“Al vostro posto non ci so stare”, un estratto dal libro di Fabrizio Bartelloni

Pubblichiamo, ringraziando editore e autore, un estratto dal libro “Al vostro posto non ci so stare. Dei delitti e delle pene secondo Fabrizio De André” di Fabrizio Bartelloni, uscito per Pacini Editore.

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di Fabrizio Bartelloni

All’ombra dell’ultimo sole

Gli studi in giurisprudenza, abbandonati senza troppi rimpianti quando la laurea non era ancora all’orizzonte, non sono stati, invero, il primo incontro tra De André e la giustizia penale. L’imprinting, ben più concreto ed emozionante, era infatti avvenuto qualche anno prima, quando, sedicenne, aveva deciso di ‘sposarsi’ nottetempo con Anna, la sua fidanzatina dell’epoca, sfondando il portone d’ingresso di una chiesa e facendo l’amore su una delle panche riservate ai fedeli. Ne era scaturito un processo in cui il Pubblico Ministero gli aveva dato del teddy boy e che si era concluso con il ritiro della querela da parte del parroco, verosimilmente ben ricompensato dal munifico professor Giuseppe1. Una bravata giovanile, certo, ma anche il sintomo di una attitudine genetica alla provocazione, alla ribellione nei confronti di qualsiasi forma d’ordine costituito che affondi le proprie radici nel terreno carico di frutti del privilegio di casta. Quel tipo di spinta che lo avrebbe anche indotto anni dopo a lasciare la casa avita per andare ad abitare per qualche tempo in salita Sant’Agostino, in un monolocale con soppalco sempre appestato dalle esalazioni di una stufa a kerosene insieme al poeta Riccardo Mannerini2, che di guai con la giustizia ne aveva avuti parecchi, invece, «perché era un autentico libertario e così, quando qualche ricercato bussava alla sua porta, lui lo nascondeva in casa sua. E magari gli curava le ferite e gli estraeva i proiettili che aveva in corpo. Bastava che uno gli dicesse: «Vogliono mettermi in galera», e lui lo ospitava3». Non si sa, dunque, se sia stato per contrappasso o per coerenza che anche una delle primissime canzoni scritte da De André abbia finito per attrarre le attenzioni della magistratura. Accade con Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, ballata di stampo medievale composta insieme a Paolo Villaggio, grande appassionato di storia, e dedicata a quel Re dei franchi che non fu mai veramente Re4 e che a parere dei due doveva essere stato «un gran puttaniere». Incisa una prima volta nel 19635 e quindi inserita, in una versione leggermente diversa, nell’album Vol. 1 del 1967, la canzone suscitò lo sgomento, pare, di un ascoltatore veneto, che presentò una denuncia per contenuti osceni6, provocando la celebrazione dinanzi al Tribunale di Milano7 del procedimento penale n. 5852/66 a carico dello stesso De André e di Giovanni Fischetti e Gaetano Pulvirenti, rispettivamente editore e rivenditore della casa discografica, per il reato di cui all’art. 528 c.p., ossia per avere «in concorso tra loro prodotto e posto in commercio dischi dal contenuto osceno»8. Il processo, che si risolverà con una assoluzione per insussistenza del fatto, avrà il merito di garantire una buona pubblicità a un pezzo passato, fin lì, piuttosto inosservato.

Ma se è lo sberleffo a Carlo Martello a far schiudere le porte di una vera aula di tribunale, sono invece altre le canzoni del primo periodo del De André autore, fortemente segnato dall’impronta di Brassens, a raccontare la sua visione della giustizia, quasi mai sovrapponibile a quella presentata come tale dalla legge degli uomini, a partire proprio da quella Ballata del Miché a cui l’autore attribuiva il diritto di primogenitura tra le sue composizioni. Come la celeberrima Marinella – vergine « volata in cielo su una stella» nella versione lirica e giovane prostituta volata nella Bormida o nel Tanaro9 dopo essere stata rapinata da un balordo, nella realtà – anche la vicenda di Miché trae spunto da un fatto di cronaca nera, riportato, sembra, da un quotidiano pugliese10. Si tratta della sorte di Michele Aiello, emigrato a Genova dal sud Italia e morto suicida in carcere dopo una condanna a vent’anni rimediata per aver ucciso «chi voleva rubargli» la donna amata. Un omicidio che per la legge italiana del tempo avrebbe potuto essere definito «a causa d’onore», come recitava la rubrica dell’ormai abrogato art. 587 del codice penale, e quindi punito assai meno severamente11 se solo l’Aiello fosse stato sposato con la compagna, e che invece gli era valso una pena ‘esemplare’, trattandosi di un legame sentimentale privo di sacramento. Difficile che il ventenne De André non avesse colto anche questa stortura di una norma – che con la sensibilità moderna non può che apparirci come retrograda e discriminatoria – che mostrava indulgenza per il c.d. delitto d’onore solo a patto che la coppia fosse unita in matrimonio, mentre lui esibiva la propria, di indulgenza, nei confronti di chi aveva preferito impiccarsi in cella piuttosto che sopportare di stare lontano per vent’anni dalla sua Marì, perché già nelle prime liriche s’avverte quella forma di stupore nei confronti di ogni legge che pretenda di giudicare gli uomini senza lasciare spazio all’umanità che farà sempre parte della poetica deandreiana. Miché è colpevole, certo, ma la Corte che dovrebbe fare giustizia non mostra la minima attenzione alle circostanze che lo hanno condotto a compiere l’omicidio12, e tantomeno alla scelta di una pena che sia funzionale alla sua rieducazione e al suo recupero sociale. In quel «lo avevan perciò condannato, vent’anni in prigione a marcir» riecheggia, infatti, la retorica, purtroppo ancora diffusissima, di chi identifica e riduce una persona al gesto criminale che ha compiuto, di chi auspica pene capitali e chiavi buttate via, dimenticando che chi va dietro le sbarre non perde la sua natura di essere umano e che la tragedia di una vita non più recuperabile può essere seguita dal successo di un’esistenza restituita alla società, anziché dalla nuova tragedia di una seconda vita perduta. La legge che condanna Miché si mostra cieca e sorda proprio di fronte a ciò che in primis dovrebbe ascoltare e vedere: la persona che ha davanti, che era tale quando ha compiuto il gesto per cui è stata incriminata e che non smetterà di esserlo dopo essere stata condannata. La morte per mano propria del detenuto, che obbliga i suoi carcerieri ad aprire la porta della cella13, diventa dunque per De André una sorta di anticipazione di ciò che la giustizia aveva già decretato per lui, ossia la sua cancellazione dal consorzio umano14, perché «il carcere è una necropoli di anime già morte», un «luogo laico, senza consolazione, senza pietà, senza l’abbraccio di una donna, un luogo dove la vita è impossibile»15. Nel parallelo, già accennato, con La canzone di Marinella, è significativo notare come l’attenzione e la compassione di De André si spostino e rivolgano qui sull’assassino e là sulla vittima, a riprova che per il cantautore genovese il giudizio non debba vertere tanto sul gesto in sé bensì sulla persona, o, quantomeno, non debba mai perdere di vista la storia, l’identità, il destino dell’essere umano che di quel gesto si è reso responsabile. E dunque Miché-Aiello merita comprensione, perché è uno del milione e trecentomila meridionali che tra il 1958 e il 1963 hanno abbandonato le loro case e spesso le loro famiglie per trasferirsi al nord, perché è un sotto-proletario che non ha nulla e si aggrappa all’unica cosa che non costa niente, l’amore, e si determina a uccidere quando vede minacciata pure quella16; così come umana pietas e una morte più bella di quella reale merita Marinella-Maria, condannata al meritricio dall’indigenza e alla morte «dalle carezze di un animale17».

Pare esserci dunque nel primo De André, che d’altra parte era fresco di studi giuridici e padroneggiava certe nozioni, una netta preferenza per il giusnaturalismo sul giuspositivismo18, per un diritto, cioè, che trovi le proprie radici in principi eterni e immutabili iscritti nella natura umana piuttosto che per quello derivante dall’autorità costituita, dalla volontà degli uomini di potere, sempre percepita, in nome di un anarchismo19 etico prima ancora che politico, come volta a preservare privilegi e consorterie delle classi dominanti20. Uno ius naturale che, in linea con gli approdi dottrinali della filosofia del diritto, non cessa di esistere al sopraggiungere del diritto positivo, ma ne costituisce o dovrebbe costituirne «il telos (il fine) intrinseco al diritto stesso, che ordina il diritto al bene comune21», e che pertanto resiste, sotterraneo e istintivo, anche in chi le leggi è tenuto a farle rispettare senza, tuttavia, aver concorso alla loro creazione e senza godere di alcuna discrezionalità nell’applicarle o meno. È il caso dei carabinieri, che fatalmente ci immaginiamo in coppia, incaricati di dare esecuzione al foglio di via dal paesino di Sant’Ilario22 emesso a carico di Bocca di rosa23, figlio più delle corna comparse sul capo delle comari del villaggio, divenute per l’effetto fiere tutrici della pubblica morale, che dell’imperio dell’autorità costituita, che a malincuore accompagnano alla stazione la ragazza che «metteva l’amore sopra ogni cosa». La strofa in cui si dà conto del compito sgradito esiste, invero, in due diverse versioni. La prima, infatti: «Spesso gli sbirri e i Carabinieri/ al proprio dovere vengono meno/ ma non quando sono in alta uniforme/ e l’accompagnarono al primo treno», fu rapidamente sostituita, non si sa con certezza se per problemi di censura o, come qualcuno dice, per le ‘cortesi pressioni’ dell’Arma dei Carabinieri, con una seconda: «Il cuore tenero non è una dote/ di cui sian colmi i Carabinieri/ ma quella volta a prendere il treno /l’accompagnarono malvolentieri», un po’ più morbida nei toni, ma invariata nel significato: là, sepolta sotto la divisa d’ordinanza e l’appartenenza, a tratti cieca, al corpo d’armata, resistono una umanità e una «coscienza al fosforo piantata tra l’aorta e l’intenzione24» che fanno percepire tutta l’ingiustizia di una cacciata imposta dalla legge scritta ma contraria al più umano dei ‘comandamenti dell’amore’, come dimostra la processione finale, voluta da un parroco «che non disprezza, tra un miserere e un’estrema unzione, il bene effimero della bellezza» e mette «la vergine in prima fila e Bocca di Rosa poco lontano».

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1In Cesare G. Romana, op. cit., pgg. 30-31

2Con cui De André ha scritto il Cantico dei drogati (in Tutti morimmo a stento, 1968) e alcuni dei pezzi dell’album d’esordio dei New Trolls: Senza orario e senza bandiera (1968).

3Cesare G. Romana, op. cit. pg. 22.

4Carlo Martello raggiunse solo il rango di Maestro di Palazzo dei Re Merovingi, anche se la sua carica ed il successo militare ottenuto a Poitiers gli permisero di esercitare in vita poteri simili a quelli di un Re, tanto da esser considerato dai suoi contemporanei come un monarca di fatto. Giova anche ricordare che la battaglia non si svolse affatto «al sol della calda primavera», ma in pieno autunno.

5Le canzoni del 45 giri della Karim Il fannullone/Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers furono entrambe scritte con Villaggio. Secondo i ricordi, quasi sempre inaffidabili, del coautore, la stesura dovrebbe risalire all’autunno del 1962. Secondo Pippo Carcassi, compagno di studi e poi collega di Mauro de André, invece, la composizione avvenne nel 1961 mentre lui e Mauro preparavano l’esame da procuratore e la coppia Faber-Villaggio, in teoria, l’esame di diritto penale. «A fine giornata, quando uscivamo dalle rispettive stanze, Mauro chiedeva al fratello: allora oggi cosa avete imparato? E loro, sorridendo: “Diritto penale poco, ma abbiamo fatto un’altra strofa di Carlo Martello”». Cfr. G. Malatesta, La Genova di De André, Giulio Perrone ed., 2019, pg. 73.

6Il verso incriminato è, in particolare: «È mai possibile, o porco d’un cane, che le avventure in codesto reame debban risolversi tutte con grandi puttane»

7Si rivela perciò del tutto inattendibile l’affermazione di Paolo Villaggio secondo cui il processo sarebbe partito su iniziativa diretta di un Pretore di Catania.

8Cfr. Luigi Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco – vita di Fabrizio De André – Feltrinelli, 2000, pgg. 129-130.

9In varie interviste De André fa riferimento a questi due fiumi, identificando la ragazza in una giovane astigiana costretta a prostituirsi non per scelta ma per bisogno di cui, scrivendo la canzone, aveva voluto almeno nobilitare la morte, non potendole restituire la vita. Si è tuttavia ritenuto che Marinella e il suo destino debbano identificarsi in quelli di tale Maria Boccuzzi, trovata cadavere nel fiume Olona – tra Rho e Milano – nel gennaio del 1953. Cfr., sul punto, R. Argenta La storia di Marinella… quella vera, Neos Ed., 2012

10Così ricorda De André nel concerto alla Sala della Chiamata del porto di Genova del settembre 1975

11L’art. 587 c.p. (abrogato solo con la legge n. 442 del 5 agosto 1981), recitava infatti:«Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella».

12Di cui il testo non ci dice molto, ma in un passaggio scopriamo che l’assassino si vergogna di confessare le ragioni del gesto persino alla sua stessa amata, sebbene abbia commesso l’omicidio in nome di quel sentimento.

13«Però adesso che lui s’è impiccato /La porta gli devono aprir».

14Altrettanto impietosa si mostrerà, peraltro, l’altra istituzione evocata nel pezzo, quella ecclesiastica che negherà a Miché degna sepoltura, senza segno di alcuna carità cristiana benché egli arrivi alla fossa alle tre, ossia allo stesso orario in cui, secondo i vangeli sinottici (cfr. Marco, 15, 33; Matteo 27, 45 51-54; Luca 23,44), è spirato Gesù. Si ricorda qui che almeno sino al Concilio Vaticano II (1962-1965) la Chiesa Cattolica negava ai suicidi tanto i funerali religiosi che la sepoltura in terra consacrata e che è solo con il nuovo codice di diritto canonico del 1983 che viene modificato il canone che proibiva la sepoltura in aree consacrate a coloro che si fossero uccisi con mano propria «se prima della morte non diedero un qualche segno di pentimento».

15Così S. Zacchini in La filosofia di Fabrizio De André, Il melograno, 2024, pg. 53

16«Questo Michele Aiello aveva fatto qualcosa di peggio, sentendosi emarginato, sentendosi al di fuori della società a cui era approdato, aveva un’unica cosa, aveva una donna a cui appigliarsi e qualcuno, forse più ricco di lui, aveva tentato di portargliela via, lui l’aveva ucciso e gli avevano dato vent’anni da scontare in galera. Era un tipico esemplare di quella non classe che si chiamava, e credo tutt’ora si chiami, sotto-proletariato. Del sotto-proletariato non se ne occupava allora nessuno, tantomeno i partiti politici tradizionali, anche perché erano fonti molto malsicure di voto, di consenso; ce ne occupavamo noi, come movimento libertario e dopo, ma molto dopo, il movimento radicale, così è nata la canzone». (Dentro Faber- l’anarchia, DvD Box set, 2011). In questa intervista De André data, erroneamente, la canzone al 1962, cosa impossibile visto che la prima incisione risale al 1961 come lato B del 45 giri contenente, sul lato A, La ballata dell’eroe, ndr)

17Da La collina, in Non al denaro, non all’amore, né al cielo, 1971.

18A conforto di questa interpretazione ci sono le parole dello stesso De André: « Mi sento a mio agio osservando regole e consuetudini non scritte, ma seguite da quasi tutti i miei simili. Mi sento talvolta in grave disagio dovendo osservare le leggi codificate. Secondo me ci sarebbe molto da cancellare più che da modificare. Non credo la pensino come me nessuna destra e nessuna sinistra ufficializzata.» F. De André – Sotto le ciglia chissà – i diari, Mondadori, 2016, pg. 163.

19«ANARCHIA: è nata il giorno in cui qualcuno si è reso conto che il male o la violenza nascono dalle organizzazioni degli uomini. Ogni organizzazione stabilisce delle regole per i propri adepti o consociati: per far sì che i consociati rispettino tali regole l’organizzazione crea un controllo interno, chiamiamola polizia. Per far sì che altre organizzazioni rispettino le proprie regole si creano gli eserciti che difendano l’organizzazione e le regole altrui dagli attacchi esterni». F. De André – Sotto le ciglia chissà – i diari, Mondadori, 2016, pg. 27

20Riecheggiano le parole di un altro dei ‘cattivi maestri’ anarchici di De André, Max Stirner: «Le nostre teorie penali, che si tenta invano, con grandi sforzi, di «migliorare tenendo conto delle esigenze dei tempi», vogliono punire gli uomini per questa o quella «azione inumana», ma quel che viene alla luce è piuttosto l’assurdità di quelle teorie perché, seguendole fino in fondo, vengono impiccati i ladri piccoli, mentre i grossi vengono lasciati circolare in libertà. Per la violazione della proprietà c’è il carcere e per la «coercizione del pensiero», per la soppressione dei «diritti naturali dell’uomo», invece, soltanto rimostranze e petizioni». M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, 1999, pg. 252.

21M. Daverio – Legge naturale e diritto naturale, 2023

22S. Ilario è, effettivamente, un quartiere di Genova. Nelle incisioni in studio successive alla prima diventerà San Vicario, ma nelle versioni live De André canterà sempre il nome fedele alla realtà dei luoghi.

23Bocca di rosa fu pubblicata come singolo la prima volta nel 1967, nel 45 giri Via del Campo/Bocca di rosa e quindi inserita nell’album Vol. 1 dello stesso anno.

24Sogno numero due, in Storia di un impiegato, 1973.

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