Sick of myself: sangue, specchi e Lidexol
di Alice Sagrati
Una donna viene assalita violentemente da un cane, perde brandelli di carne insanguinati, si accascia a terra all’entrata di un bar, urlando. Signe, la barista, si avvicina per soccorrerla, è scossa, ma cerca di tamponare le ferite, mentre in sottofondo si sente l’arrivo di un’ambulanza. Con la divisa ancora sporca di sangue, Signe inizia a vagare per le strade di Oslo e si accorge che gli sguardi si posano su di lei, le chiedono se va tutto bene, se ha bisogno di aiuto. Arrivata a casa si fa soccorrere dal fidanzato, Thomas, e inizia a raccontare confusamente l’episodio, modificandolo: adesso il cane ha attaccato anche lei, non sa se è ferita, ma sta male, molto male. Signe mentre racconta, inizia a capire che le ferite sul suo corpo possono essere un nuovo modo per essere guardata.
Sick of myself di Kristoffer Borgli, presentato in anteprima nella sezione Un Certain Regard al 75 Festival di Cannes, è la storia di una potenziale Barbie stereotipo e del suo Ken, totalmente immersi nella schizofrenia della società contemporanea.
Signe ha trent’anni, porta un taglio corto ma non un caschetto, liberata dalle eterne Amélie, la protagonista porta la nevrosi di Claire di Fleabag: ha il viso sempre corrugato e un’intensa mania di mentire su tutto per far convergere gli sguardi su di lei e distoglierli dal suo compagno, Thomas. Lui, narcisista come lei, è un artista contemporaneo in ascesa, le sue performance si basano sulla ricontestualizzazione di oggetti di design rubati, e la loro relazione è raccontata attraverso la mondanità che vivono. In una delle prime scene li vediamo seduti in un ristorante molto costoso, discutendo quale bottiglia di champagne ordinare, per poi scappare a gambe levate senza pagarla. E il senso del film è già tutto qui: Signe e Thomas sono degli impostori, si narrano una vita che non vivono, e sembra che tutto il resto del mondo ne sia consapevole, tranne loro.
Signe decide di spingersi oltre, non sopportando il suo ruolo di subordinazione a Thomas, decide di andare dal suo spacciatore di fiducia e ordinare del Lidexol, un farmaco che come effetto collaterale crea irritazioni cutanee, sfoghi, fino a malattie della pelle irreversibili. L’abuso di questo farmaco la farà svenire alla fermata dell’autobus, le farà tremare le gambe, fin quando il suo viso esploderà in una reazione spaventosa, non più instagrammabile.
Signe si induce una malattia che pensa possa renderla indimenticabile, mente su tutto e a tutti perché stare al centro dell’attenzione sembra l’unico modo di esistere. C’è un momento nel libro di Irene Graziosi, Il profilo dell’altra, in cui una delle due protagoniste pensa proprio questo, “se magari si esiste solo se c’è qualcuno che ci vede”. Ma cosa vuol dire vedere? Essere rappresentati? La rappresentazione di sé stessi e degli altri sembra una perenne modifica della realtà attraverso il filtro di quello che immagini gli altri vogliono da te e infatti la protagonista non fa altro che immaginarsi un futuro in cui è validata dagli occhi altrui. Una scalata verso il successo, in cui tutti vogliono sapere cosa pensa e provano a imitarla. L’imitazione stessa però diventa un’idea distorta: non sei più la tua immagine, ma non sei neanche la tua storia perché la tua narrazione è passata attraverso un filo di filtri, come in un antico gioco del telefono, nel quale si passa da una parola e si finisce con un’altra, anche Signe non riesce più a capire come è iniziata la sua catena di bugie ma sa che non potrà finire. Nessuno si preoccupa per lei, qualcuno capisce che sta mentendo, ma gli amici e il fidanzato non fanno nient’altro che subire le sue smanie di protagonismo in cene o feste mondane di facciata, Sick of myself finisce per raccontare una storia sulla solitudine e sull’impossibilità di instaurare legami in una società di specchi.
Il film conserva un dark humor che ci permette di ridere della tragedia di esistere, ma si mostra attraverso il body horror, una strana unione tra un film di Cronenberg e una puntata di Bojack Horseman. Un film che non sarebbe stato pensabile fino a un decennio fa, si rivela intrinsecamente contemporaneo e non ipocrita, supera la narrazione di autocommiserazione borghese de La persona peggiore del mondo e non fa sconti a nessuno: i personaggi sono miserabili, disperati, spersi e lo sono senza una causa esplicita. Essere vivi sembra essere una condizione abbastanza solida per soffrire e mi fa pensare a un passo di un libro appena uscito in italia per Adelphi, L’ultima cosa bella sulla faccia della terra scritto da Michel Bible: “deve esserci qualcosa che mi ha mandato fuori strada. Un padre violento, una madre assente. O forse sono un innamorato respinto che cerca vendetta. Magari direte che è colpa della vostra società. Di tutta quella codeina che mi bevevo o dei film violenti. O delle mie idee politiche. Ma non è niente di tutto questo. O tutte queste cose insieme. Volete sapere perché ho fatto quello che ho fatto? Sarebbe come prendere un po’ di acqua fra le mani e chiedersi se è fiume o pioggia”.
Le motivazioni dietro alle azioni dei personaggi diventano innecessarie, la costruzione in profondità sembra essere superata da una frammentazione e una dispersione permanente. Il movimento è sempre verso l’esterno e non più verso l’interno, non è più un cinema di scoperta del proprio sé perché il sé è l’unico argomento, esaurito e teso come un filo che sta per rompersi. C’è una sostituzione tra dentro e fuori, ma non in un senso politico, in cui, appunto, il personale diventa politico in un processo di autocoscienza collettiva e militante, il personale diventa simulacro di individualismo e vittimismo. L’identità della protagonista sembra essere definita da condizioni e non da caratteristiche, il suo unico interesse è prolungare il più possibile i famosi 15 minuti di celebrità di cui parlava Andy Warhol, ma cosa si finisce per celebrare? se il gesto non è politico e la protagonista non ha neanche nessun tipo di ambizione né affettiva né lavorativa, ciò che vuol far stare al centro non è più un significato che porta, ma un contenente, una rincorsa disarmante all’insignificante.
Durante tutto il film vediamo molti flashforward di possibili futuri, in uno lei diventa una scrittrice famosa, grazie alla sua fondamentale testimonianza sulla sua malattia, in un’altra fantasia diventa una top model, ricchissima diva e ambassador della diversità. Il suo ruolo è quello della vittima che può liberarsi solo attraverso un riscatto pubblico, non sembra esserci valore in una vita che non produce successo, immagine e notorietà. Signe esiste solo se produce qualcosa, mentre l’unica cosa che dovrebbe fare è sparire, non lasciare traccia, disinnescare quella corsa.
Il film stesso ha prodotto, in un certo senso, una campagna pubblicitaria che reitera quello che critica, le immagini di Sick of myself sembrano perfette per i reels di Instagram e Tik Tok: Signe con il viso bendato e una sigaretta accesa, un’icona del disagio contemporaneo. È come se anche le forme d’arte fossero intrappolate nelle loro stesse narrazioni perché s’inseriscono nel mercato che produce le idiosincrasie che fanno nascere questi film. Non solo Signe, quindi, ma forse tutti noi, dovremmo semplicemente smettere di produrre, lasciarci tutto alle spalle, senza ricominciare nulla, solo facendoci cullare da quello che resta.