sulla morte e la fugacità della vita, il tempo che passa e che non ha più senso”. In quelle stesse parole si possono trovare, impliciti, due dei maggiori leit motiv dell’opera pittorica di Bacon.

In un linguaggio profondamente diverso tanto da quello del cinema quanto da quello del teatro, Francis Bacon compie la stessa operazione di fondo alla base di ogni tragedia: dipinge epifanie negative, in cui il senso dell’ineluttabile è pari solo al senso dell’orrore che le smuove; di più, i suoi personaggi sono spesso atteggiati in pose urlanti, o col collo reclinato a non guardare verso di noi, creando un’ulteriore e simmetrica assonanza tra soggetto rappresentato e osservatore rispetto al grande tema dell’epifania negativa. In un certo senso, nelle opere di questo ultimo tragico della tradizione occidentale, lo spettatore guarda un altro uomo guardare e reagire alle conseguenze negative di un’improvvisa e scioccante visione del mondo: l’impossibile presa di coscienza di quell’”orrore assoluto, folle” di cui parlava Sollers, e che si ritrova tanto nelle tragedie più fosche di Shakespeare tanto nelle opere meglio riuscite del canone greco. La particolarità serrata dell’opera di Bacon sta però nell’attenzione al dato organico e fisico, in quella ricorrente espressione su tela di quel “corpo senza organi” perché privo di organismo, di quel corpo indifferenziato e isterico che anche Deleuze riconosceva nelle tele del grande pittore inglese.

Se l’horror sa ancorarsi così angosciantemente ai nostri corpi come dimostra la pittura di Francis Bacon, così come lo dimostra anche tutta la tradizione cinematografica del body horror avviata da David Cronenberg peraltro, era giocoforza che l’horror venisse ricodificato verso inediti orizzonti socio-politici, quando è subentrata l’era del #MeToo e del femminismo. In quello che è stato un instant cult del femminismo contemporaneo americano, recentemente portato in Italia dalle Edizioni Tlon con il titolo de Il mostruoso femminile, l’opinionista del Guardian Jude Doyle, dopo aver fatto luce sugli elementi di conservatorismo politico presenti soprattutto nel franchise di The Conjuring, procedeva col sottoporre a un’interessante lettura femminista il filone degli slasher.

Lo slasher è verosimilmente uno dei filoni più basici e fortunati del cinema horror. La sua etimologia, dall’inglese to slash, “accoltellare”, non lascia spazio a interpretazioni: si chiamano slasher tutti quei film in cui un maniaco omicida, spesso fuggito da un ospedale psichiatrico o da qualche altro luogo di reclusione, dà la caccia senza apparente motivo a un gruppo di persone. Se Psyco, il cult assoluto di Hitchcock, è stato in qualche modo un progenitore del filone, è con Halloween del 1978, scritto e diretto da John Carpenter, che questa tradizione ha effettivamente inizio. Notiamo per inciso come tanto Michael Mayers, il protagonista di Halloween, quanto il Leather Face di Non aprite quella porta o per differenti ragioni narrative l’Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti, hanno il volto coperto da una maschera: l’ennesima, profonda corrispondenza tra tragedia e cinema, particolarmente forte nel caso di Halloween Kills, ultimo capitolo del franchise presentato a Venezia e arrivato nelle sale italiane il 21 ottobre,

Venendo alla lettura che degli slasher dava il saggio di Doyle, particolare attenzione veniva data alla figura ormai classica della dead blonde, la ragazza bella ma del tutto sacrificabile ai fini della storia che generalmente viene uccisa e profanata nei modi più fantasiosi dall’assassino di turno – come le babysitter di Halloween o, in maniera più intelligente, il personaggio di Janet Leigh all’inizio di Psyco. “Lo slasher vede il sesso così: gli uomini penetrano e le donne sono penetrate, gli uomini sono penetratori e le donne prede. Gli uomini possono desiderare e inseguire il sesso, le donne devono fuggire oppure essere vittime del desiderio maschile. La mutua eccitazione non viene contemplata”, scriveva Doyle sostanzialmente criticando l’intero filone. “Che il modo in cui queste ragazze vengono fatte morire sia definito misogino è scontato, oltre che corretto – ma non è affatto esaustivo”: uno dei dati più interessanti a proposito degli slasher, rileva Il mostruoso femminile, sta nel fatto che sempre di più le donne diventano il pubblico primario di questo genere di film. Questo ha portato a rielaborazioni in chiave femminista e riappropriativa di alcuni degli stereotipi dello slasher, come in A Girl Walks Home Alone at Night di Ana Lily Amirpour o, in maniera più pionieristica e sfumata, in Fuoco cammina con me di David Lynch, il prequel di Twin Peaks.

“Il genere slasher propone un’idea di universo in cui le donne e i loro corpi sono continuamente in pericolo, in cui si aggirano predatori senza scrupoli e il desiderio femminile, che sperimenta o si fida, viene punito con la violazione, la mutilazione e la morte; un universo in cui solo pochissime donne, eccezionalmente fortunate, paranoiche e piene di risorse riescono a sopravvivere senza essere attaccate, ma vivono emotivamente traumatizzate dalla continua violenza che sono costrette a vedere”, concludeva Doyle. “Esiste un altro tipo di media altrettanto popolare e con la stessa visione del mondo: il notiziario della sera”. Per quanto quest’ultimo colpo di coda della saggista sia caustica, la sua è un’analisi fondamentalmente corretta: e il cinema dell’orrore, al pari di ogni altra narrazione da un certo punto di vista, è anche una forma fluida in cui trasporre, ed entro una certa misura superare, le nostre paure del quotidiano.

Nell’infinità delle interpretazioni che vi si possono dare, dalla lettura conservatrice alla reinterpretazione femminista passando per le intermittenze tra fuori campo e splatter, l’horror resta una forma ritualizzata di esorcismo. Si potrebbe riflettere su quanto questo “esorcismo” sia catartico, e tornare un’ultima volta alla tragedia, ma forse l’aspetto più interessante di questa convergenza lo si ritrova in un dato puramente rituale. Fino a pochi anni fa, gli horror venivano visti prioritariamente nelle sale cinematografiche: e se le piattaforme streaming hanno permesso un notevole aumento della produzione a livello internazionale, codificando nuovi immaginari e anche nuovi mostri, al tempo stesso giocoforza hanno pesantemente ridotto quella dimensione comunitaria che era propria della sala. Non c’è bisogno di scomodare Han e la sua Scomparsa dei riti, ma il progressivo e temuto svuotamento delle sale intacca il senso profondo del cinema come esperienza collettiva. “Case/Chiusi in case/Eppure aumenta/L’insicurezza/E si ruba/L’identità”: questi versi della canzone S.U.N.S.H.I.N.E. del rapper romano Rancore descrivono bene quello stato di cose che si crea una volta che lo spazio pubblico si è assottigliato, in una progressiva regressione verso il privato, e le stesse narrazioni, pur adoperando gli stessi linguaggi di prima, non riescono più a trovare quella grandeur che un tempo avevano – al tempo della tragedia e dei miti.

Michael Myers, l’assassino mascherato di Halloween, è un mito moderno. Se non un mito quantomeno un feticcio lo sono anche il Norman Bates di Psyco, così come la Cosa dell’omonimo film di Carpenter, o gli zombie di Romero. L’Overlook Hotel di Shining è entrato a pieno diritto in un ideale topografia dell’immaginario novecentesco, così come certe lande immaginarie raccontate da Lovecraft a inizio secolo. Registi come John Carpenter, George Romero e lo stesso David Cronenberg potrebbero essere a buon diritto descritti come dei veri e propri demiurghi dell’immaginario contemporaneo; l’unico altro genere che dagli anni sessanta ad oggi ha goduto della stessa popolarità dell’horror è stato quello fantascientifico, decostruibile a sua volta come una fantasia di fuga da presente. Ma certo è interessante, per tornare un’ultima volta al confronto con l’antichità greca – certo è interessante che, in un’epoca in cui sono venuti meno gli dèi e tutti i tabù paiono allentarsi, in un’epoca in cui lo spazio pubblico si assottiglia e il privato si sente minacciato da improbabili invasori estranei o stranieri, l’immaginario cinematografico si concentri così tanto su teste mozzate, uomini accoltellati, donne stuprate. Non è solo la violenza del contemporaneo, o la paura del dato fisico, organico – del dolore – in un’epoca che si fa sempre più virtuale, a spiegare le dinamiche dell’horror moderno. Assassini che indossano maschere di gomma si riallacciano, consapevolmente o no, ad un passato di gran lunga più arcaico, e di gran lunga più violento, e di gran lunga più inconscio, e quindi di gran lunga più tragico, del presente iperprotetto in cui ci troviamo a vivere – ma che proviamo, chissà perché, sempre più spesso ad esorcizzare.

 

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