Nelle viscere della narrativa. Intervista a Stefano Pirone, fondatore di Pidgin Edizioni
di Mattia Grigolo
La prima volta che ho visto Stefano è stato durante una di quelle grosse fiere di libri che tutti sappiamo. Sedeva dietro lo stand, quasi nascosto dai libri della casa editrice che ha fondato, da borse di tela con il logo in bold serigrafato sul fronte, da segnalibri. L’avevo sempre e solo sentito via mail. È buffo: non sapevo esattamente che aspetto potesse avere.
A me ha ricordato Dylan Klebold. Cioè, non che ci sia alcuna somiglianza fisica in comune ma, allungando la destra verso di lui a presentarmi finalmente dal vivo, è stata la prima cosa che ho pensato.
Forse ho pensato che Stefano somigliasse a uno che può commettere un massacro in ambito scolastico. Leggendomi non ne sarà contento.
In seguito ci siamo sentiti diverse altre volte e ci siamo incontrati anche in contesti meno letterari.
Una sera a Lipsia, c’era Francesca, la sua compagna, e c’erano Dafne e Gabriel, due amici.
In quell’occasione abbiamo parlato di musica, di chitarre modificate e di hardcore punk, scena che entrambi abbiamo frequentato molto, seppur in emisferi italiani diametralmente opposti.
Un week end sono stato ospite a casa loro, a Napoli, abbiamo parlato della città, del quartiere dove vivono. Ha detto: Alexa, forza Napoli ed è partito un coro della Curva B.
Stefano è una di quelle persone che resta molto sulle sue, fatica a lasciarsi andare e, proprio per questo motivo, è anche una di quelle persone di cui non posso fare a meno di fidarmi. È uno strano gioco delle mie interiora emotive.
Dal 2017 porta avanti Pidgin Edizioni, casa editrice napoletana dalle tinte vagamente ‘fuori dalle righe’. Togliamo il vagamente.
Il catalogo conta due collane, Ruggine per la narrativa e Dissestazioni per il personal-essay, alternando traduzioni a opere di autrici e autori italiani.
Dopo la prima impressione – che generalmente è quella sbagliata perché siamo in un mondo zoppo, raso di doppisensi e fondamentalmente governato dal pregiudizio -, nella mia immaginazione, Stefano ha smesso di sembrare un omicida adolescente ed è diventato una persona con la quale mi piace parlare.
Quando gli ho chiesto se gli andasse di essere intervistato, immaginavo dove volevo arrivare, ma non quanto mi avrebbe permesso di avvicinare determinate cose, per via del suo carattere molto riservato.
Mi interessava, ovviamente, la sua visione rispetto l’editoria italiana e il particolare tipo di narrativa che ha sempre inseguito con grande costanza e dedizione. Mi interessava però, anche sapere attraverso cosa, l’uomo Stefano, avesse creato l’immaginario che poi ha reso Pidgin Edizioni la casa editrice unica capace d’imporsi in modo abbastanza netto nel panorama indipendente italiano.
Un pomeriggio di febbraio inoltrato ci siamo visti e abbiamo parlato dell’editoria – non solo quella italiana – delle difficoltà nel trovarsi a sopravvivere in un sistema fallato da ormai troppo tempo, della cultura giapponese e di cultura punk, abbiamo parlato di musica e, ovviamente, di cosa significa essere un piccolo editore oggi, in Italia.
La prima è classica: com’è nata Pidgin?
Allora, parto da lontano. All’università ho studiato lingue e letterature straniere, scegliendo inglese e giapponese a percorso comparatistico, non tanto per l’interesse verso la lingua parlata, ma per quella scritta e, di conseguenza, per la traduzione. Ho continuato a studiare lingue e traduzione anche finito il percorso universitario, sempre con l’obiettivo di arrivare a tradurre narrativa. In contemporanea ho anche lavorato per una casa editrice napoletana medio-piccola, mi sono fatto le ossa in vari settori della gestione di una casa editrice e questo mi ha permesso di assimilare più cose possibili sul come funziona l’editoria e soprattutto su cosa avrei voluto fare diversamente. Ragionando esclusivamente sulla linea editoriale in sé, ho capito che se, avessi avuto la mia casa editrice, avrei concepito in modo molto diverso determinate cose che forse vedevo più aderenti al mio background culturale e che mi portavano naturalmente verso altre sponde.
Mi è sempre interessata il tipo d’arte dall’immaginario dirompente, distruttivo e che si costruisce sul tono diretto e a tratti violento dell’artista, nelle sue varie applicazioni. Quindi ho immaginato una casa editrice che fosse un complesso estetico violento, ma capace di squarciarsi rivelando altre cose.
Alla fine ho trasformato in pratica questa attitudine e queste suggestioni, grazie all’esperienza maturata negli anni in cui ho lavorato da factotum nella casa editrice e, a livello teorico, agli studi di traduzione.
A questo ho unito altri miei interessi, come per esempio, gli studi di illustrazione e fumetto, – ho frequentato la Scuola Comics di Napoli – che mi hanno dato anche una base dal punto di vista grafico.
Mi sono reso conto, a un certo punto, di avere tante piccole competenze che, unite, potevano portare alla creazione di una casa editrice do it yourself.
Perché hai deciso di studiare il giapponese?
Era una cosa che mi attirava fin da quando ero bambino. Ho fatto karate per diversi anni e questa cosa penso abbia spinto molto il mio interessarmi verso l’immaginario nipponico, come per esempio l’aspetto grafico, che è andato ad alimentare la passione per il disegno e l’illustrazione. Durante l’adolescenza si è aggiunto l’hobby del collezionismo di Manga e Anime, che hanno poi formato buona parte del mio background culturale; sono stato un collezionista di fumetti giapponesi per tanti anni e, quando c’è stato il momento di scegliere cosa fare dopo le scuola superiori – ho frequentato il Liceo Scientifico ed ero evidentemente più portato verso materie scientifiche –, ho preso la decisione di fare lingue straniere, decisione che è sembrata casuale, devo ammetterlo. Sembra un po’ una contraddizione se si pensa alla persona che sono: timido, di poche parole. Però, per l’appunto, ciò che mi attirava di più era la lingua scritta e l’atto di decifrare il linguaggio.
Ok, ma cosa ha influenzato in modo netto la direzione che poi ha preso la casa editrice?
Inizialmente, forse la cultura giapponese ha inciso molto su di me come persona e poi, di conseguenza, anche sul lavoro che ho fatto con Pidgin. C’è una credo abbastanza dichiarato in Giappone, soprattutto nella produzione fumettistica: si basa sul concetto del prendersi meno sul serio quando facciamo arte, ma prendendo sul serio l’arte. Si parte dal presupposto che il fumetto, in generale, è una forma d’arte sottovalutata nonostante la sua dignità culturale. Ecco, forse qui trovo un collegamento con l’immaginario Pidgin, per esempio dei contenuti che, seguendo una concezione più vetusta dell’arte, possono sembrare poco dignitosi, ma in realtà racchiudono una forza che altre forme non hanno. Quindi libri che trattano tematiche forti, ambientazioni underground, una forma di narrativa più sperimentale che per molti può essere strana, le copertine molto colorate e di forte impatto visivo. Ecco, qui ci vedo in parte l’influenza del mio rapporto con l’immaginario giapponese. Ovviamente c’è anche molto altro e il discorso è più ampio.
La prima uscita del catalogo Pidgin è stata una traduzione.
Sì, è stato il primissimo passaggio pratico. Ho cercato testi in lingua inglese che potessero rispondere alla mia idea/visione di casa editrice.
Ho individuato due testi – che poi sono stati i primi due libri che ho pubblicato – Il Reattivo di Masande Ntshanga e Mira Corpora di Jeff Jackson, due romanzi che, seppur in modo diverso tra loro, rispondevano alla mia idea letteraria, estetica e artistica, e che hanno determinato poi cosa volevo pubblicare in seguito.
Il passaggio successivo è stato capire nella pratica come creare la casa editrice: ho contattato gli agenti degli autori, al fine di avere un’idea su come dovevo muovermi; siccome la casa editrice per cui avevo lavorato in precedenza non si occupava di traduzione perché quello era uno degli aspetti che mi era ignoto, sono andato un po’ a tentoni, soprattutto perché non avevo contatti cui chiedere aiuto e informazioni.
Con il tempo ho capito meglio cosa volessi fosse Pidgin e come parlarne al pubblico, un’altra cosa, quest’ultima, che è risultato, inizialmente, un problema non indifferente.
Pidgin non è facile da spiegare, ma non perché sia costruita su contenuti particolarmente complessi, quanto per il fatto che molta della selezione si basa su delle mie sensazioni di pancia, carnali, viscerali. Quindi spiegarlo ai lettori e agli aspiranti autori non è semplice.
Tutt’ora ho difficoltà, ma almeno ho formato un mio lessico – per esempio questa parola: viscerale, che uso praticamente sempre. A volte mi dico ‘Sì, ma che significa?’ (ride)
Però penso di aver trovato una linea, anche se, ad usare una certa terminologia, c’è sempre il rischio di farla passare come magniloquente. Anche l’aggettivo sperimentale, per molti non significa niente, ma alla fine io penso che una percentuale di lettori e autori affini alle mie idee, possa intercettare ciò che voglio dire veramente.
Da quello che so, quasi tutte le autrici e gli autori stranieri del catalogo Pidgin, fanno parte del circuito dell’editoria indipendente, ma prima hai parlato di agenti letterari che hai dovuto contattare per seguire le opere che desideravi tradurre. Tutte le traduzioni che hai in catalogo sono gestite da un’agenzia?
Sì, quasi tutte. Una parte dei libri che ho intercettato fanno parte dell’editoria indipendente e hanno, di conseguenza, uno spirito in qualche modo punk. Alcuni di questi, però, hanno avuto un relativo successo, sempre all’interno della nicchia e, in un paio di occasioni, in grado di sfondarla. Questo si collega a una seconda cosa, soprattutto per quanto riguarda gli Stati Uniti: la scena indipendente americana è molto più ampia come bacino di vendite, anche l’autore che fa numeri medi per l’editoria indipendente, si basa comunque su risultati molto più alti rispetto a quella italiana.
Detto questo c’è anche un meccanismo abbastanza malato tra gli agenti letterari americani.
Cioè?
L’autrice o l’autore sono rappresentati da un’agenzia – nel caso degli americani, ma vale anche per il resto del mondo – che a sua volta, in Italia, è rappresentata da un’agenzia italiana. Tu parti dal libro e poi ti girano all’agente americano che ti gira all’agente italiano, tu parli con l’agente italiano che si consulta con l’agente americano che si consulta con gli autori in un loop assurdo.
Ci sono anche delle variabili, perché a volte i diritti sono detenuti dalla casa editrice e altre dagli autori e questo crea dei glitch, perché la casa editrice spesso ha una sua agenzia, mentre l’autrice o l’autore hanno una casa editrice diversa e quindi quando devi dialogare con le parti diventa davvero complicato.
A un certo punto del percorso di Pidgin, crei Split, la rivista letteraria della casa editrice.
Split nasce quasi in concomitanza con la pubblicazione del primo libro, che va in stampa a settembre del 2017. La rivista viene lanciata a inizio 2018.
Inizialmente sul sito avevo previsto spazi diversi: uno era Split, la rivista in italiano, e poi c’era un secondo spazio dedicato alle traduzioni da alcune riviste straniere; una si chiamava Pank Magazine e l’altra era NY Tyrant, la rivista di Tyrant Books, casa editrice italo americana fondata da Giancarlo DiTrapano.
Dopo un periodo di prova iniziale, ho deciso di mettere tutto insieme dato che non aveva molto senso avere due sezioni separate.
Split è nata come spazio per coinvolgere gli autori italiani che avessero affinità con la nostra linea editoriale, questo anche in previsione di eventuali pubblicazioni. L’idea era quella di creare contatti e dare visibilità. Fare in modo che fosse disponibile a tutti un qualcosa di immediato e gratuito in grado di essere uno spunto rispetto al lavoro della casa editrice. Nel frattempo, traducevo da queste riviste on line americane per lo stesso motivo: offrire punti di riferimento agli autori e al potenziale pubblico italiano.
È stata una scelta vincente, perché buona parte dei libri italiani che ho pubblicato finora, sono una conseguenza di collaborazioni con Split.
Insomma Split è servita anche per creare l’immaginario Pidgin.
Sì, è anche vero che poi, a un certo punto, ho allargato gli argini delle possibili proposte, per avere una linea editoriale meno stringente, ma sempre a fuoco, senza allontanarmi dall’idea che avevo in origine.
Ma ora Split è in pausa.
Direi in pausa perenne. Era una cosa di cui mi occupavo quasi esclusivamente io, tolti alcuni piccoli aiuti. Era diventato un carico insopportabile.
Immagino anche perché Pidgin ha iniziato a crescere. È abbastanza evidente che ci sia stata un’evoluzione a livello di numeri. Una crescita costante che è passata dalle opere tradotte, allargandosi all’introduzione di libri scritti dalla fucina italiana. Ma tu, al di là di questa evidenza, che tipo di crescita vedi? La vedi?
La pubblicazione di autrici e autori italiani era una cosa su cui puntavo fin dall’inizio, ma che ho posticipato perché sono partito con le traduzioni per un motivo molto semplice: iniziare a pubblicare libri senza dover aspettare l’arrivo di proposte pubblicabili in linea con ciò che desideravo da Pidgin. Non volevo essere costretto ad accontentarmi.
Per quanto riguarda la crescita concreta, è vero, a livello di vendite i numeri sono aumentati molto rispetto ai primi anni, però è aumentato tanto anche il carico di lavoro. È il motivo per cui la crescita della casa editrice non si è espressa in un aumento considerevole dei titoli pubblicati annualmente. Vorrei arrivare a pubblicare un libro ogni due mesi, togliendo il periodo estivo che per quanto mi riguarda non esiste.
Un altro obiettivo è ampliare le collane della casa editrice, ora abbiamo una collana di saggistica con un solo titolo pubblicato, ma a questa si aggiungerà un’altra collana di letteratura post coloniale diasporica, ma sempre con un taglio moderno e audace, che cerca di dare una visione alternativa del movimento. Vorrei riuscire a inaugurare già da quest’anno.
Faccio un piccolo passo indietro: poco fa hai utilizzato il termine punk ed è una cosa che, conoscendoti, non mi è nuova. Ricordo che, durante una nostra chiacchierata passata, mi dissi che hai smesso di suonare nelle band per dedicarti all’editoria. Mi fa pensare che, quella cosa, sia stata una parte importante nella tua crescita personale e, forse, anche delle fondamenta di Pidgin.
Per me la musica ha sempre rappresentato un ruolo importantissimo, fin dall’adolescenza. Ho iniziato approcciandomi al grunge, per continuare con il rock alternativo e spostandomi su derive più noise, post punk e post-hardcore. In questo percorso ho suonato in un paio di gruppi diversi che gravitavano intorno a questa scena. Detto questo, al di là dell’aver suonato nelle band, un influsso importante e sensibile che ha avuto la musica sul mio background è stata una certa scena napoletana in un periodo particolarmente fortunato a livello di concerti punk e hardcore. Era l’ambiente che si veniva a creare durante questi live in locali angusti e spogli: la gente che faceva stage diving, il perdersi tra la folla, il rumore, l’atmosfera conviviale che si veniva a creare nel rapporto diretto tra chi suonava e chi ascoltava. Vedi, per quanto io inizialmente non partecipassi attivamente a certe cose, per una persona chiusa come me era un modo per trovarmi in una situazione che mi faceva sentire a mio agio. Mi coccolava anche senza essere coinvolto direttamente.
Insomma, era una scena che si sposava benissimo con la persona che ero e che sono. C’era la cultura del do it yourself, per esempio, e io amo molto fare bricolage. Costruivo i pedali per le mie chitarre, modificavo le chitarre stesse. Questa cosa me l’ho portata, concettualmente e praticamente, nella casa editrice. In quel tipo di scena l’idea è: so fare un po’ di tutto, magari in maniera mediocre, ma lo so fare e posso farlo.
Far parte delle band mi ha impegnato molto emotivamente per tanti anni. È stato davvero intenso. Tra i membri del gruppo, anche se non ero il cantante, tendevo a essere quello che prendeva più in mano la situazione, a gestire certe dinamiche. Avevo davvero bisogno di questa cosa, di esprimermi in quel modo.
Nel primo gruppo suonavo la chitarra, nella seconda suonavo e cantavo – urlavo in realtà –, poi sono iniziate le difficoltà, perché per far parte di una band occorre tanta energia e il tempo è tiranno. Così ho fondato un progetto in cui ero l’unico membro: registravo tutti gli strumenti io. Anche in quel caso, trovavo conforto nell’avere controllo su ogni cosa.
Alla fine quella scena, quella a cui ero più legato, si è un po’ spenta. Oppure sono cambiato io, ho iniziato a sentire esigenze diverse.
Stefano Pirone (fotografia di Luigi Mazzucchi)
Mi sembra che anche in questo caso ci sia stata un’evoluzione, che ti ha portato dal suonare la chitarra, a suonare la chitarra e cantare, fino a gestire tutti gli strumenti in una sorta di one man band. Mi viene facile associarla, in qualche modo, all’evoluzione di Pidgin che, a questo punto, mi sembra avere origini ancora più antiche.
Quando ho iniziato a cantare con la seconda band, quello che facevo, in realtà, era urlare, e questo è stato un passaggio intermedio, perché lo vedevo come un modo per tirarmi fuori da alcuni complessi che avevo: il fatto che la mia voce uscisse in modo più violento e meno comprensibile, mi è servito per arrivare al terzo passaggio, quello in cui cantavo – senza urlare.
Infatti Pidgin non è stata la causa della fine della mia esperienza come musicista, ma piuttosto una valvola di sfogo artistica, che ha sostituito e forse ampliato, il bisogno stesso.
Praticamente hai portato in una forma narrativa, all’interno di una proposta editoriale, la cultura punk, il rumore, il sudore, l’essere compressi contro altri corpi dentro posti angusti e bui, il cantare urlando.
È come se tu avessi detto ‘io non ho mai smesso di fare quella cosa, l’ho solo cambiata’. Pidgin Edizioni è il tuo nuovo one man band.
Sì, tradurre questa idea in fatti concreti non ha mai significato pubblicare libri che parlassero strettamente del punk, nel senso che penso si possa scrivere libri con quelle suggestioni, senza però essere troppi palesi.
Pidgin secondo me richiama un po’ il noise come concetto musicale-artistico, oppure lo shoegaze: c’è un muro di suono, però dentro questo continuo rumore di aspirapolvere ci sono anche delle melodie, le puoi trovare solo se te le vai a cercare: sono melodie intestine. È il trovare la poesia dentro una percezione acustica probabilmente fastidiosa. Non è per cantarmela, sia mai, ma credo che in Italia, prima di Pidgin, non ci fosse un progetto così consapevole e così costante. Nel senso che libri del genere sono sempre stati pubblicati, soprattutto se sono libri che hanno sfondato, e li ritrovi in varie case editrici, anche di un certo livello commerciale. La mia è stata più un’idea di unirli, metterli tutti insieme con cognizione, senza farlo in modo troppo telefonato.
A conti fatti il punk non è solo una cosa, è una moltitudine di sfumature. Non è necessariamente la cosa sporca, cattiva che ti sputa in faccia.
Esatto, devo anche dire che poi, nel tempo, ho avuto anche qualche reticenza nell’utilizzare la parola punk associata a quello che faccio nell’editoria. Ho temuto di essere tacciato come poser. Insomma, il punk è un’attitudine e un termine che viene utilizzato con diverse accezioni. Soprattutto nella letteratura, si può vagamente sovrapporre all’uso che si fa del pop.
Un altro termine rischioso.
Vero, rischiosissimo perché ora, in letteratura, viene definito pop tutto ciò che non è un tomo di cinquecento pagine dalle tinte classiche e la copertina adelphiana. E infatti è un’accezione che significa tutto e niente.
Oggi in Italia c’è qualcosa che può ricordare la proposta di Pidgin?
Non ci ho mai pensato concretamente. Sicuramente si ritrova degli aspetti in altre case editrici, ad esempio, sui titoli in traduzione, forse Pidgin è avvicinabile a Black Coffee, anche se mi danno l’impressione di essere in espansione a livello di proposta. Tra l’altro credo che sui primi titoli del loro catalogo, abbiamo dei punti di riferimento in comune soprattutto sulle case editrici americane, come per esempio Two Dollar Radio (vedi Mira Corpora, NDA).
Lo stesso Safarà fa roba bizzarra, ma di un tipo diverso.
Invece, per quanto riguarda l’aspetto dello sperimentalismo sulla struttura, ma un po’ meno sull’immaginario dei contenuti, ci sono diversi punti di contatto con Wojtek.
Qual è il tuo rapporto con l’editoria italiana?
Ok. Dividiamolo in categorie: l’editoria come contatto con gli altri editori. Ho sempre pensato di avere un ottimo rapporto con chi lavora nel mio stesso settore. Uno degli aspetti che amo di più è proprio lo scambio che c’è fra gli addetti ai lavori. Mi fa sempre molto piacere incontrare alle fiere determinati editori con i quali ho legato, ma anche non solo gli editori, anche i lettori forti, che sono onnipresenti e ti seguono sui social e interagiscono molto. Nonostante le mie evidenti difficoltà comunicative legate alla timidezza, ci sono degli incontri che trovo sempre molto piacevoli, specialmente con determinate persone.
Il mio rapporto con l’editoria come sistema, invece, è un rapporto un po’ combattuto. Trovo ci siano delle dinamiche sistemiche sgradevoli. Esistono sicuramente altri editori molto più bravi di me a evidenziare queste problematiche, quindi io evito di metterci troppo voce, perché mi sento davvero poco competente. Posso dire però, che alcune dinamiche a livello di mercato e di monopolio, di distribuzione sono, a mio avviso, un po’ malate e tendono ad affossare il sistema. Voglio dire, il capitalismo in quanto capitalismo, è già di per sé una devianza. Purtroppo è una banalità, ma le prime a soccombere sono sempre le piccole realtà, che non hanno i mezzi per sopravvivere laddove sopravvivere significa pubblicare e pubblicare e ripubblicare decine se non centinaia di libri all’anno. Che è il modo in cui le grosse case editrici sopravvivono, ovvero sui numeri prima che sulla qualità. Perché se vai a vedere, i libri che universalmente sono definiti di qualità, in realtà rappresentano una piccola percentuale dei libri che vengono messi in commercio da determinate case editrici. Sopravvivono sulla quantità ed è una cosa utopica per una piccola casa editrice.
È per questo che hai deciso di non partecipare, con uno stand, alla fiera Più Libri Più Libri 2022?
Sì, è stata una scelta legata alle problematiche generali dell’editoria e in particolare alla tendenza ad assecondare logiche tossiche di un mercato di sovrapproduzione e a non ascoltare invece quelle che sono le priorità e necessità della filiera editoriale indipendente, che dall’editore al libraio predilige una produzione e diffusione centellinata, studiata e personalizzata delle opere letterarie.
Mi sembra che tante delle autrici e degli autori emergenti o esordienti che pubblicano per le grosse case editrici, poi non vengano seguiti, e anzi addirittura abbandonati a loro stessi.
È un tipo di lamentela che ho percepito spesso anch’io. Autori che passano alla major e al libro successivo tornano dalle indipendenti. Ovviamente su questa percentuale c’è da capire chi lo fa per scelta e chi torna perché la casa editrice in questione non è più interessata.
Invece che cosa pensi dei premi letterari? Mi pare di capire che siano diventati una parte molto importante del processo letterario e della crescita di chi si dedica a fare narrativa.
Guarda, ce ne sono talmente tanti e con approcci diversi, che chiunque può trovare la sua dimensione e comunque trovare un minimo di visibilità. Per citare uno dei libri del mio catalogo che è arrivato in finale in due premi nazionali, parlo di Il giorno che diedi fuoco alla mia casa di Francesca Mattei, arrivato in finale sia al Premio Pop che al Premio John Fante, ecco quelli mi sembrano due premi che danno una certa attenzione anche alla produzione indipendente, pur mettendola in competizione anche con libri di case editrici medio e grosse.
Io spero, e credo in parte sia vero, che riservino alle due cose un trattamento equo. Quindi che si concentrino sul libro e non su chi lo ha pubblicato.
Secondo te quanto c’entra il lettore medio italiano nelle problematiche dell’editoria italiana?
Sicuramente c’è il problema legato alla bassa percentuale di lettori, una percentuale che è stata in calo per anni. Dall’altra parte c’è un coinvolgimento alle fiere o agli eventi letterari, che sta crescendo, ma che deve fare ancora molta strada. Detto questo, al di là della capacità della casa editrice e dell’autore di arrivare al lettore con la promozione, ci sono dei problemi talmente sistemici e radicati che dipendono dal mercato del libro e non solo, che dare una parte di colpa ai lettori lo trovo riduttivo e anche controproducente, perché mi sembra un modo per sviare l’attenzione dai problemi legati al meccanismo della filiera editoriale, spesso specifici dell’Italia. Tutto questo tolte le anse del capitalismo, che sono onnipresenti nel mondo occidentale.
Ci sono delle malattie nel sistema italiano che andrebbero affrontate seriamente. Per esempio, dal 2020 è in vigore una legge che pone il limite del 5% agli sconti applicabili sul prezzo di copertina, per arginare Amazon. Ok, tutto bene, ma il problema non è Amazon, nello specifico.
Amazon è il male, si dice.
Nonostante le problematiche che Amazon rappresenta, credo ci sia un punto di vista che non viene analizzato, ed è quello di dare a tutti, perlomeno, la possibilità di vendere il libro, cosa che non accade, per esempio, nella libreria di catena. Ora, lungi da me giustificare Amazon, sia chiaro. Quello che voglio dire è che un piccolo editore, che non entra con i propri libri alla Feltrinelli, ha almeno la possibilità di piazzare il libro su Amazon.
Ripeto, questa cosa non voglio che diventi un’apologia di ciò che il colosso rappresenta, dico solo che non rappresenta tutti i mali. A volte diventa una giustificazione. È qui che sta il problema.
È lo stesso discorso che facevi rispetto al fatto che non si può imputare tutto al lettore che non legge o che legge solo libri con poca qualità.
Le responsabilità vanno cercate presso le istituzioni italiane, che non sono in grado di instillare nella gente la passione per la letteratura, come forse invece avviene maggiormente in altri Paesi.
Insomma, c’è bisogno che cambino diverse cose, ma allo stesso tempo sembra impossibile cambiarle.
Sai cosa piacerebbe a me? Che si creasse una piccola scena letteraria forte, come magari si creano certe scene negli Stati Uniti dove, ovviamente, è molto più facile nuotare nel mare dell’editoria per tutta una serie di cose. Questo sarebbe un cambiamento. Magari una scena napoletana. Era una delle cose che avrei voluto veicolare tramite Split, ma che purtroppo allo stato attuale non è realizzabile. Però se io ho un desiderio – non un obiettivo, perché non so quanto sia realizzabile – è proprio quello di creare una piccola scena in cui ci si supporti a vicenda. Che si parli di letteratura più di quanto si faccia ora.
“Me l’ho portata” molto punk