L’Arcipelago delle Zone Interdette

Giuseppe Stampone Saluti da L'Aquila (2010)

Questo pezzo è apparso su Artribune come quarta puntata di una serie di articoli dal titolo “Nuovi paesaggi urbani”. (Immagine: Giuseppe Stampone, Saluti da L’Aquila, 2010.)

L’Italia è punteggiata da Zone Interdette, Zone Rosse, Zone Proibite: oltre a L’Aquila, Taranto e l’Ilva, il cantiere TAV in Val di Susa, Lampedusa e i numerosissimi CIE sparsi per la Penisola.

Queste Zone, che disegnano un arcipelago, sono al tempo stesso la struttura del presente distopico italiano, e le microrealizzazioni in questo presente di uno dei futuri del nostro Paese e dell’Occidente. All’interno di questi spazi, un futuro precipita nel presente. L’Arcipelago delle Zone Interdette vive sovrapposto a quello delle microutopie, anch’esse concentrate nello spazio e nel tempo: i molti luoghi italiani in cui la cultura agisce per la trasformazione e non per la rimozione dei traumi, in cui la cultura ha avviato quei processi di ricostruzione dell’identità individuale e collettiva di cui abbiamo bisogno. Questi due esperimenti di futuro per il momento convivono: coesistono.

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Qual è il senso di questa interdizione? Che cosa significa realmente? Che cosa vuol dire proibire l’accesso a uno spazio, a una città, a una zona?

Vuol dire privare le persone, gli individui, i cittadini della possibilità di vivere quello spazio, di esperirlo: di integrarlo cioè nella propria vita e nella propria esperienza quotidiana.

Significa recidere la connessione tra quello spazio e l’esistenza collettiva; sbalzarlo e scalzarlo fuori dal flusso della realtà. Quel posto viene collocato in una dimensione altra, diversa: immobile e sospesa. Come ha scritto Tomaso Montanari a proposito de L’Aquila: «Il rischio è che qualcuno pensi di trasformarla in una specie di set cinematografico, o di Disneyland antiquariale, fatto di facciate e gusci pseudo-antichi che ospitano servizi turistici in mano a potenti holding. Si tratterebbe di fare a L’Aquila in un colpo solo ciò che un lento processo sta facendo a Venezia: deportare i cittadini in periferie abbrutenti e mettere a reddito centri monumentali progressivamente falsificati. Il paesaggio e il tessuto monumentale italiani non sono qualcosa di cui possiamo sbarazzarci impunemente. Sono la forma stessa della nostra convivenza, della nostra identità individuale e collettiva, del nostro progetto sul futuro» (L’Aquila Modello Disneyland, “Il Fatto Quotidiano”, 12 aprile 2012).

Nel momento in cui le Zone Interdette in Italia sono sempre di più, ecco che nel posto una volta conosciuto come “il Belpaese” questo Arcipelago distopico esiste e viaggia in parallelo con la diffusa percezione illusoria del presente da parte degli italiani, e al tempo stesso rappresenta la più fedele condensazione del presente e di uno dei futuri possibili. Nell’Arcipelago delle Zone Interdette, cioè, il presente italiano – liberato da tutti gli orpelli finzionali che caratterizzano gli altri contesti e le altre condizioni – rivela i suoi tratti più distintivi e radicali.

Non è un caso che tutte queste Zone subiscano prima o poi un processo di rimozione: lo stesso meccanismo che le sbalza fuori dalla realtà le esclude anche dallo sguardo collettivo, dalla percezione e dalla memoria. Così, i luoghi spazio-temporali che più degli altri racchiudono i segreti oscuri del presente italiano sono anche quelli che meno vengono conosciuti e riconosciuti.

Anche quando essi sono mostrati ed esibiti (nei tg, sui giornali), la visione è sempre estremamente convenzionale: obbedisce a un codice di rappresentazione molto vigile, viene mediato da un linguaggio immutato da almeno vent’anni, che non cambia mai e mai si discosta da quello che già sappiamo. Una certa visione delle macerie e del degrado; un certo modo di riprendere i “migranti” che vengono (o non vengono) salvati dalle onde; una certa angolazione sulle proteste, sul gioco delle parti tra poliziotti e manifestanti; e così via. Questa visione bloccata, paralizzata, traduce l’Interdizione fisica in una più immateriale, che pertiene al territorio della rappresentazione (e dello spettacolo).

In questo modo, la vita asfittica del Paese si riflette in un’interpretazione altrettanto asfittica, da cui la critica è costantemente bandita. (Non sono ammessi punti di vista alternativi; i problemi vengono considerati – se e quando ciò avviene – secondo un’unica prospettiva, in uno solo modo e in nessun altro; e diviene naturalmente impossibile risolverli in maniera inedita o dissolvere la loro stessa condizione di “problemi”; ecc.).

Dunque, lo stato comune (lo Stato) è sempre quello del sequestro: un sequestro collettivo, delle idee degli spazi dei luoghi, che incarna i fantasmi attitudinali della Nazione.

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L’Italia – in questo momento e da molto tempo – è percorsa da faglie, separate a loro volta da fratture che sono al tempo stesso che sono al tempo stesso materiali e immateriali, storiche e culturali. Che hanno a che fare con le infrastrutture e con i modi di vivere insieme, di costruire (o di distruggere) il senso di una comunità.

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