Monkey Man per un cinema d’azione progressista
di Franco Cimei
Il cinema d’azione è tra gli strumenti propagandistici più efficienti e oggi più che mai gli equilibri della geopolitica mondiale si giocano anche sul campo dell’intrattenimento. Monkey Man, l’esordio alla regia di Dev Patel, entra nello scenario odierno con una precisa visione politica, è un film che mette in scena una vendetta attuata su due piani: la vendetta del protagonista contro la sopraffazione subita da un potere corrotto e quella extradiegetica nei confronti del cinema d’azione indiano contemporaneo, sempre più ingabbiato in un frame reazionario e nazionalista. Tralasciando l’analisi puntuale del film vorrei soffermarmi sul secondo aspetto, analizzando il posizionamento del film nel campo di forze creato da due delle grandi fabbriche dei sogni: Stati Uniti e India.
Il film racconta il tentativo di Kid di vendicare l’assassinio della madre da parte di Rana Singh, il capo della polizia, che ha dato fuoco all’intero villaggio nella foresta dove Kid viveva con lei. Scopriamo poi che Singh è in combutta con il corrotto leader religioso e politico Baba Shakti, il mandante del massacro. Kid ormai adulto vive nei bassifondi della vicina città di Yatana (nome indù per tormento) dove mette in atto la sua vendetta.
Dev Patel è un attore britannico di origine indiane divenuto famoso per il suo esordio da protagonista nel film The Milionaire di Danny Boyle del 2008 e che in Monkey Man esordisce come regista e sceneggiatore. La storia produttiva del film risente già della sua impostazione esplicitamente politica: completato nel 2021 era stato inizialmente acquistato per la distribuzione da Netflix per 30 milioni di dollari, fonti non ufficiali riportano che la società statunitense una volta visionato il prodotto si sia tirata indietro a causa delle forti implicazioni politiche che avrebbero messo a rischio la sua accoglienza da parte delle autorità indiane da cui dipendono i quasi cinque milioni di utenti attivi iscritti alla piattaforma in India. Non è difficile infatti rintracciare allusioni al primo ministro indiano Narendra Modi nel leader del “partito sovranista” messo in scena nel film o all’Hindutva, il movimento nazionalista indù, in un personaggio come quello di Baba Shakti chiaramente ispirato alla figura di Yogi Adityanath, il primo ministro di estrema destra dell’Uttar Pradesh, conosciuto per la sua politica autoritaria e islamofoba.
Il film è stato successivamente acquistato dalla Monkey Paw Production di Jordan Peele regista di diversi film dal forte sottotesto politico (Get Out, Us, Nope) a cui si deve il rilancio di un nuovo cinema di genere statunitense afroamericano, e oggi anche produttore. Nonostante la comune visione politica Peele sembra aver comunque usato una certa cautela, richiedendo la modifica dei colori usati per la rappresentazione del già citato “partito sovranista”, dallo zafferano presente nei primi teaser (lo stesso del partito Bharatiya Janata del primo ministro Modi) al rosso, che possiamo vedere nella versione uscita nei cinema il 5 aprile.
Il simbolismo e l’ambientazione indiana rappresentano un elemento di grande novità in un film di produzione occidentale che non nasconde di volersi allacciare direttamente al filone del cinema d’azione statunitense contemporaneo: una nuova tendenza inaugurata da un gruppo di stuntman che gravitano intorno all’87eleven, agenzia di action design (che si occupa quindi della realizzazione di sequenze d’azione nei film), oggi divenuta anche casa di produzione cinematografica e in particolare da Chad Stahelski e Derek Kolstad, rispettivamente regista e sceneggiatore di John Wick del 2014. L’uscita di questo film, che ha come protagonista Keanu Reeves, ha segnato un nuovo corso per il cinema d’azione mainstream, rompendo con l’estetica dei quindici anni precedenti che ricalcava fondamentalmente quella di un altro film di cui Reeves era protagonista: Matrix, delle sorelle Wachowski, che dall’uscita nel 1999 aveva imposto un immaginario fortissimo a tutto il cinema d’azione.
Il film di Stahelski guardava come Matrix al cinema di arti marziali orientale, in particolare quello di Honk Kong, ma abbandonando l’attitudine supereroistica e fantascientifica per ritornare ad una forma più grezza e minimalista caratterizzata da un’ambientazione metropolitana, un’azione ben coreografata in spazi angusti e dall’uso improprio degli oggetti più disparati come armi bianche. Così in Monkey Man accanto ad asce e mazze ferrate troviamo diverse padelle e bollitori usati come oggetti contundenti ma anche un intero inseguimento su un rickshaw a motore (qualcosa di molto simile alla nostra ape Piaggio) per le strade di una metropoli ispirata alla odierna Mumbai.
Kid durante tutta la prima parte del film viene constantemente sopraffatto, colpito, ferito e fallisce ogni iniziativa personale; lo vediamo vediamo far saltare maldestramente la copertura di un impiego da cameriere in un locale dell’elite indiana, poi in manette incapace di contrattaccare mentre cerca di seminare la polizia, infine perdere coscienza e cadere in fiume che lo trasporterà ai margini della città e verso il momento trasformativo del film.
Anche il corpo di Dev Patel si inserisce nel canone di una nuova fisicità dell’eroe action portato avanti dalla 87eleven che, lasciandosi alle spalle l’ipertrofia muscolare dei grandi del genere (Schwarzenegger e Stallone su tutti), fa uso di un protagonista sempre ad un passo dal fallimento, dal fisico naturale, dall’attitudine scostante e dal volto scarno dell’outsider, come era stata Charlize Theron in Atomica Bionda diretto da David Leitch, già stuntman e collega di Stahelski, o Bob Odenkirk in Io Sono Nessuno di Il’ja Najšuller, sceneggiato sempre da Kolstad.
Mentre al body building cartoonesco rappresentato oggi da attori come Jason Momoa e John Cena, che ricalca la fisicità dei vecchi eroi che avevano dominato l’immaginario action degli anni ’80 non resta che la strada della meta-ironia per sopravvivere al salto dello squalo di certa mascolinità esasperata.
Il più classico canovaccio dell’action hero, il palestrato che infrange le regole per salvare il mondo blockbuster dopo blockbuster, nelle mani dello star system indiano trova nuova vita in un tripudio di sequenze spettacolari, esplosioni, acrobazie e straordinarie coreografie di ballo delle immancabili canzoni di intermezzo; ma allo stesso tempo riporta indietro le lancette del tempo ad un tristemente recente immaginario cinematografico ancora dominato da un maschilismo a dir poco tossico in cui l’unico spazio accessibile dalla donna è quello della seducente comprimaria da salvare, la donna-premio insomma. Per non parlare delle identità non binarie, assolutamente inesistenti.
L’India negli ultimi anni si è guadagnata così lo status di principale concorrente nella produzione di film d’azione ad alto budget che stanno rivitalizzando l’immaginario cinematografico popolare dopo che da qualche tempo lo scettro statunitense appariva arrugginito.
La consacrazione come nuovo polo produttivo del cinema d’azione è avvenuta nel 2023 quando RRR di S. S. Rajamouli ha vinto il Golden Globe per la migliore canzone con la sua Naatu Naatu, attirando l’attenzione anche del pubblico occidentale e ottenendo una grande visibilità grazie alla sua distribuzione su Netflix. Oltre al plauso di molta critica, quando in una conversazione online Steven Spielberg, padre putativo del blockbuster moderno, ha fatto le lodi del film dando la sua benedizione al regista Rajamouli, il passaggio di testimone sembrava essersi compiuto e l’India è apparsa a tutti come l’erede naturale del cinema d’azione classico statunitense.
Gli Stati Uniti a quanto pare non si sono limitati ad esportare all’estero la democrazia ma anche un certo modo di fare propaganda nazionalista attraverso il cinema popolare che oggi in patria è sempre più complesso realizzare per via di un pubblico più consapevole ma anche dell’ostracismo dell’intellighenzia woke holliwoodiana. Se nel 1986 al Silvester Stallone protagonista di Cobra bastava una gang messicana e qualche stralunato terrorista new age per assicurarsi un nemico da sconfiggere, oggi la connotazione negativa dell’antieroe dev’essere per quanto possibile edulcorata da connotazioni etniche e schiettamente politiche. Un esempio su tutti: in Top Gun, sempre dell’86, i nemici erano i sovietici con i loro MiG-28, oggi in Top Gun: Maverick si parla di un più generico e rassicurante stato canaglia.
Nel cinema indiano invece si fa meno fatica ad inquadrare un nemico ben definito per il pubblico del cinema generalista e questo nemico è il Pakistan. Un esempio su tutti: Pathaan, uscito nel 2023 e divenuto in breve il terzo maggior incasso internazionale nella storia del cinema indiano, in cui un rancoroso e folle generale dell’esercito pakistano vuole scatenare la fine del mondo con una nuova e letale pandemia in risposta all’abrogazione (reale, avvenuta nel 2019) dell’articolo 370 che tutelava le regioni del Jammu e del Kashmir dall’applicazione completa della costituzione indiana.
Il film di Dev Patel sembra porsi in opposizione diretta a questi nuovi esempi di cinema action reazionario e populista inscenando un’epica e disperata vendetta contro i più alti ranghi della politica indiana, in cui le aspirazioni sovraniste di leader politici, santoni sciovinisti e capi corrotti della polizia si intrecciano sullo sfondo di una popolazione stretta tra l’assoluta povertà e le sopraffazioni quotidiane.
Non soltanto il film fa uso di immagini di repertorio dei pogrom realmente avvenuti sotto il governo Modi nei confronti della popolazione musulmana ma ambienta tutta la parte centrale del suo racconto in una comunità Hijra, persone che si definiscono come transgender o transessuali, oggi tra le identità più colpite dalla repressione omofoba del partito nazionalista indù Bharatiya Janata, che aiutano il protagonista a connotare la sua sete di vendetta all’interno di un comune contesto di sopraffazione sociale costantemente subita dai potenti e dare il via ad una creativa variazione a ritmo di tabla sull’immancabile training montage dando il via all’epilogo del film.
Jordan Peele, anche se con risultati artistici altalenanti, ha aperto la strada alla riappropriazione di un cinema di genere che troppo spesso era stato lo strumento della propaganda della destra reazionaria. Un’operazione che negli anni ’70 e ‘80 era già stata tentata da due grandi maestri come Carpenter e Henenlotter con la loro spietata critica della borghesia statunitense dell’era Reagan (Essi Vivono del primo e Frankenhooker del secondo, per citare due dei loro film) e che oggi sembra rilanciare la sfida con una nuova denuncia dell’oppressione etnica e razziale trovando in Dev Patel con Monkey Man uno dei suoi prosecutori più promettenti.