di Christian Raimo

Come sarebbe bello un paese che non ha bisogno di eroi, sarebbe bello anche un paese che non ha bisogno di capolavori. E in cui il ruolo di Moretti come regista-mito di riferimento, padre estetico putativo, guru cultural-politico per tutto un mondo di sinistra fosse concluso. È lo stesso Moretti che lo fa gridare dal film al suo personaggio dello psicanalista del papa: “È sempre stata la mia condanna, essere il più bravo”. Ma se è un rischio di cui il più amato regista italiano si rende conto, nulla fa però per ovviarvi. Tanto che alla presentazione in tv a Che tempo che fa, di fronte a Fazio che lo acclamava come mito, Moretti finiva semplicemente con lo schermirsi come un personaggio del suo film: “Ma lo dici a tutti!”.

Ecco, l’impressione che si ha vedendo i film di Moretti è che, terribilmente, il buona parte del suo pubblico – quei borghesi idiosincratici, cinefili, un po’ politicamente scorretti, fissati con certi cibi e certi sport… – non sia cresciuta, non abbia sviluppato una sana dialettica con un regista che ne ha raccontato forse per primo la sua centralità nella società italiana e l’ha chiamata anche a un protagonismo politico all’epoca dei girotondi o quando a Piazza Navona sconfessò come nessun altro la classe dirigente degli allora Ds. La sensazione, da ormai un paio di decenni, è che nessuno di questi spettatori-cultori possa ormai avere un moto d’insofferenza per il processo di morettizzazione che in parte è avvenuto nell’Italia degli ultimi trent’anni. Pensate alla scena della Nutella e ai peana per la Sacher e pensate alle Fiere del Cioccolato tipo Eurocholate sparse per l’Italia. Pensate alla scena di Moretti in vespa per la Garbatella e pensate agli attuali prezzi delle case alla Garbatella… Pensate alle due battute tirate via in questo Habemus papam sulla depressione già anticipata dalla Bibbia, sulla “terribile bellezza del darwinismo” e sul fatto che “nessuno andrà all’inferno perché e vuoto” e pensate alla cultura religiosa della borghesia italiana.

Il moto salutare che potrebbe venire a chi va al cinema a vedere Habemus papam, rispetto a una delle varie scene che inseriscono i cliché del cinema morettiano all’interno di un film che è anche molto altro, sarebbe di saltare su dalla poltrona è dire: “Ma che siamo in un film di Nanni Moretti! Palla prigioniera non esiste più da cinquant’anni… Le scene in macchina con i ragazzini che litigano di fronte a Margherita Buy… Ma che siamo in un film di Nanni Moretti!”. E questo moto non sarebbe soltanto l’applicazione 2.0 di un modello idiosincratico di guardare il mondo e il cinema che in parte proprio da Moretti abbiamo imparato. Ma darebbe a un regista, prima ragazzo-prodigio, poi splendido-quarantenne, la possibilità di crescere in una direzione che forse non è quella da lui prevista. Habemus papam, proviamo a dirlo in un modo che non sembri ottuso, sarebbe un film molto migliore se Moretti ci fosse meno, molto meno. Se quel gusto di fare il teatro nel teatro che si porta dietro dagli spettacolini-off di Io sono un autarchico alle sedute di autocoscienza di Ecce bombo ai film con dibattito di Sogni d’oro alle visioni cinematografiche delle partite di pallanuoto in Palombella rossa al film sul pasticcere trozkista etc… non finisse per essere un espediente narrativo e estetico che lascia alla recitazione il compito di un tono medio simil-brechtiano per cui gli attori non stanno mai veramente dentro i personaggi e i personaggi non sono mai veramente dentro il film. Questo spaesamento qui non può accadere; perché Michel Piccoli e Jerzy Stuhr, due giganti, recitano invece fino in fondo ai loro ruoli, incarnandone anche l’assurdo vuoto emotivo, o l’inanità, l’inadeguatezza, il non saper che fare. Per questo stridono la recitazione e personaggi di una Margherita Buy o di un Dario Cantarelli, ridotti a impersonare delle figure morettiane, facendo alle volte sembrare il film un frankenstein cinematografico. Per questo sono prevedibili i cardinali che vogliono uscire dal Vaticano perché “conoscono un posto a Borgo Pio dove mangiare un cornetto buono”. E per questo si è meno indulgenti sulla regia associativa di Moretti.

Non è mai stato un virtuoso della macchina da presa, sia: ma in un film dove la parte di stigmatizzazione dei costumi sociali è ridotta a siparietti, le scene che vorrebbero incantare hanno qualcosa di dilettantesco che non riesce a passare per sperimentale. Per dirne una: l’inquadratura di Piazza San Pietro sembra, a seconda della scena, un’immagine d’archivio, un kolossal all’italiana con troppe comparse ammassate, un set di uno spettacolo teatrale, una fiction su un papa qualunque. Ma è anche in quello che è stato sempre lo specifico morettiano che non tutto funziona. La regia sporca appresa da quella dimenticata scuola degli anni ’70 dei Grifi, dei Baruchello, dei Brunatto, in un film che ha ambizioni maestose rischia di creare più impasse, punti morti, che suggestioni: l’uso nullo del sonoro, la canzone Todo cambia che non si capisce perché i cardinali riescono a sentire dall’appartamento del papa e che contemporaneamente il papa stesso ascolta da un gruppetto di cantanti di strada, le inquadrature che si soffermano sul volto e il corpo di Moretti come se fosse rappresentativo di uno smarrimento di chi?, gli inserti improvvisati del ragazzo in autobus che sta litigando con la ragazza o della donna che chiede al papa un consiglio sul suo rapporto di coppia… Tutto questo cozza con la grandiosa idea iniziale del film – i primi dieci minuti sono i migliori – quella di un uomo che all’improvviso non si sente pronto per fare il papa.

Delle due grandi questioni che ne scaturiscono – 1) come faccio a obbedire a un compito che Dio mi dà se non mi sento pronto? e 2) di che tipo di padre, di guida ha bisogno la nostra società? – Moretti decide di amputare la prima, escludendo è vero tutta la dimensione trascendentale nel film, e di declinare in minore la seconda. La prima è la grande questione dei profeti, di Giona, di Samuele, di Mosè, di Gesù stesso che traballano di fronte alla chiamata: qui la questione viene ridotta a uno stordimento. Perché veramente non vediamo mai il papa pregare? Perché dopo l’urlo terribile che risuona nelle stanze del Vaticano, Moretti non ha il coraggio di farci interrogare non soltanto su un soglio pontificio vuoto, ma anche su un cielo vuoto? La seconda questione è più accennata che scandagliata: il problema dell’evaporazione del padre, come la chiamava Lacan, non riesce a mantenere una dimensione tragica. Cosa veramente può accadere se nessuno si assume la responsabilità di guidarci? Se nessuno vuole fare il padre? La contestazione dell’autorità degli anni ’60 portava Buñuel a immaginare nella Via Lattea la fucilazione del papa, oggi che sentimento proviamo per un uomo che non vuole fare il papa? E per un regista che risolve lo sconcerto dei cardinali con un torneo di pallavolo auto-organizzato?

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56 commenti

  1. Perfettamente d’accordo con questa analisi.
    Habemus Papam parte da una bellissima idea che poi però viene portata avanti in maniera inopportunamente “morettiana”, nel senso che sembra che Moretti esegua il suo compitino di voler fare a tutti i costi un film “morettiano”; così che ogni discorso viene a cadere e resta solo quando estremamente autoreferenziale. Il che mi sta pure bene, ogni “artista” è libero di fare quello che vuole, anche il proprio perenne autoritratto, ma che non mi si venga a dire che Moretti continui ad essere il riferimento del cinema italiano.
    Il personaggio della Buy è davvero trascurabile. Non aggiunge nulla, è del tutto inutile (ridicola poi – da serial tv popolare – la scena al bar con l’amica che mostra quei disegni dei bambini… ). Inoltre, così come appare, scompare nel nulla.
    E’ un film anti-religioso (il messaggio è interessante, è un messaggio significativo, importante) ma senza saper osare, senza essere davvero incisivo.
    Una commedia francese alla Lecomte, per capirci: gradevole, intelligente, ironica, divertente, ma leggera leggera… . E sì che l’argomento avrebbe meritato ben altro spessore, ben altra indagine psicologica dei personaggi, ben altra incisività ed elaborazione.
    Mi perdonino i morettiani, ma siamo ben lontani dall’intensità de La stanza del figlio, ad esempio.
    Tutte le scene del girovagare del Papa per la strade sembrano un compitino eseguito con diligenza, ma niente più. Il film è sfilacciato, non ha un centro, non ha pathos.
    L’unico personaggio davvero sopra le righe e che merita un applauso è quello dell’attore che recita Checov.
    Piccoli è inutilmente sprecato.

  2. errata corrige:
    “e resta solo quando estremamente autoreferenziale”.

    Ho scritto una frase che non ha senso 😉

    Ovviamente volevo dire: ed il tutto resta solo estremamente autoreferenziale.

  3. mh, analisi convincente. sono abbastanza d’accordo su tutto.

    ma la vedo più funesta, sia per il talento di moretti sia per il messaggio del film.

    credo che dopo caro diario abbia perso il tocco, e infatti funziona meglio quando moretti non rifà più il verso a michele apicella (ormai ha perso verve, brillantezza e forse anche “la rabbia giovane”).

    la dice lunga anche la nuova caratteristica – dal caimano a oggi – del finale potente e tranciante (gli riescono bene, molto bene, ma forse mascherano delle carenze nel resto della pellicola).

    peccato non sia riuscito a sfruttare al meglio l’intuizione/trama del film.

    per quanto riguarda il messaggio… forse è strettamente legato proprio al fatto che non ci fa vedere il papa pregare. non prega perché la chiesa si è persa e ha perso la sua funzione di guida. il finale e il dubbio vertiginoso sembrano testimoniare questo: non è più il gregge che si è perso, c’è stato un ulteriore scatto, è il pastore che si è perso e non riesce ad arrivare al suo gregge.

    così mi è parso, ma non saprei. dovrei rivederlo.

  4. dimenticavo,

    l’ho trovato un buon film, ma non un bel film. un potenziale luminoso smerigliato nella fattura.

    mi è piaciuto vederlo, ma resta il dispiacere per quel che non si è visto

  5. @ picaro

    “l’ho trovato un buon film, ma non un bel film.”

    “mi è piaciuto vederlo, ma resta il dispiacere per quel che non si è visto.”

    Incredibile! Ho pensato esattamente le stesse cose appena uscita dalla sala.

    Sul “messaggio” complessivo concordo, aggiungendo che forse Moretti (ma dovremmo chiederlo a lui ;-)), voleva anche dire che da sempre la Chiesa (e la religione in generale), per quanto ci provi, non riesce a dare proprio tutte le risposte esistenziali ed ontologiche che l’uomo cerca. E che il senso della vita è da ricercare altrove, che una risposta certa è impossibile a darsi.
    Falliscono le risposte della psicanalisi (nel film viste più come una serie di teoremi applicati a priori ma senza alcuna validità scientifica; divertente il “complesso della carenza di accudimento” che la Buy vede come soluzione di ogni disagio esistenziale e psichico), falliscono le risposte della Chiesa – e non solo della Chiesa di oggi, ma probabilmente di sempre – resta solo la ricerca nell’hic et nunc dell’esperire quotidiano, di un vagabondare nella vita.
    Insomma, le idee ci sono ma fallisce il linguaggio delle immagini (prioritario nel cinema), sono idee che lo spettatore deve elaborare per conto suo. Per questo è un buon film, ma non un bel film.

  6. Sono uscito dalla sala con la sensazione di avere assistito alla classica opera cinematografica italiana – ormai quasi un genere a sè stante – incapace di osare fino in fondo. L’Opera Cinematografica Italiana Incompiuta (O.C.I.I.) che preferisce la battuta facile allo sberleffo, l’ironia al sarcasmo, il patetismo al dolore, ecc. Ho pensato molto a Bunuel, e anche a Fellini, durante la visione del film, e mi sono chiesto perché decidere di impegnarsi in un film così potenzialmente ricco per mostrarci un’operetta simpatica e gradevole e così povera di mordente (i primi quindici minuti, e qualche altra isolata scena all’interno del film). All’O.C.I.I appartengono anche a mio parere: Pinocchio (Benigni), Baaria (Tornatore), Dreamers (Bertolucci). L’ultimo film italiano capace di emozionarmi è stato “La bocca del lupo”. Uno che avrebbe meritato più attenzione: “Il vento fa il suo giro”.

  7. Forse qualche assioma di troppo, mi permetto di dire. Non mi è sembrato affatto un film anti-religioso, e non credo nemmeno che Moretti abbia in testa che sia possibile fare un film anti-religioso o religioso piuttosto che politico o a-politico… Non credo che siano categorie pertinenti per Moretti, ma più in generale credo che dicotomie tali non servano in alcun campo (arte, musica, letteratura). In secondo luogo mi pare un po’ facile la reductio di alcuni fenomeni italici a epifenomeni di una presunta deriva morettistica. Moretti fa i “suoi” film, che spesso la borghesia sinistrorsa abbia fatto dei suoi (di moretti) tic degli slogan spesso svuotati di forza… beh, credo sia un problema della borghesia e non di Moretti.
    Per quanto riguarda lo stile: M. non è regista di scene di massa, non lo è mai stato, non lo sarà mai, a mio modesto parere. Quando prova a girarle l’effetto è sempre un po’ quello di “elefante in salotto”, di qualcosa che sta insieme non per disposizione ma per costrizione, non so come dirlo meglio. Tuttavia l’effetto straniante di tutto questo non mi dispiace, rende bene un senso di inadeguatezza senza scadere nel grottesco (e penso soprattutto ai sopra le righe di Sorrentino).

  8. È un problema politico della borghesia e non di Moretti, questo è chiaro. Ma è un problema artistico di Moretti, questo per me è altrettanto evidente. Non è una questione di fare un film religioso, nel senso di fenomenologia della religiosità, ma un film che riguarda la questione della fede sì. Cosa posso sperare? è domanda che da Kant in poi ci dice qual è la questione della fede. In cosa posso credere? Il semifallimento di HP sta nel finire il film come era iniziato.

  9. “cosa posso sperare”? dreyer risponde a questo quesito? e aurora risponde? e otto e mezzo?

  10. Sì. Assolutamente. Dreyer, Fellini, Bresson, Bunuel, ma anche film di registi minori, affrontano il tema della religione e di una religione in un tempo secolarizzato con la consapevolezza di dover immaginare un vuoto: filmicamente questo è molto complesso. Moretti qui lo fa a piccoli tratti. I cardinali che si ritirano dal balcone è una scena che lascia impressionati, l’urlo. Ma è una suggestione alla Cattelan: e poi?

  11. @ andrea amoroso

    E’ un film anti-religioso nel momento in cui afferma che la religione – da sola – non basta a dare una risposta ontologica, né esistenziale tout court. Quindi sostanzialmente scardina la base su cui si fonda la religione (non solo la cattolica, ma tutte).
    La religione (in particolare mi riferisco a quella cattolica perché di quella si parla nel film) con i suoi dogmi, pretende di offrire la sua verità, in una concezione assolutistica ed atemporale. Introduce delle certezze: l’aldilà, la vita eterna, la resurrezione, il perdono dei peccati ecc..; antropologicamente parlando, la religione nasce proprio come tentativo, esigenza – soprattutto – di fornire una speranza che potesse superare l’orrore scaturito dal mistero incomprensibile (incomprensibile perché inaccettabile psicologicamente, sempre) della morte. La religione cerca in sostanza di rendere più accettabile la morte, di dare un senso a quello che un senso non ha, oltre che a fornire una guida, a tentare di costruire e delinerare una “morale” per la massa. Non dimentichiamo che molta gente è terrorizzata dal pensiero di dover compiere delle scelte in piena assunzione di una responsabilità consapevole e così preferisce delegare la propria capacità raziocinante ad una serie di dogmi. E’ senz’altro più facile, anziché stare lì ogni volta a mettere tutto – soprattutto il senso delle proprie azioni – in discussione. Quindi la religione da sempre è vista da molti come un’àncora cui aggrapparsi.
    Nel momento in cui Moretti, nel suo film, mette in dubbio questo ruolo e questi compiti che da sempre la religione si prefigge, allora il film diviene anti-religioso.
    Quell’anti, non sta per “contro”, ma per “limite, carenza, inadeguatezza”. Forse avrei dovuto scrivere a-religioso. In effetti.

  12. È un film in cui i cardinali sono dei vecchi rincoglioniti, privi di qualunque carisma. Poveri vecchi che passano il tempo a fare puzzle, e che si entusiasmano per una partita di pallavolo. Il desiderio di renderli umani diventa anche il desiderio di sbeffeggiarne il loro ruolo. Ma le scene più belle sono proprio quelle dove la liturgia cattolica viene ripresa, svuotata ma ripresa.

  13. Cattelan… appunto, oltre la provocatoria suggestione, il vuoto assoluto. Il nulla.
    Peraltro detesto chi strumentalizza gli animali (e Cattelan lo ha fatto almeno una volta, in quella specie di “opera” in cui si vede un cavallo imbalsamato conficcato nel muro).

    Scusate, a proposito dei grandi che hanno saputo trattare il tema della religione (e della religiosità) avete dimenticato Bergman: avete presente Luci d’inverno? Ecco. Quello è un vero capolavoro sulla religione.

  14. “Cosa posso sperare? è domanda che da Kant in poi ci dice qual è la questione della fede. In cosa posso credere? Il semifallimento di HP sta nel finire il film come era iniziato”

    Secondo me il semifallimento di HP non sta nel fatto che non riesce a dare una risposta perché un abbozzo di risposta invece la dà eccome: fallendo la psicanalisi, fallendo la fede, la chiesa ecc., non resta che la vita vera, quella della gente comune (sull’autobus, al bar, per le strade, nelle piazze), forse l’arte (il teatro), insomma, si può solo sperare nell’hic et nunc.
    Ma lo dice male. Lo dice malissimo! (questa è una frase alla Moretti) LOL

  15. Strumentalizzare gli animali? Ma l’artista non strumentalizza persino se stesso? Francamente: non ho visto scene memorabili nel film, non ho visto metafore visive epocali, non ho visto immagini di cristallo né di vetro di murano. Ho visto un buon film, tutto qui. Senza la pretesa di relativizzare l’assoluto né di assolutizzare il dubbio. Bergman è dio ed è buona cosa non parlare di dio con dio.

  16. @ andrea amoroso

    Sì, l’artista strumentalizza se stesso ed è liberissimo di farlo in quanto la questione riguarda essenzialmente se stesso. Se l’artista vuole darsi fuoco o impagliarsi, saranno affari suoi, infatti.
    Se però si usa un animale – che in quanto paziente e non agente non può dire la sua – allora diventa un uso strumentale che, personalmente, contesto ed aborro.

    Forse ti è difficile comprendere questi miei pensieri: io sono antispecista. Ergo non ne posso più dello sfruttamento degli animali (come di quello delle persone e di qualsiasi altra specie vivente), e lo contesto anche nell’arte. Specialmente quando di “arte” proprio non si tratta, essendo Cattelan, secondo il mio umilissimo punto di vista, un cialtrone. LOL

  17. @ andrea amoroso

    La forma del cavallo è stata realizzata in vetroresina, ma è poi stata coperta con un vero manto di pelle equina.

    In un’altra sua opera – sempre Cattelan – invece ha utilizzato un vero cavallo imbalsamato.
    Certamente era morto, ma dubito che sia stato un cavallo che abbia vissuto libero in una prateria per tutta la sua esistenza e che poi si sia atteso che morisse di morte naturale per prenderne il corpo. Sarà stato un cavallo proveniente da una scuderia – non più “buono” per correre nelle gare – oppure, peggio ancora, comprato presso una macelleria equina.
    In ogni caso contesto questa “mercificazione” di un essere vivente, anche dopo morto.

  18. Sono uscita dal cinema molto perplessa…intanto questo Melville (un riferimento a Moby Dick alle prese con la balena bianca della chiesa o a un oscuro regista francese?) sembra in molti punti un deficiente…sì, sotto mentite spoglie vaga per la città, come facevano i principi delle favole medievali, ma per non apprendere nulla dalla vita che vede intorno a sé. Del resto, se non voleva essere eletto, ma perché si è messo in gioco? Forse il messaggio del film è che un uomo di potere in fondo non è altro che un attore, un manipolatore, come dimostra quello che secondo me è il vero protagonista, il grandissimo polacco che fa da portavoce, del resto anche Wojtyla senza Navarro Valls…e guarda caso il professor Moretti, il più bravo ma stufo di questo epiteto, ecco che diventa il più bravo in fondo a ciò che piace di più a tutti, e a Moretti in particolare, giocare a sette e mezzo, organizzare tornei…con un certo disprezzo per le donne, la moglie brava ma fissata con il concetto di carenza di accudimento infantile (che pure ha la sua importanza) oppure Melville invidioso della sorella che al contrario di lui è stata presa a recitare in accademia…ma tutti questi uomini soli e anziani, spiati nelle lore cellette e la follia più grande, quella delle guardie svizzere e a un certo punto il film sembra un documentario su di loro e a tutti viene in mente la strage del capitano e del suo intendente, per cui si potrebbe virare al giallo o al noir…invece no, il film finisce com’era cominciato: tutto questo travaglio interiore per niente, non se la sente di fare il papa, non ha carisma, non vuol recitare il potere (di recitazione in fondo si tratta pur sempre), non si capisce come sia arrivata la spiata a teatro (come nel film di Truffault, L’ultimo metrò quando però il teatro si riepiva di nazisti…), ma non smette le vesti talari, si rammarica che il porfessor Moretti non abbia la fede, questo Melville sì l’ha fatto Piccoli ed è bravo ma forse il ruolo andava meglio per Silvio Orlando e per la sua stralunata mancanza di logica.

  19. Pardon la fretta…”ecco che diventa il più bravo in fondo a fare ciò che piace di più a tutti…” e al terzultimo rigo, “professor” e non “porfessor”….Cari saluti, Mariateresa

  20. le ipotesi sulla vita del cavallo non mi appassionano, anche perché mi sembrano prive di fondamento. per quanto riguarda l’utilizzo dei cadaveri sono fortemente a favore, quasi quanto rembrandt.

  21. Non si può definire Jean-Pierre Melville un oscuro regista francese!!!

  22. @ andrea amoroso

    Abbiamo davvero molto poco in comune.

    Peccato solo che tu abbia scomodato Rembrandt…

  23. mi sa che personali insofferenza per moretti o un certo moretti e personali infatuazioni per moretti o infatuazioni tradite, abbiano un po’ deviato il discorso dal film di moretti su qualcos’altro… questioni di grande importanza, per carità…

  24. Perdonate la piccolezza del mio contributo.
    Premetto che non sono una Morettiana, e mi sono quindi avvicinata al film con un po’ di sospetto, aspettandomi una pellicola anticlericale e avente come scopo la denuncia (legittima) di certi comportamenti della Chiesa, un po’ sulla scia mordace e grottesca del Caimano.
    Ho invece trovato altro, perchè il soggetto a mio modesto parere non è la Chiesa o il Papa, bensì il riconoscimento (l’elogio?)dell’inadeguatezza.
    Mi sembra uno spunto interessante e profondo.
    Penso che a molti dei nostri “potenti” farebbe bene ogni tanto una crisi d’umiltà e sconcerto, chè il mondo è pieno di persone inadeguate che si sentono adeguate…

  25. @ andrea amoroso

    LOL

    (è che un artista di siffatto spessore come Rembrandt in mezzo a Moretti e a Cattelan non lo vedo affatto bene, nemmeno da morto… )

  26. @pauline : non so se lo guarderò ma dagli short-trailers fiuto che hai azzeccato in pieno il significato specialmente politico che Moretti desidera trasmettere.

  27. da PAULINE:

    “Ho invece trovato altro, perchè il soggetto a mio modesto parere non è la Chiesa o il Papa, bensì il riconoscimento (l’elogio?) dell’inadeguatezza […] il mondo è pieno di persone inadeguate che si sentono adeguate…”

    sono d’accordo, il senso di inadeguatezza (riconosciuto) è universale e trasversale.

    (non a caso viviamo nella società liquida e sempre non a caso questo periodo storico è caratterizzato dalla post adolescenza. tant’è che è parlare di generazione post adolescente è sinonimo di inadeguatezza esistenziale)

    tuttavia moretti ha fatto un film sulla chiesa. il tuo giusto discorso, e quello di altri, che rintraccia la radice comune dell’inadeguatezza, deve comunque tenere conto delle specificità del soggetto della pellicola. altrimenti si parla più di noi e meno del film, e si parla più di noi attraverso di noi che di noi attraverso il medium cinematografico.

  28. @ picaro

    “altrimenti si parla più di noi e meno del film, e si parla più di noi attraverso di noi che di noi attraverso il medium cinematografico.”

    Questo tuo pensiero contiene uno spunto interessante: è vero che per un’analisi oggettiva di un film (o di qualsiasi opera d’arte) si deve stare attenti a non trasferirvi quelle che sono le riflessioni personali di ognuno, sennò si corre il rischio di non riuscire a leggere che un discorso sempre autoreferenziale, però è anche vero che il valore di un film o di un romanzo è dato anche proprio da questa stratificazione di significati che può diramarsi anche in direzioni estremamente soggettive. Anzi, più un’opera è complessa – e non sto parlando adesso, nello specifico, del film di Moretti, ma sto facendo un discorso molto generale – più, in questo suo portare avanti un discorso polisemantico riesce a raggiungere un pubblico quanto mai differenziato, proprio perché ognuno saprà coglierci qualcosa in riferimento a se stesso.
    Non sono d’accordo che sempre “si parli più di noi attraverso di noi che attraverso il medium cinematografico”, in quanto spesso il cinema ha avuto la capacità di cogliere ed anticipare prospettive inedite di un discorso sociale o anche umanistico, mettendo a nudo e disvelando temi e dinamiche che viste dall’interno – in assenza di un occhio esterno quale può essere quello della telecamera – è difficile cogliere.
    Almeno questa è la mia opinione.

  29. @ picaro

    Sono d’accordo con Rita: secondo me HP non è un film sulla chiesa, o sulla religione. Allo stesso modo in cui Il Caimano non era un film su Berlusconi.

    Non sono d’accordo invece con te quando dici “altrimenti si parla più di noi e meno del film, e si parla più di noi attraverso di noi che di noi attraverso il medium cinematografico”.
    Qualcuno ha tirato in ballo “l’analisi oggettiva” di un film, e l’analisi oggettiva di un film non esiste. Puoi guardare un film solo con il tuo paio di occhi, in un momento preciso della tua vita, con un tuo stato d’animo che può dipendere dalle cose più insulse.
    Ma poi, che male c’è a guardare un film dalla propria prospettiva? Qualche commento più su, qualcuno diceva che, durante la visione di HP, ha pensato a Fellini e Bunuel. Tanto piacere. Io ho pensato a quello che stavo guardando in quel momento e l’ho sentito vicino, a livello personale, senza per forza volerci trovare riflessioni più ampie sulla fede o sulla società italiana o su grandi temi.
    Non è per questo che andiamo al cinema? O leggiamo libri, o facciamo un uso qualsiasi dell’arte? Per ritrovarci dentro un pezzetto della nostra vita, per cercare di capire qualcosa in più su di noi – o sul mondo come lo viviamo noi?
    E’ così importante chiedersi perché i cardinali riescono a sentire la canzone dall’appartamento del papa, o perché il papa contemporaneamente ascolta la stessa canzone suonata da un gruppo di strada? Santo cielo, stiamo parlando di cinema. Di storie. Perché bisogna trasformare sempre tutto in qualcosa di “più grande”? Non c’è niente di sbagliato nella semplicità. Soprattutto, non sembriamo più intelligenti se la rifiutiamo.
    Sarà che sono una morettiana convinta, non so.

  30. Premetto che sono cinefilo, un po’ “politicamente scorretto” e pure un po’ morettiano (ma non condivido la sua idiosincrasia per il cinema di genere).
    Io l’ho trovato un bellissimo film, una commedia “drammatica” una riflessione sul paradossale coraggio di mostrarsi deboli, fragili, umani alla fine e tutt’altro che “infallibili”, sul rifiutare la finzione imposta dal Potere rimpiangendo la finzione “genuina” del teatro.
    La sequenza in cui tutti ascoltano Todo cambia cantato da Mercedes Sosa è una delle più poetiche del film.
    Si prende anche benevolmente in giro la psicanalisi attraverso il personaggio della Buy fissata col deficit di accudimento, ma anche lo stesso Moretti che si compiace di essere il più”bravo di tutti” anche se finge di rammaricarsene.
    Si è detto che Melville non apprende niente, secondo me riscopre se stesso, la sua passione giovanile per la recitazione, l’ammirazione e anche l’invidia per la sorella, riscopre se stesso anche grazie al confronto con le donne, scappando da un ambiente esclusivamente maschile come quello vaticano.
    e i confronti tra Moretti e i cardinali descritti come vecchietti in gita sono irresistibili.
    Non va fino in fondo nella polemica antireligiosa? Ma non era un suo obiettivo, il suo obiettivo era fare un film sul paradossale coraggio di ammettere la propria fragilità. dopo un uomo attratto dal potere (Il Caimano), uno che il potere lo rifiuta. Secondo me moretti ha fatto un film riuscito

  31. Forse Moretti sente molto forte che i ruoli principali del Potere ogi in tutto il mondo sono assegnati a persone non all’altezza dei problemi giganti che esistono. Problemi gli stessi nemmeno tanto giganti se a risolverli ci fossero personalità e uomini potenti meno inadeguati, incapaci. Leader veri insomma, e lui, essendo artista, sente forte il respiro ansimante dell’attuale mondo.

  32. E’ vero..pardon pardon…Melville, il sommo regista di uno dei miei film preferiti, “L’armata degli eroi”…pardon pardon!!!

  33. Credo che il nome Melville sia un riferimento al Bartleby di “Preferirei di no”.

  34. la piattezza imbarazzante di quelle inquadrature di san pietro – sono cinquant’anni che fa cinema!

  35. ieri – che per me è tutto ciò che viene prima di oggi – ho visto la messa è finita. sono rimasto stupito di come moretti fosse molto più bravo a recitare all’ora rispetto ad oggi.

    certo, non è stato mai un grande attore, ma teneva la scena. adesso sembra forzato e un po’ macchietta di sé stesso.

    comincio a pensare che io suoi film sarebbero meglio se restasse dietro la camera.

    credo che habemus papam sarebbe stato migliore se non ci avesse recitato (anche se un paio di battute che fa sono divertentissime)

    se qualcuno la pensa come me, lo scriva, così non lo pensa più e io me ne accorgo

  36. E’ sempre molto imbarazzante leggere commenti o critiche o analisi su ciò che un’opera potrebbe essere, anziché su ciò che un’opera è. Il motivo dell’imbarazzo sta nel fatto che l’unico pensiero che un commento del genere attiva è questo: perché non lo giri tu un film? E un pensiero del genere non serve a niente, e una critica o analisi o commento che attiva pensieri che non servono a niente, non serve a niente. Non si può certo dire la stessa cosa del film di Moretti.

  37. C’è la crisi dell’uomo moderno, c’è l’inadeguatezza, c’è misticismo , c’è la psicologia ma soprattutto c’è Roma Prati nell’ultimo film di Nanni Moretti. Nel gerontocomio vaticano, animato da faccioni rubicondi di germanici e paonazzi visi di pastasciuttari per nulla popolani più qualche negro e intillimano perché è già Conclave davvero internazionale, emerge Papa Piccoli, bravo attore e commovente anziano con gli occhi che barbagliano. Languida demenza o umana debolezza?
    L’attore garantisce la qualità e succulente coproduzioni, in fondo deve solo far vedere che proprio non ce la fa a fare il Papa. Si allarma il conclave di Cocoon e, tra un abito talare, una mozzetta, un puzzle, un calmante e una tisana si decide di chiamare lui, Deus ex machina Nanni – Wolf risolvo i problemi; psicoanalista, testimone laico tra preti, pontificante molto più di qualunque pontefice e, ma c’è da capirlo visto che ti chiama il Vaticano e ti devi persino spostare da Monteverde, per nulla discreto nei suoi prolassi onniscienti su darwinismo, allenamento di pallavolisti riottosi, inconciliabilità di anima e inconscio, gioco delle carte e memorie e languori del tempo che fu. C’è pure il “background del personaggio” scritto in veri conclavi di sceneggiatori che producono però una cosa sola: Nanni è divorziato! Mia moglie signora mia quanto mi manca, non sa quante pene! Non facile psicologismo e mai banale.Forse.
    Piccoli reciterà anche la parte del tremebondo rincoglionito ma appena si trova davanti quel malinconioso inquisitore sessantenne,forse esaurito per essere arrivato in vespa dal Gianicolo che è come la traversata del Mar Rosso, piuttosto che ascoltarlo, ritrova energie insperate e pensa bene di darsi alla fuga a gambe levate. Fuga non proprio scoppiettante, prigioniero anche lui di piazza Risorgimento o al massimo il lungotevere ma persino notturno ( che azzardo immaginifico!), dove si trova posto in autobus ( licenza poetica?) e dove una ragazza tanto a modo ti presta il cellulare per telefonare (licenza patetica?), dove una commessa dell’Upim (o Coin? misteri del cinema) , ti aiuta come un’infermiera nonostante tu, Papa bizzoso in libera uscita, la abbandoni senza un perché. Sisifo post moderno che al posto del macigno ha la croce ma avrà a breve forse un più realistico deambulatore?
    Il mondo è crudele ma esistono ancora sprazzi e spazi di vera umanità! A via Cola di Rienzo ? Anche.
    Papa in fuga con languori giovanilistici, alla ricerca del Teatro con molte maiuscole, cultura alta a cui ha dovuto rinunciare e pure tanta arte, sogni infranti e rimpianti, trasvolando per le strade di una metropoli antica e moderna al tempo stesso. Ma mai oltre piazza Cavour.
    Nanni c’è sempre, non sia mai, con la presenza totemica e ilare di pazzerellone che riesce a risolvere l’attesa del ritorno in un improbabile torneo di pallavolo. I bolsi, goffi, ulcerati, tabefatti cardinali si divertono come matti, e noi, abituati alle risate automatiche del Drive In, siamo chiamati a ululare cachinni ad ogni rallenty di una regia alla Benny Hill. Dobbiamo divertirci ai loro incontri? C’è pure un pubblico di suore (aprire al sesso debole?) che batte le mani a ritmo, come in colonia, tutti inebetiti da tanta ilarità, neo giovani marmotte e boyscout cresciuti tra le muffe di qualche sacrestia o sezione partitica dei tempi che furono, ricchi di valori ormai andati.
    Ahimè, andati sì ma sempre a Roma Prati.
    Il Michele di un tempo ora è il maturo Nanni, abbarbicato sull’alto di un trespolo in posa da grifagno uccellaccio, affiancato dal volto a slavina, davvero rivelatore, del sicuramente stufo Renato Scarpa (chaggia fa pe campà!), in tutta evidenza esausto da così tanti e pesanti drappi cardinalizi (chissà che caldo!) e sfiancato nel compito di assecondare un mattacchione, con i suoi faccioni, in mezzo a due campi di volley da lui voluti nel cortile di palazzo Farnese, oltre all’intera Cappella Sistina ricreata a Cinecittà. Ah le maestranze di una volta! Il cinema è artigianato.
    Lui è torvo e convinto, tra un sermone sull’evoluzionismo e un punto fischiato o sadicamente negato, di avere veramente qualcosa da dire. Sarà lui o sarà il suo personaggio? Nel dubbio rimane solo nel cortile con la palla in mano, abbandonato, vittima del deficit affettivo che tanto ha citato e pure criticato. Che qualcuno se lo rivenga a prendere anche non in vespa!
    Lo spettatore, se è arrivato fino a questo punto, può ancora godersi il ritorno in patria dell’Ulisse Piccoli, ripescato in un palchetto di teatro dove biascica come un mantra il testo del gabbiano di Cechov. Il poveretto è salvo, almeno perché è scampato a tre sedute di analisi settimanale con l’urticante psicoanalista e alle sue pericolosissime pazienti, madri nevrotiche assatanate di sushi, e soprattutto ai due bimbi che menano e si menano. Meglio tornarsene di corsa in Vaticano. Per concludere la parte, portare a casa l’obolo e i ricchi buffet della Croisette e andare, in sintesi, in pace, al davvero bravo Piccoli non resta che sfiatare un’ultima sequela di grandi verità scritte in interminabili riunioni del circolo socratico di sceneggiatori di Monteverde Vecchio: la Chiesa ha da comunicare con il mondo, signora cara, ha tanto da dire ancora ma ci vuole un uomo all’altezza e poi, lei mi insegna, c’è grossa crisi di valori e c’è tanta insicurezza. Che drammi, che pianti e che sospiri e che di inusitata profondità! Far ridere facendo pensare, signora cara, mica una cosa da tutti.
    Habemus speso sette euro e cinquanta. Questa è l’unica certezza che ci resta. Ma almeno a Torrevecchia e non a Roma Prati.

  38. Anche a me, come Francesco poco sopra, fa veramente ridere che si possa giudicare il film per come sarebbe dovuto essere. Forse mancano altri argomenti.
    Poi invece mi interessa molto come siamo bravi a fare tiro al piccione: ce la vorremmo prendere con la borghesia italiana (che in realtà ha un orizzonte di “piccola” borghesia) ma nel frattempo pestiamo a sangue qualcun altro. Ho anche l’impressione che dietro ci sia una sottile invidia intellettuale, una voglia di prenderne il posto, sia del qualcun altro bastonato sia della borghesia, in una sorta di doppio avvitamento.
    Il film non è un granché, siamo d’accordo ma, andiamo a riprenderci un buon annuario di film e guardiamo quanti sono i registi che non hanno mai sbagliato un film nella loro storia.
    Infine: alle volte diamo anche l’impressione di essere come antani per due. E con scappellamento a destra, come di dovere.

  39. @ Desian
    Quanti sono i registi che non hanno mai sbagliato un film nella loro storia?
    Ti basta qualche Italiano o posso dilungarmi anche con gli stranieri? No, perché sai, la lista sarebbe lunghissima 😉

    @ ancora Desian e Francesco

    Mi sento tirata in causa in mezzo agli altri “accusati” di non aver saputo criticare il film di Moretti per quello che era, ma per quello che non ha saputo essere 😉 (la faccina sorridente è d’obbligo, parlare di cinema è un’interessante e piacevole attività e quindi ci tengo a sottolinearne lo spirito giocoso).

    Innanzitutto è legittimo evidenziare tutti quegli spunti presenti in un film che però non sono stati adeguatamente o artisticamente approfonditi. E questo non significa attribuire ad un regista idee e riflessioni che non era sua intenzione raccontare, visto che a livello germinale comunque erano presenti.
    Di questo è stato detto, infatti: della bella storia che Moretti ha VOLUTO raccontare ma non ha SAPUTO raccontare. Ed è stato detto sulla base di spunti oggettivi, ravvisabili nel film, non di idee o riflessioni che pertengono esclusivamente a chi si appresta a criticare.
    E soprattutto, rileggendo indietro i vari commenti, si è parlato ANCHE della mediocre resa filmica di certi passaggi (migliore in altri).
    Argomenti per criticare il film ce ne sono, e tanti, anche fermandosi al solo livello formale (visto che sembra un delitto estendersi a quello semantico): qualche esempio? Le riprese di San Pietro, della piazza con la gente e anche del girovagare del Papa per le strade di Roma sono di qualità scadente, persino in alcuni serial televisivi ne ho viste di migliori; altre scene (quella dentro alla Coin, quella in macchina con la Buy ed i bambini che litigano, quella al bar, solo per riportare alcuni esempi) sono altrettanto scadenti, sia a livello di inquadrature che di fotografia, e, soprattutto, di recitazione. Non saper dirigere gli attori (e si parla di attori professionisti) è un difetto del regista, non degli attori stessi.
    La famosa scena in cui il il balcone resta vuoto, dopo che il Papa si è allontanato è invece efficace visivamente, per quanto risulti estremamente enfatica. E l’enfasi è spesso un difetto, più che un pregio.

    Altre sono migliori, proprio a livello di significato, ossia di quello che riescono a “raccontare” visivamente (ché il cinema, non dimentichiamolo, questo è): ad asempio quella in cui la guardia svizzera sposta le tende per far capire la presenza del Papa: è una bella scena perché rimanda al valore simbolico della figura del Papa, per cui non è importante identificarlo nella sua fisionomia ma è importante avere la conferma della sua presenza.
    E infatti fuori, i cardinali che guardano in alto ed anche la gente che passa, sorridono e mostrano un sentimento di rassicurazione.
    Molto bella invece – proprio a livello tecnico di resa visiva – la scena in cui, sempre la guardia svizzera, guarda fuori e vede i cardinali affacciati su tre diverse finestre oltre le quali si intravede lo sfondo di una parete affrescata, così che la scena rende efficamente l’idea di un trittico, di cui i cardinali sembrano far parte. Questa è una scena ben “costruita” e che all’economia semantica del film offre il suo contributo.

    Potrei continuare, ma penso di aver dedicato anche troppo del mio tempo a discutere di questo film 😉

    Come vedete però gli argomenti per criticare questo film, ripeto, anche basandosi sul solo aspetto formale, non mancano e – perdonatemi – trovo che sia disonesto, quando non si è d’accordo con alcune stroncature di un film o critiche negative in genere, attaccare chi critica sulla base di un’incapacità di attenersi al film o dicendo “giratelo voi un film”: sarebbe meglio rispondere con un’altra critica, dicendo invece cosa a voi è piaciuto e perché: così ci sarebbe un vero e proficuo scambio di idee. Può essere che a noi sia sfuggito qualcosa, ma non è criticando chi critica che si rende onore al cinema.

  40. Ecco la sindrome del secondo decennio del millennio: il non rassegnarsi all’esistenza dell’eccellenza. Se esiste qualcuno che con la propria opera dimostra nei fatti una dote, una virtù, un talento, o anche un intuizione, subito scatta la caccia al difetto al “bravo, ma avrebbe dovuto/potuto fare…” o, ancora (ma questo è un difetto ancora più antico e molto diffuso in ambito musicale specie tra i rockettari, ma si sa, chi era giovane e rockettaro 20 anni fa ora è un adulto esegetico cinematografico che però non ha perso i suoi slogan) “lo preferivo all’inizio, ora ha perso l’ispirazione, è manierista di se stesso, ha perso rabbia/freschezza/aggressivitò” (mi viene in mente Elio quando dice a tal proposito di adorare i Pink Floyd prima ancora che si chiamassero Pink Floyd, anche se non hanno mai pubblicato un album prima di cambiare nome…). Allora con Saviano è scattata la trappola obliqua della critica letteraria mischiata all’osservanza della Verità giornalistica (quanto ama Vendola quando parla di verità con la v-minuscola!!!), ora addirittura con Moretti tutti pronti sul via alla caccia al difetto. C’è un complesso di superiorità che serpeggia che non consente di ammettere che qualcun altro abbia qualcosa da dire (e che lo faccia bene)! Provoca un istinto distruttivo, un angosciosa devozione al nichilismo ed alla nostalgia dei padri (scrittori, registi, e chiaramente divi del rock), una claustrofobica ricerca del proprio ombelico sepolto da kili e kili di ciccia! Basta a farvi le pippe, Christian Raimo con il suo Nuovo Cinema Paraculo si è guadagnato il diritto di scrivere per le pagine culturali di Libero o del Giornale, con una critica cinematografica che per strumenti, acume, chiarezza e referenzialità vale poco, molto poco. Non sostengo che Moretti non debba essere criticato (attaccato è un pò troppo), ma che per lo meno ci si doti di argomenti e di strumenti “visivi” un pò più adeguati…come dire, puoi gareggiare contro una Ferrari, ma non a bordo della Panda (e Marchionne non me ne voglia…)

  41. Palmito, su Libero e il Giornale ci scriverai tu. Scusa la bile. Ma da quando ho visto la prima pagina che sbeffeggiava il cadavere di Vittorio Arrigoni non sono dell’umore di essere cortese con una boutade del genere.
    Poi le questioni “visive”, quelle specifiche rispetto al “filmico”, più che al “visivo”, che non ho capito perché tu metti tra virgolette, non erano il cuore dell’articolo, che era appunto più un pezzo di sociologia dell’arte. Nonostante questo, ho accennati alla regia, che mi sembrava proprio la parte più debole di un film scritto bene ma Moretti-centrico e recitato in certi casi in modo egregio. Giacomo Giubilini ne ha messo in luce più di una questione nel suo commento.
    Ps. po’ si scrive con l’apocope, non con l’accento.

  42. Ammetto di avere un pò esagerato augurandole una scrivania alle redazioni di Libero e de Il Giornale, ma, francamente, ricevere come risposta ad una considerazione nel merito della sua critica cinematografica (o, se preferisce, della sua lezione di sociologia dell’arte) una lezioncina di grammatica su come si scrive su di una tastiera di un PC la parola “pò”, se con l’apocope o con l’accento e su come e quando usare le virgolette è davvero un pò triste e denuncia un vuoto (non assoluto, non mi permetterei, ma di certo sull’argomento) innegabile. Si parla di sociologia? Davvero? Solo perchè dice “ma in un film dove la parte di stigmatizzazione dei costumi sociali è ridotta a siparietti, le scene che vorrebbero incantare hanno qualcosa di dilettantesco che non riesce a passare per sperimentale”? Ma non è una considerazione estetica? E non è un pò troppo categorica, specialmente in un contesto culturale “post-moderno” (sperando che non mi cazzèa di nuovo se uso una parola tra virgolette) in cui, probabilmente, nessuno ha voglia di nessuna stigma sociale? Parla di uso nullo del sonoro, ma questa forse è colpa del cinema dove ha preso visione del film. Dove l’ho visto io il sonoro c’era ed era davvero bello, a partire dalla colonna sonora di Piersanti (di cui ho letto una bellissima intervista su Il Manifesto, che mi ha illuminato sul film, sul suo senso e sul suo gusto, molto più del profluvio di critiche negative che ormai leggo ovunque). Ed infine, quando parla delle “due grandi questioni che ne scaturiscono – 1) come faccio a obbedire a un compito che Dio mi dà se non mi sento pronto? e 2) di che tipo di padre, di guida ha bisogno la nostra società?”, le chiedo, ma è sicuro che l’autore si ponesse davvero queste questioni? Ma se così non fosse, le chiedo ancora, ha senso subissare di “soggettivismi” (che possiamo chiamare come ci piace) l’opera di un’artista e non accettare di avvicinarci a questa con la giusta dose di umiltà e di ferocia critica che si conviene a chi scrive su degli spazi pubblici? Si offende se cito il Giornale e Libero, ma non crede di essere offensivo oltremodo quando parla di “nuovo cinema paraculo”?
    P.S.
    Si risparmi le critiche grammaticali, ortografiche e sintattiche, scrivo di getto da un PC e di mestiere non faccio il blogger o lo scrittore!

  43. Mi perdoni la stilettata da professorino. Ma come tengo a non esser confuso con la beceraggine di Libero, ci tengo anche alla grammatica. Po’ e non pò.
    È vero che facevo critica estetica, o chiamavo a farla chi è più titolato di me. Le intenzioni di Moretti io le ho trovate semplicemente molto più ambiziose del risultato. E qui per me non si tratta di dire “quello che il film poteva essere”, ma di discutere la poetica di un regista e i suoi mezzi. Le inquadrature, la fotografia, il sonoro per me rispecchiavano molto un’idea di cinema che Moretti persegue da molti anni e che però oggi – in un contesto sociale e artistico molto mutato – rischia di essere inadeguata, discutibile, conservatrice. Rischia insomma di essere un regista che non è saputo crescere, mettersi in discussione da un punto di vista artistico. Questa è la critica che gli muovo sullo stile. Poi, mi interessava anche molto parlare del pubblico di Moretti, cioè di me e forse di noi.

  44. crescere è sia intransitivo e che transitivo. ma, come è ovvio, più intransitivo.

  45. ciao raimo ( ne approfitto per dirti che tempo fa ho lette le tue due raccolte di racconti, per farti i complimenti ), il film mi è piaciuto, pure se non mi ha entusiasmato. di moretti mi pare d’aver visto tutto, a parte i corti, ma questo è stato il primo che ho visto al cinema ( in realtà anche caro diario, ma ero piccolo e mi portò mio padre d’estate ). con il tempo meno moretti fa se stesso e più si presenta come personaggio nel film meglio è, da questo punto di vista nel secondo tempo si gioca a pallavolo e scorre tutto. è vero che da una parte visti i primi minuti e gli ultimi, qui la musica però si sente, ispirata a arvo pa(e)rt all’inizio e direttamente citata alla fine ( miserere ), i migliori dunque, quello che passa in mezzo stona, manifesta un’indecisione, si sottrae anche lui al suo compito forse, ma è scontato dirlo. Ma direi chè è la sua cifra; per esempio il finale del caimano, come forza scenica è quasi ridicolo, i petardi davanti alle procure, i fuocherelli ecc. però va bene, tanto che sarebbe cambiato girato come fosse armageddon? invece in “sogni d’oro” la scena a tavola, con i due fratelli apprendisti presenti, quando Michele prende a colpire la madre, a me ha sempre messo un disagio profondissimo addosso. Quindi sì, anche la scena della fuga del papa, non è credibile nel suo dramma, però penso anche che in fondo ma perché mai dovrebbe essere una cosa così grave? L’assurdità della chiesa sta in questo appunto.

    comunque se parli del pubblico di moretti mi fa piacere, io sono giovane quindi tutta la fase gruppi di autocoscienza l’ho vista sempre con un occhio perplesso ( a dire che prima non sapevo se si stava inventando tutto o meno ) però ormai mi sono affezionato ai suoi film, e le sue battute che restano sono il meno.

    Molte minuscole poi sono passato a word

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Autore

fandzu@gmail.com

Christian Raimo (1975) è nato a Roma, dove vive e insegna. Ha pubblicato per minimum fax le raccolte di racconti Latte (2001), Dov'eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004) e Le persone, soltanto le persone (2014). Insieme a Francesco Pacifico, Nicola Lagioia e Francesco Longo - sotto lo pseudonimo collettivo di Babette Factory - ha pubblicato il romanzo 2005 dopo Cristo (Einaudi Stile Libero, 2005). Ha anche scritto il libro per bambini La solita storia di animali? (Mup, 2006) illustrato dal collettivo Serpe in seno. È un redattore di minima&moralia e Internazionale. Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia (Supercoralli) e nel 2015 Tranquillo prof, la richiamo io (L'Arcipelago). È fra gli autori di Figuracce (Einaudi Stile Libero 2014).

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