“Vita e martirio di Saro Scordia, Pescivendolo” di Giorgio Benedetto Scalia: un estratto

Pubblichiamo un estratto dal libro Vita e martirio di Saro Scordia, pescivendolo, di Giorgio Benedetto Scalia, tra i finalisti del Premio Calvino. Il romanzo è uscito per pessime idee, che ringraziamo

All’asta, padroneggiava la freddezza di uno squalo. Controllò lo stato delle branchie, si mise in ginocchio fingendo di allacciarsi la scarpa, anche se ai piedi portava gli infradito di gomma, e si avvicinò alla testa del tonno che stava sul bordo del banco. Le branchie erano rosso vivo. “Un fa tanfu, anzi”, pensò mentre un profumo di alghe e di mare gli carezzava il naso. Si rimise in piedi e sotto la luce delle lampade cominciò a dondolarsi sul posto con le mani in tasca. In questo modo osservò la lucentezza della pelle. Nera metallizzata vestita di una sottile patina acquosa. «‘Sta tunnina vero buona è! Bella pelle e carne citrigna», giudicò tra sé e sé mentre, con la scusa tastò il tonno ed esclamò: «Minchia comu si sciddica», fingendo di aver perso l’equilibrio. «Chista un è tunnina da garofano! Nonsi, chista si vende sola sola». Era deciso a comprare quel tonno, certo che ci avrebbe guadagnato senza il bisogno di metterlo in vendita con un garofano rosso in bocca, come quando era costretto a darlo in sconto. Quel pescione l’avrebbe pagato caro, ma era perfetto. Saro continuò il suo vagabondaggio e incontrò Pietro, il banditore del mercato, e col pretesto di salutarlo si avvicinò a un paio di piccoli pescispata. «Buongiorno Piè! Comu siemu?».

«A posto. Tu?», e distratto continuò a camminare.

«Cummattiemu», disse Saro sorridendogli, ma nel frattempo parlava con i piccoli pescispada. «Chi siti bieddi, puddicineddi. Vi pescaronu solu rue ure fa. Vieru? Si viri».

«Freschi dì naselli dà», a voce alta, indicando a Pietro una cassetta di merluzzi alle sue spalle. Tutti i pescivendoli ci cascarono e si voltarono a guardare in quella direzione.

«Comunque, Saro, vado chi ora accumincia l’asta». Accelerò il passo e andò via senza nemmeno salutarlo. Dopo pochi minuti, Pietro si piazzò accanto al primo carico di pesce. «Quaranta euro u piscispata speciale!», esordì, e fu subito attorniato da una marea di pescivendoli. Tutti facevano già le proprie offerte. «Dieci i triglie!». «Sei l’alici!». «Occhiate a quindici!». Urlavano affannati i pescivendoli a ogni battuta del banditore, e le loro urla si accalcavano confondendosi l’una sull’altra, diventando sempre più alte. Era una gara a chi urlava più forte, il vincitore conquistava l’attenzione di Pietro e il pesce desiderato. «Quattro cassiette ri sarde! E mi ci metti puru ‘sti ajule ri cà!». Gridò uno dal fondo. «Senti a mia! Pietro! Dammi tutta ‘sta fila di merluzzi cà ravanzi». Vociò un altro, nel mezzo. «Pietro! A quantu su i vope? A quantu su? Ou, Piè, si suirdu o fai finta ‘i niente?», domandò Saro a voce alta. «A dodici sù», gli ripeté Pietro, più volte e più forte che poté, provando a sovrastare quella bolgia di grida. «I pigghiu!», urlò Saro più forte di tutti e sorrise contento per l’affare. Poi il banditore si mise a vociare con un paio di pescivendoli e ripeté a mitragliatore i prezzi appena fissati, urlandoli al suo compare: «Frabbio! Scrivi! Quattru cassiette a venti euro. Frabbio! Sei ‘i chiste a diciotto. Maccorroncini, tririci a cassietta». Fabio, u Raggioniere, appuntava tutto a una velocità impressionante mentre poco distante un uomo sulla quarantina che indossava la tuta del Palermo si mise a protestare: «Chi cosa? Cinque cassiette tutte assieme? Si fuodde, Piè! No. E cu i vinni? Ni pigghiavu già rue a quindici euri a cassietta. E chi sugnu un pascià?». «Amunì, un faccissi accussì signor Mimmo e s’accattassi ‘sti sogliole. Sugnu come a simienza chiù assai ni manci chiù assai ni vuoi», disse Pietro, e manco il tempo di finire la frase che un altro intervenne sbandierando le mani per richiamare l’attenzione su di sé: «Mi pigghiu io l’avutri tri cassiette di linguate, Piè», gridò rapido l’uomo, battendo Saro sul tempo. Ma lui non si demoralizzò e si buttò subito su un’altra offerta. «A posto! Cà! Tonno a venticinque, Piè. U pigghiu!», esordì Saro dalla terza fila. «Venduto!». Ginuzzo, detto Vrazza ‘i scimia – Braccia di scimmia – e non perché avesse le braccia particolarmente pelose, ma perché nella confusione generale tentava di allungare le mani. Anche quella volta provò a prendere una cassetta prima ancora che Pietro avesse accettato la sua offerta così da portarsi via il pesce a un prezzo stracciato. «Ti vitti. Vrazza ‘i scimia. Cala i manu!», sbottò Pietro, beccando Ginuzzo con una cassetta di gamberoni di Mazara in spalla. «A quantu mi fai alla fine i gamberoni, Piè?».

«Posala. Pi tia nienti gamberoni ‘sta irnata. Scimia!». Pietro si mise a fare il babbuino, tutti scoppiarono a ridere e con disinvoltura riprese a bandire come stava facendo. Dopo qualche ora l’asta era finta. Adesso, per Saro cominciava la trattativa con i pescivendoli. La mattinata di acquisti era andata bene, ma non al meglio. Voleva i calamari. Non mancavano mai sulla sua bancarella. Durante l’asta non era riuscito a prenderne nemmeno una cassetta, era concentrato ad accaparrarsi quel grosso tonno. Allora con fare circospetto si aggirò tra i furgoni dei suoi colleghi alla ricerca di calamari. Trovati. Con le mani in tasca fece avanti e indietro tre volte per il parcheggio. Lo imbarazzava andare da quel pescivendolo, lo stesso che il giorno dell’incidente gli aveva urlato, per farsi sentire da tutti: «Pezzu d’arrusu!», e aveva riso senza potersi fermare. Era Peppino u Re. Aveva la bancarella di pesce più bella e più ricca di tutta la Vucciria. Il suo assortimento era vasto e di qualità, e da generazioni sbaragliava la concorrenza. Gli altri pescivendoli, Saro compreso, non potevano competere con il suo impero. La pescheria di Peppino era un’istituzione.

«Chi t’accattasti Peppino?».

«Mi siddia pieirdiri tiempu cu tia Bieddicapiddi. Amunì chi vai circannu?».

«Uno un pò mancu dummannari, chi subito». Saro si guardò timidamente le punte degli alluci e mormorò: «Un è chi macari mi putissi rari na cassietta sula i calamari?».

«Un ta pigghiari a male, ma».

«Peppino, na cortesia ti sto chiedendo. Hai u fuiggone chino chino».

«Vabbò, rammi nu pezzu ‘i tonno». Disse tendendogli la mano per siglare l’affare e intanto ammirava il tonno coricato nel suo lapino. Saro si pettinò adagio, per rassicurarsi e trovare il tempo di decidere. Quel tonno l’aveva pagato caro ed era bellissimo, ma nella sua bancarella non erano mai mancati i calamari. Che fare?

«Peppino… ti pagu buonu, ma u tonno».

«No? Allora niente».

«Un fari accussì, hai vinto tu. Facimu ‘stu scambio?», disse con gli occhi di un bimbo che baratta una figurina rara per l’unica che gli manca. «Passò u trienu!», gli rinfacciò tirando indietro la mano, «U re fa affari sulu cu i masculi veri». Chiuse forte i portelloni del suo furgone e Saro sussultò per il botto. Peppino u Re andò via e lui si ritrovò da solo in mezzo allo stradone di via Francesco Crispi, desolato e rischiarato appena dal sorgere del sole.

 

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