Scrivere film: intervista a Fabio Bonifacci

di Fabio Marchioni

Fabio Bonifacci ha scritto oltre trenta film, molti dei quali di grande successo. Tra i titoli più apprezzati Si può fare, Lezioni di cioccolato, Mio fratello rincorre i dinosauri, E allora mambo. Nel 2020 ha pubblicato con l’editore Solferino il suo primo romanzo, Il giro della verità, da cui è stata tratta la serie Rai Vivere non è un gioco da ragazzi, trasmessa nel maggio 2023.  Bonifacci, classe 1962, è nato e cresciuto alla Barca, un quartiere popolare di Bologna, figlio di genitori provenienti dall’Appennino. Nel 2009 ha pubblicato sul suo sito Scrivilo ancora, Sam, un corso gratuito di scrittura creativa seguito da oltre 10.000 persone. Attualmente è in sala con L’ultima volta che siamo stati bambini, opera di esordio alla regia di Claudio Bisio di cui ha curato la sceneggiatura. Il film, tratto dall’omonima opera letteraria di Fabio Bartolomei, racconta il rastrellamento degli ebrei dal ghetto di Roma visto con gli occhi di quattro giovani amici, costretti a confrontarsi con gli orrori della guerra. L’uscita al cinema del film ci ha permesso di incontrarlo per rivolgergli alcune domande sul suo lavoro e sulla sua grande passione per la scrittura.

Quando hai deciso che avresti voluto vivere di scrittura?

Io ho sempre avuto il desiderio di scrivere, fin da bambino. Al momento della scelta della scuola superiore tutti mi spingevano verso liceo classico ma io, da montanaro testardo, ho preferito la concretezza dell’istituto per geometri ai voli pindarici del greco e del latino. Durante il passaggio dalla giovinezza all’età adulta ho definitivamente compreso che la scrittura sarebbe stata il mio futuro. Prima del cinema, le ho provate tutte. Avrei voluto scrivere romanzi, è la forma narrativa che preferisco, ma ho capito, quasi subito, che con i libri avrei rischiato di avere le tasche perennemente vuote. Il lavoro per il cinema mi ha portato a guadagnare piuttosto bene; quindi, è stata una scelta quasi naturale. Prima avevo tentato di fare il pubblicitario, il giornalista, tutte attività che non mi dispiacevano, però la mia vocazione sono sempre state le storie inventate. Se in cronaca gli eventi prendevano direzioni divergenti dal mio immaginario, ero colto dall’irresistibile tentazione di aggiustarli. Un’attitudine non proprio adatta a chi deve raccontare fatti.

Come sono organizzate le tue giornate?

Le mie giornate sono scandite, come quelle di tutti, dal lavoro. Mi sveglio di buon’ora la mattina, scrivo fino al momento del pranzo, spesso mi concedo una breve pennichella e poi ricomincio, fino a sera. Quando la storia è ancora tutta da inventare sono meno produttivo, mi distraggo molto sui social e leggo compulsivamente le notizie provenienti dai conflitti in giro per il mondo. In questa fase scrivere è come tracciare una strada nel deserto, senza punti di orientamento. L’unica possibilità è avanzare tra continui errori e tentativi, compiendo giri larghi quasi senza meta.  Ogni volta lo stesso copione emotivo: l’ansia mi assale e l’impresa mi sembra più grande di me, destinata al fallimento. Poi, a poco a poco, entro nella profondità della vicenda, lo sguardo si fa nitido e aumenta la concentrazione. La scrittura mi assorbe completamente. A quel punto mi scollego dal mondo, smetto di leggere commenti e notizie, non rispondo a nessuno salvo ai familiari stretti per ragioni di necessità. Lavoro al mattino, al pomeriggio, alla sera fino a notte fonda, ossessionato da un chiodo fisso che non ammette interruzioni. Quando si verificano queste condizioni ho finalmente trovato la vena creativa e, soprattutto, l’entusiasmo verso che ciò che sto scrivendo. La mia organizzazione quotidiana risente di questo andamento altalenante, fra scoramento ed esaltazione.

In alcune occasioni hai detto che, per rimanere fedeli a un romanzo da cui si trae un film, è necessario tradirlo. Cosa intendi?

È soprattutto una questione metrica: non si può filmare tutto ciò che c’è in un romanzo, diventerebbe lunghissimo, vanno fatte delle scelte. Poi le vicende del libro vanno adattate al linguaggio cinematografico: non tutti gli elementi narrativi funzionano in sala. Tanto per limitarsi ad un capolavoro, Proust nel La Recherche dedica cinquanta pagine al protagonista che sta per prendere sonno: al cinema ad addormentarsi, o a fuggire a gambe levate, sarebbero gli spettatori. La trasposizione sullo schermo implica riduzioni che non sono semplici tagli: se di dieci elementi ne elimini nove, nell’unico rimasto devi inserire qualcosa che evochi ciò che hai tagliato. Molto spesso, al termine del lavoro, sceneggiatura e romanzo divergono però, se l’adattamento funziona, dell’opera originale restano lo spirito e le emozioni di fondo. Gli eventi divergenti passano in secondo piano, sopraffatti dalla fedeltà sostanziale all’originale. A livello di scrittura, è quasi più impegnativo adattare una storia esistente che partire da zero.

Quali sono gli sceneggiatori che apprezzi di più?

Quasi nessuno presta particolare attenzione agli sceneggiatori, neppure noi addetti ai lavori che, spesso, ci dimentichiamo di chi abbia scritto cosa. Da giovane facevo un esercizio, molto faticoso e utile. Guardavo più volte in videocassetta a velocità rallentata i film che amavo di più, al fine di ricostruire su carta la sceneggiatura, in modo inverso a ciò che succede al cinema. Cercavo di rispondere a una domanda fondamentale: come è stata scritta quella scena che mi ha colpito così tanto? Se elenco i film su cui ho lavorato in questo modo, si deducono facilmente i miei sceneggiatori di riferimento. I collaboratori di Monicelli, di cui ho amato profondamente La grande guerra e I soliti ignoti, poi quelli di Sergio Leone che hanno scritto C’era una volta in America, uno dei miei film preferiti. E ancora David Mamet e Billy Wilder. I film sono come le canzoni: quelli che ti incontrano giovane restano di più, lasciano un’impronta più profonda. A vent’anni, all’apice della passione cinematografica e dell’energia vitale, l’impatto emotivo è indimenticabile.

Per scrivere L’ultima volta che siamo stati bambini ti sei confrontato spesso con Bartolomei, l’autore del romanzo?

Io Bartolomei non l’ho mai visto, però so che è contento del film, un aspetto a cui tengo molto. Però con lui, in fase di scrittura, non ho mai parlato e non è la prima volta che mi capita. Di solito, dopo l’acquisto dei diritti sul testo io mi confronto direttamente con il regista. In alcune occasioni mi è capitato di chiacchierare con l’autore del testo che stavo riscrivendo ma non in questo caso, era troppa la distanza fisica che mi divideva dall’autore: io a Bologna e lui a Roma.

Tu hai firmato più di 30 sceneggiature e una sola regia, Loro chi?, girato insieme a Francesco Miccichè. Ti è piaciuto fare il regista?

Dopo una settimana di lavorazione, io dicevo a tutte le persone presenti sul set che stavo girando due film in uno: il primo e l’ultimo della mia carriera. C’è poco da fare, io preferisco la scrittura. Ho voluto provare a fare il regista, trascinato da diversi colleghi sceneggiatori entusiasti del passaggio dietro la macchina da presa. Non posso dire che non mi sia piaciuto per niente, tutt’altro, però non è il mio mestiere. Amici a parte, c’è un secondo motivo per cui ho tentato la regia: volevo mettere in scena una storia nel modo esatto in cui io l’avevo pensata. Il film che lo spettatore vede in sala è, ovviamente, diverso da quello che ha in testa lo sceneggiatore. In mezzo c’è il regista, dotato di un proprio sguardo e di una personale sensibilità artistica. È sacrosanto che sia così. Del resto, la sceneggiatura contiene solo una parte di ciò che si vede, dove mettere la macchina da presa, la direzione degli attori e la scenografia sono scelte di pertinenza Di chi gira. Ecco, per una volta volevo provare ad assottigliare l’intermediazione esterna, curioso del risultato finale. Al termine delle riprese ho capito che, anche quando lo sceneggiatore e il regista sono la stessa persona, fra immaginazione e girato resta una grande distanza. La luce, le condizioni meteo, lo stato di grazia degli attori si allontanano dall’immaginazione di chi ha creato la storia in modo imperscrutabile, quasi come se il film fosse stato girato da un’altra persona. Meglio tornare a scrivere e a immaginare.

Perché non ti sei mai trasferito a Roma? Non è più difficile lavorar per il cinema da Bologna?

È stato difficilissimo, probabilmente ho accumulato dieci anni di ritardo, ostinandomi a farlo da Bologna. Da Roma avrei potuto fare più cose. Il mondo del cinema è un mondo di relazioni, di conoscenze: lo dico in senso buono, senza retropensieri negativi. Un soggetto cinematografico, inviato da uno sconosciuto a un produttore, riceve meno attenzioni di una storia equivalente, però scritta da qualcuno conosciuto di persona. Questa la ragione principale per cui Io ho impiegato più tempo ad affermarmi. Dopo aver scritto diverse opere ho scoperto che le persone si chiedevano spesso chi fosse questo Bonifacci che non si vedeva mai in giro. Ero diverso da chi, per fare cinema, aveva scelto di trasferirsi nella capitale. In seguito, questa alterità, forse, mi ha persino favorito, conferendomi un certo fascino. Io non vivo a Roma a causa di un tentativo giovanile finito male: prima dei trent’ anni ci avevo vissuto per circa un anno, senza che la città eterna mi seducesse del tutto. In otto mesi ho dato fondo ai risparmi che avevo accantonato per provare a inserirmi nel mondo dello spettacolo e sono tornato a casa con le pive nel sacco e un po’ di soldi in meno. Dopo molti anni, quando sono riuscito finalmente a lavorare con continuità, sono rimasto a Bologna. Per scelta.

Dopo i primi, complicati approcci al cinema, come sei riuscito a scrivere E allora mambo, la tua sceneggiatura d’esordio?

Ero alla decima sceneggiatura, le precedenti nove erano rimaste invendute: mi sentivo un caso sociale e, cosa ancora peggiore, temo che anche dall’esterno mi vedessero sotto questa luce.  In realtà riuscii a vendere E allora mambo, poco dopo averlo concluso, a dei piccoli produttori di Roma, innamorati del progetto ma, evidentemente, incapaci di trovare i soldi necessari alla realizzazione del film. Per un anno e mezzo questa sceneggiatura vagò per uffici, alla disperata ricerca di finanziatori. Nel frattempo, io avevo iniziato a fare l’autore televisivo, assistito da Beppe Caschetto, un agente specializzato sul piccolo schermo. Beppe mi ha accolto sotto la sua ala, proponendomi a destra e a manca come autore, peraltro facendolo in modo estremamente efficace. Per essere più chiari, mi ha salvato la carriera. Per tre, quattro anni ho resistito a fare l’autore, scrivendo trasmissioni e programmi di successo.

In quel periodo ho imparato molte cose, senza però che scattasse mai la scintilla capace di far divampare la passione: la TV mi dava da vivere, era servita a rimettere in sesto le mie finanze però non era abbastanza. Sulla linea del mio orizzonte rimanevano le storie. Dopo qualche anno, illuminato da uno sprazzo di genialità, ho chiesto allo stesso Caschetto di piazzare la sceneggiatura inutilizzata. Lui l’ha letta e apprezzata, arrivando a offrirsi come produttore, sebbene non lo avesse mai fatto prima. Inizialmente sono rimasto perplesso, convinto che si trattasse di una vanteria, di una frase scappata sul momento. Invece Beppe era serio e determinato: ha prodotto E allora mambo che ha guadagnato bene, consentendo un futuro al sottoscritto. Io sono arrivato al cinema vendendo due volte un film prodotto da un bolognese che faceva un altro mestiere. Di sicuro un esordio atipico.

Quanto sei legato alla tua città?

Io sono nato, cresciuto e vivo a Bologna, ne respiro l’aria e il clima sociale da tutta la vita, una città in cui mi sono sempre trovato a mio agio. In realtà però c’è un altro luogo, piccolissimo, di cui mi sento parte: sta sull’Appennino, si chiama Monteacuto Ragazza, una minuscola frazione del comune di Grizzana Morandi. È il luogo da cui provengono entrambi i miei genitori. Io, fino all’età adulta, ci tornavo tutti i fine settimana, per le vacanze di Pasqua e Natale e per le interminabili vacanze estive, trascorse a casa della nonna. Praticamente ci passavo sei mesi all’anno. Una volta cresciuto ho continuato a frequentarlo con regolarità, qualche volta con fidanzate che non gradivano e che, proprio per questo, uscivano presto di scena. Un luogo che ha inciso molto sulla mia creatività e sul mio mestiere, almeno da due diversi punti di vista. In montagna ho conosciuto, fra i coetanei dei nonni, persone molto dotate nell’arte del racconto, capaci di lasciarmi qualcosa, spesso in modo inconsapevole.

Del resto un tempo la narrazione era come il canto e il ballo: un patrimonio diffuso di cui molti erano provvisti. La TV non esisteva, la radio costava troppo e le fiction venivano autoprodotte: ognuno raccontava una storia, magari calcando su qualche elemento particolarmente efficace e le serate trascorrevano così. Il secondo influsso che ho ricevuto dall’Appennino è sociologico: osservare uno stesso paese per 60 anni è stato prezioso, una sorta di piccolo campione statistico di umanità e di vita. I cambiamenti osservati nella minuscola comunità di Monteacuto mi hanno permesso di comprendere dinamiche molto più vaste e generali. Peraltro, negli ultimi anni sto assistendo all’arrivo di nuovi abitanti: giovani coppie, artisti, smart workers. Persone, inizialmente attratte dai costi più accessibili delle abitazioni, che si innamorano dei luoghi e costruiscono legami. Io credo, al contrario di quanto si dice e si scrive da anni, che questi paesi abbiano un futuro, magari favorito proprio dal sovraffollamento dei grandi centri metropolitani. In questa fase, io stesso sarei tentato di andare a viverci stabilmente. Al momento non si tratta di un vero e proprio progetto, le mie figlie non sono ancora abbastanza grandi, ma chissà. Adoro andare per boschi a raccogliere funghi, da lì lo potrei fare con maggiore regolarità. E poi l’orto, altra grande passione. Vorrei coltivarne uno, ho pure provato a farlo nel weekend, ma con risultati pessimi. L’appuntamento con un raccolto abbondante, per ora, è rimandato, ma sono certo che arriverà.

Secondo te, in un mondo che cambia a velocità supersonica, c’è ancora spazio per chi vuole fare della scrittura un mestiere?

Sì, da certi punti di vista anche più di un tempo, però in condizioni mutate e sicuramente più complesse. Un giornalista free lance in passato riusciva a guadagnare più che decentemente, adesso si fatica di più; stessa cosa nel settore pubblicitario. La scrittura servirà sempre, il problema è quanto è pagata e da chi. Internet ha cambiato tutto, abituando le persone ai contenuti gratuiti, tutti lavoriamo un po’ gratis per internet. Io, quando scrivo un post su facebook, non sono pagato da nessuno eppure, più o meno, faccio quello che mi dà da vivere. Ai giovani che vogliono scrivere suggerisco di studiare bene le tecniche di scrittura, sicuramente importanti, ma di non limitarsi agli strumenti tradizionali. È necessario approfondire le dinamiche economiche che stanno dietro le attività creative. Io all’epoca lo feci, ero interessato soprattutto a sceneggiature e romanzi, feci uno studio che mi permise di comprendere che con i romanzi avrei fatto fatica a mantenermi. Di lì la scelta di buttarmi sulle sceneggiature che rappresentavano il compromesso migliore, in grado di unire il piacere della scrittura alla possibilità di costruirmi un futuro lavorativo. La sceneggiatura ha avuto momenti di grande crisi, momenti di grande redditività, momenti di crisi e redditività insieme. Negli ultimi anni la sala non andava bene però sono esplose le produzioni da piattaforma. Cosa avverrà in futuro? È lì che bisogna aguzzare la vista e l’ingegno. Cercare di intuire dove va il mondo e posizionarsi di conseguenza, alla luce dei propri desideri, capacità e inclinazioni. Di sicuro non basta più essere capaci di scrivere e attendere gli eventi con fatalismo. Se vuoi che la scrittura diventi un mestiere, una strategia è necessaria.

Che rapporto hai con i festival cinematografici. Li frequenti? Credi che siano utili per il tuo lavoro?

Io non sono mai stato un gran frequentatore di festival, ci vado raramente. A me interessa di più la realtà. Preferisco parlare, per usare un termine giornalistico, con le fonti primarie. Come diceva Zavattini, gli sceneggiatori dovrebbero andare sempre in autobus. L’importante è mantenere il contatto con le persone reali, meglio se molto diverse fra loro. Se vai a stare a Roma ti infili in una bolla affascinante, gremita di persone interessanti ma lontana dalle persone reali che, spesso, finiscono nelle storie che scrivo. Se inserisco un artigiano in un film conosco, almeno a grandi linee, le sue problematiche esistenziali perché ci ho passato molto tempo insieme al bar. Io, avendo vissuto per anni alla periferia di Bologna, nel quartiere Barca, e frequentando la montagna, ho sentito un sacco di storie comuni che poi sono finite nei film, al limite come semplici dettagli.

Che fine farà la sala cinematografica?

Azzardare previsioni è impossibile, sono anni che qualcuno decreta l’imminente morte della sala, eppure a dispetto di tutti e tutti, i cinema resistono, proprio come il mio paese sull’Appennino, Monteacuto, che si sta ripopolando in modi nuovi e inaspettati. Sulle piattaforme sono disponibili migliaia di film su tv sempre più grandi, eppure i cinema resistono ancora. In Italia con qualche difficoltà in più rispetto ad altri paesi, dove siamo abbondantemente tornati ai livelli pre-covid. La sala ha una intrinseca capacità di resistenza che andrebbe incentivata, attraendo spettatori in ogni modo possibile, con pensieri e iniziative innovative o dimenticate. Tanto per fare un esempio lascerei, a chi vuole, la possibilità di fare il dibattito dopo la proiezione, una esperienza evidentemente impossibile nel proprio salotto, al massimo ti confronti con i familiari. In passato si diceva che sarebbero finiti i libri, il teatro, eppure queste forme espressive ci sono ancora. C’è chi sta meglio e chi peggio però esiste ancora tutto. Rompo la prudenza iniziale e mi lancio: la sala sopravviverà al futuro.

Ci puoi anticipare qualcosa dei prossimi lavori?

In questo periodo sono in fase di post-produzione due film scritti da me: Succede anche nelle migliori famiglie di Alessandro Siani, che uscirà il primo gennaio del 2024, e il nuovo lavoro di Volfango de Biasi che sarà su Netflix nei prossimi mesi. Inoltre, sebbene a uno stadio molto più embrionale, sto lavorando anche a un progetto che dovrebbe essere ambientato sull’Appennino bolognese, a poca distanza da Monteacuto, il paese delle mie origini. Se andasse in porto, ma le incognite sono ancora molte, sarebbe un cerchio che si chiude nel punto stesso in cui tutto è iniziato, un altro piccolo grande sogno che si realizza.

 

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