The Whale o dell’amore

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di Giancarlo Liviano D’Arcangelo

Qualsiasi cosa si provi alla fine dei suoi centodiciassette minuti, The Whale di Darren Aronofsky è una delle esperienze di visione più intense di questa stagione cinematografica. Un’intensità fisica, energetica, irradiante. E se, come spiega la Treccani, l’intensità è il rapporto tra la potenza che fluisce attraverso un elemento e l’area di tale elemento, è facile capire il perché.

L’intera vicenda di The Whale si svolge in appena una stanza che a sua volta ospita soprattutto un corpo, smisurato, che si dilata al punto da inglobarne metaforicamente altri, corpi che a loro volta inglobano e costringono anime abissali, fatte di spaccature e sofferenze intricate come i fili di un gomitolo. In questo gioco di matrioske che ambiscono naturalmente a una deflagrazione liberatrice, l’obesità del protagonista, Charlie, professore di inglese di trecento chili che si vergogna anche di mostrare la sua immagine ai suoi studenti in videochiamata, è la condizione potenziale di ciascuno di noi divenuto adulto. È uno stato psichico collettivo, umano, ancor prima che corporeo, specchio dall’altra forma di obesità insopportabile del nostro tempo, l’obesità del mondo circostante divenuto per noi così vasto da risultare inintelligibile. Obesità delle informazioni disponibili, obesità della merce, obesità incontrollabile degli apparati di potere. Obesità intesa come impossibilità del controllo.

Charlie non esce mai di casa, teme il mondo esterno e il mondo esterno lo rifiuta. Ma sarebbe troppo facile – e in disarmonia con i sostrati verticali del film – leggere il disgusto, sentimento spesso evocato dal protagonista, come un semplice disgusto da body- shaming. Si tratta più di un disgusto atavico del prossimo nostro verso la sofferenza, verso l’incapacità di essere felici, immersi come siamo in uno spirito del tempo che istiga ad abolire l’infelicità o, almeno, a tenerla segreta.

In tal senso l’obesità di Charlie è patologica. È lì, sempre in mostra, l’imperfezione eclatante che si rivela prima come spada di Damocle sul circolo ristretto degli affetti primari, e poi, una volta accettata, si diffonde all’esterno come rivendicazione di autentica e forse unica condizione possibile.

Ma è ancora pensabile, nel cinema odierno che fatica in sala e avverte la pressione conformistica delle piattaforme, unire la volontà di indagare l’umano in verticale all’ambizione di parlare al vasto pubblico? Aronofsky è uno degli autori che ancora vi riesce, e The Whale, come in passato The Wrestler, celebra l’impresa tutt’altro che semplice di riunire nel discorso drammaturgico tre caratteristiche oggi necessarie per conservare un posto di rilievo nella riserva protetta di quelle opere che non possono fare a meno di sfuggire alla logica dell’usa e getta e (provare a) raccontare l’uomo e il suo abisso con una pretesa di complessità pari a quella della realtà. Senza rimasticarla, senza il bisogno di rimuoverne complessità e ferocia, senza l’incarico di depotenziarla con smorfie e tinte dai toni pastello.

The Whale, opera complessa, costringe in primo luogo a una totale immersione nel mondo filmico, nel cronotopo del film. In The Whale il transfer è immersivo dal primo secondo fino all’ultimo, e la ragione non è tanto nella potenza della trama, esile, o nell’incedere della vicenda, ma dipende dal fatto che la condizione del protagonista, interpretato dal magnifico Brendan Fraser, è archetipica. Aronofsky mette in scena un uomo che ogni giorno combatte con i temi profondissimi e sostanziali della vita e lo fa, come spesso accade nella filmografia del regista (come in The Wrestler, in Requiem for a Dream, ne Il Cigno nero), a partire dal corpo, un luogo chiuso che il protagonista abita e che finiamo per abitare anche noi spettatori.

Il corpo di Charlie, letteralmente, si fa legno storto dell’umanità in cui si innestano tutti gli altri rami: il decadimento fisico e l’invecchiamento, la necessità di trovare l’equilibrio psicologico da mantenere, il bisogno di convivere e difendere la propria identità sessuale, la forza di sopportare la discriminazione, la voglia di sincerità, il proposito di gestire la fede e le dipendenze, il tentativo di dosare generosità ed egoismo nei rapporti intimi, il tutto sospinto dalla paura della morte.

In secondo luogo, The Whale ha la forza di coinvolgere gli spettatori sul piano emotivo grazie alla qualità delle prove attoriali: in tanti hanno spesso obiettato ad Aronofsky di provare ad agire slealmente sulle viscere dello spettatore e costringerlo a risposte emotive forzate attraverso una messa in scena ricattatoria. Ma a scongiurare il rischio, anche in The Whale concreto, di giocare sporco, diventano decisive l’onestà di fondo e soprattutto le prove attoriali, tutte eccelse. Non solo quella di Brendan Fraser ma anche quelle di Sadie Sink e Hong Chau. Lo stesso Aronofsky si sofferma molto sulla questione degli attori quando racconta la genesi del film, cominciato con un budget di ventimila mila euro sulla base dello spettacolo teatrale di Samuel D. Hunter. Per molto tempo Aronofsky ha continuato lo sviluppo del film senza alcuna idea di un risultato accettabile, a causa dell’assenza di un attore davvero convincente. Fino all’incontro risolutivo con Fraser, attore in difficoltà alle prese, negli ultimi anni, con traumi personali forieri di vera sofferenza, come la perdita di una persona cara e un caso di molestie sul lavoro, una sofferenza che è trasferita in toto nel personaggio. Da lì la scintilla. Dopo una prova con Sadie Sink in un piccolo a teatro a Manhattan, finita con un pianto collettivo, il cast era fatto. È questa la genesi speciale di un grande lavoro poi completato da Fraser con il visibile surplus d’impegno nello studio – ore e ore passate sui programmi dedicati all’obesità di Real Time – e di un’immedesimazione fisica probante legata alla difficoltà di recitare con il trucco prostatico per ore, sotto il caldo delle luci, esercizio che Fraser ha descritto come una vera e propria esperienza di liquefazione del corpo nel corpo, meritevole di un Oscar.

Infine, significativa è la capacità di The Whale di agire sul piano intellettuale e simbolico: possono essere molteplici, come accennato, le letture simboliche del film, ma la più letteraria, e dunque interessante per chi scrive, è il legame piuttosto esplicito con uno dei capolavori mondiali della letteratura, Moby Dick.

Nel personaggio di Charlie è contenuto tutto il senso del romanzo di Melville. In Moby Dick la balena, il capodoglio bianco, come spiega Pietro Citati nella sua lettura biblica del romanzo, è al tempo stesso sia il paradiso, ovvero il massimo della potenza creatrice di Dio, sia l’inferno, il massimo della furia distruttrice e autodistruttrice di Satana.

Charlie non è da meno. È l’incarnazione del desiderio di salvezza attraverso l’amore – l’uomo per lui è incapace di non amare. Ed è al tempo stesso, come Achab, il grande demone dell’ossessione, il nostro lato oscuro dominato dall’impulso dell’autodistruzione. Una convivenza irrisolta, e soprattutto contagiosa, che accompagna l’uomo fino al momento della svolta, che sia vera o apparente, epifanica o consolatoria. La svolta attraverso cui, come Charlie, capiamo che non ci sono altre salvezze al di fuori dagli attimi, più o meno lunghi o più o meno fugaci in una vita, in cui lasciamo che a guidare sia l’amore.

 

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