La lezione di Elden Ring
di Gianmaria Tammaro
Per qualcuno i film migliori sono quelli che ci costringono a confrontarci con la nostra pochezza e mediocrità; le serie migliori, invece, sono quelle che riescono a entrare nella nostra quotidianità senza imporsi e a raccontarci piccole verità sul mondo e su noi stessi. Poi ci sono i libri, che sono quasi universi a parte, enormi e allo stesso tempo minuscoli, fatti tanto di “io” quanto di “noi”, e se uno scrittore è bravo tutto quello che dice, o non dice, può suonare come la confessione di un amico.
Nei fumetti, esiste una dimensione terza, sospesa, di possibilità e immaginazione, di direzioni (quelle dei disegni) e di domande (quelle che sorgono quasi spontaneamente, subito dopo la fine di una tavola). Ma un buon videogioco, invece, che cos’è? L’insieme di meccaniche che funzionano, di una grafica piacevole e di una storia convincente? Oppure è tutto quello che rimane alla fine, dopo l’ultimo livello e l’ultimo boss? Può il voto di una recensione essere in grado di cogliere pienamente l’essenza di un buon videogioco? E può, poi, un buon videogioco essere raccontato sufficientemente come un film, un fumetto o un libro? Dove finisce la visione personale, del videogiocatore, e inizia quella analitica del commentatore?
Anche se in ogni videogioco è previsto un modo per arrivare alla fine, per – perdonate la banalizzazione – vincere, l’esperienza cambia a seconda del videogiocatore. E questo è un fatto. A volte, ci troviamo davanti a storie così lineari che risulta praticamente impossibile notare la differenza. Altre volte, invece, la somma delle ore passate giocando, delle cose scoperte, di quelle ignorate, delle note, degli oggetti e dei fallimenti possono dare al giocatore un altro tipo di esperienza.
Fin dal suo lancio, Dark Souls è stato etichettato come un gioco difficilissimo: perché non basta conoscere la prossima area o il prossimo nemico per poter andare avanti; è necessario diventare bravi. E mentre si diventa bravi, si imparano altri elementi. Si impara, per esempio, quella che è la lore – la storia – del mondo di gioco. Si acquisisce una certa dimestichezza con il mezzo e con i comandi; si capisce come misurare le distanze con i nemici, quando schivare, quando rimanere fermi, quando curarsi. Ma non è solo questo: c’è di più. Più di una settimana fa, From Software, che è lo studio che ha sviluppato i Souls (non c’è un solo capitolo), ha distribuito Elden Ring, la sua ultima creazione. E la morte in gioco ha assunto un nuovo significato. L’ha detto splendidamente Hidetaka Miyazaki, director di Elden Ring, in un’intervista pubblicata dal New Yorker: morire deve lasciare qualcosa al giocatore, una sorta di consapevolezza; non può essere l’ennesima sfida persa o una punizione. O almeno, ecco, non può essere unicamente questo.
Elden Ring è un gioco ampissimo, e in tanti, in questi mesi, ne hanno raccontato le caratteristiche principali. Si è parlato anche di voti, e dell’impossibilità, a volte, di assegnarne uno nei tempi ristretti richiesti da una recensione. Qualche giornalista (come Francesco Fossetti su Everyeye) ha deciso di aspettare. Ma il punto non è questo: non è la meccanicità della narrazione o la percezione, successiva, del titolo in sé. È quello che, giocando a Elden Ring, si può scoprire. E non mi sto riferendo banalmente alla storia dell’universo narrativo, alle varie classi, alla grafica o all’ambientazione. Elden Ring rappresenta l’ennesimo tassello di un’analisi molto più ampia, che nel corso di questi anni è diventata fondamentale e che, volenti o nolenti, ha finito per coinvolgere più persone, provenienti da più settori.
I videogiochi ben scritti non sono più un’eccezione, e così quelli pensati e “girati” come film. Con la scena di apertura di Death Stranding o con quella di Horizon Forbidden West al giocatore vengono consegnate non solo le chiavi dell’esperienza videoludica, ma pure quelle dell’impostazione – cinematografica – della regia e della narrazione. Un videogioco, oggi, non è più così facile da classificare e da analizzare come, forse, era qualche anno fa. E anche questo è decisamente un elemento da approfondire: il linguaggio non è cambiato nelle sue fondamenta, ma è migliorato e ha allargato i propri confini. Forse, non ha più senso cercare di limitare il racconto, inteso come critica, dei videogiochi. Una recensione, semplicemente, non è più sufficiente per esplorare tutti gli aspetti di – per esempio – Subnautica o di No Man’s Sky. Alcuni giornalisti, specialmente su testate straniere, hanno cominciato a tenere dei veri e propri diari per condividere con gli altri videogiocatori la loro esperienza.
Insomma, l’estemporaneità di una fotografia critica, scattata in un certo momento e in un certo modo, non basta più. Un videogioco non dura poche ore; finire un titolo o anche solo ricominciarne uno non è una cosa da poco; richiede tempo, concentrazione e dedizione. In alcuni casi, richiede tutte queste cose in una percentuale maggiore; in altri, invece, l’esperienza è ridotta, concentrata, inserita perfettamente in un arco temporale preciso e progettato con cura (per una scelta puramente artistica o anche per una questione di budget: dipende).
In Elden Ring, l’esperienza del giocatore cresce nel corso delle ore e dopo ogni morte; il fallimento non è una possibilità, è una certezza. Perché tutti, almeno una volta, soprattutto durante la prima run, sono costretti a tornare all’ultimo punto di salvataggio e a ricominciare. Ma, come ha detto Miyazaki, la morte in questo caso non coincide propriamente con il concetto di fine: è, semmai, un nuovo inizio. Può suonare come un esercizio retorico, e probabilmente lo è, ma la bellezza di questo tipo di giochi risiede proprio in quello che il giocatore è costretto a fare o a non fare dopo ogni morte. Per qualcuno, questo può essere decisamente frustrante, perché sembra un limite artificioso e minaccia, in qualche modo, la libertà del videogiocatore. In realtà, anche questo può essere un esercizio: provare a fruire di un prodotto con i tempi e i modi giusti; senza essere impazienti, senza voler forzare a tutti i costi l’andamento degli eventi e il susseguirsi delle interazioni.
La difficoltà dei Souls è strettamente intrecciata alla lore, ai dettagli, alla progressione – a volte lentissima – del racconto di gioco. C’è un sistema di livelli e di statistiche, e ci sono armi e oggetti da trovare, per migliorare. In Elden Ring, gli incantesimi hanno un altro peso. Ma la sensazione, tra la primissima ora di gioco e, per esempio, la quarantesima, è la stessa: siamo cresciuti; siamo andati avanti, abbiamo imparato, e abbiamo fatto tesoro delle nostre morti. Ogni nuovo boss è la somma, a modo suo, di tutto quello che l’ha preceduto. E in questo modo lo stesso videogioco, alla fine, si libera di determinate costrizioni e di specifici limiti. Però, e questo è un altro punto, possiamo sempre sbagliare, perdere e – in gioco – morire.
L’obiettivo è lo stesso per tutti. Ma è la strada che scegliamo per raggiungerlo l’aspetto più interessante. Con l’esperienza, cresce la familiarità. Diventiamo pratici, sappiamo dove ci troviamo, riusciamo a descrivere un nemico anche se l’abbiamo appena incontrato; il mistero, piano piano, arretra, si sfalda come un cumulo di neve fresca, e noi vediamo qualcos’altro.
Giocare a un gioco come Elden Ring è un ottimo modo per riflettere su quello che ho detto all’inizio; e cioè: come si descrive un buon videogioco? Cos’è, in definitiva, che fa di un titolo un titolo indimenticabile, da conservare, un’esperienza unica? Una buona risposta, non esaustiva, può essere questa: se impariamo dai nostri errori, se – di più – impariamo a convivere con essi, allora stiamo vivendo un’esperienza che non è fine a sé stessa, che non è inutile e che non si chiude come un cerchio alla sua conclusione; stiamo vivendo un’esperienza che vale tutti gli sbagli che abbiamo commesso e tutta la rabbia e la frustrazione che abbiamo provato. Un videogioco non è la vita, ma può, occasionalmente, aiutare a vedere la vita in un modo diverso, da un’altra prospettiva. Probabilmente per poco. Anzi, quasi sicuramente, per pochissimo. Ma sì, può succedere.
Sono sicuro che lei è un grande videogiocatore e che ha saputo apprezzare quest’opera appieno in quanto il rispetto che prova per questo immenso capolavoro traspare dalle sue parole. Tuttavia voglio sperare che lei abbia dovuto spendere così poche parole su un tema del genere visto dalla prospettiva di un’opera di queste proporzioni solo per questioni di spazio. Credo che il suo articolo abbia a malapena sfiorato la superficie della questione della morte, del tempo e dell’apprendimento, un vero peccato visto il materiale che quest’opera offre.