Autofiction, un estatto dal nuovo romanzo di Iacopo Barison
Pubblichiamo, ringraziando editore e autore, un estratto dal romanzo di Iacopo Barison Autofiction, uscito per Fandango Libri.
Orlando, per esempio – anche se questa cosa non la sa nessuno, e lui stesso fa ancora molta fatica ad ammetterlo –, è diventato il tipo di uomo che a ventinove anni, meno di un’ora prima di averne trenta secondo una scansione convenzionale del tempo, ha tentato di tentare il suicidio passeggiando su un cavalcavia sopra i binari della stazione, con la zip del giubbotto alzata solo a metà. Si era bloccata così, non saliva e nemmeno scendeva, perciò aveva infilato il piumino dal basso come se fosse un maglione, cercando il buco per le braccia e poi quello per far sbucare la testa. Toglierlo avrebbe richiesto la medesima procedura, però all’inverso. In ogni caso non l’avrebbe tolto mai più, se il piano di lasciarsi travolgere dal treno delle 23:15 fosse andato a buon fine. Riusciva solo a pensare che era la prima volta che si sarebbe lasciato travolgere da qualcosa. Anzi no, si era sempre lasciato travolgere – da tutto, da tutti – e lui era colpevole di non essere stato travolgente per indole.
A casa non aveva lasciato nessun biglietto di addio. Sofia e le relazioni sociali più intime (il gruppo ristretto che lo conosceva abbastanza bene da poterne intuire le fragilità, purtroppo i suoi colleghi di lavoro) alla fin fine non avrebbero capito, in compenso se lo sarebbero aspettato da uno come lui, con quegli occhi tristi da animale abbandonato, per cui a loro non doveva fornire spiegazioni, tantomeno ne doveva agli estranei che avrebbero letto la notizia sulle cronache locali. Aveva scelto l’ultimo treno in arrivo su quel binario per non congestionare il traffico. Non ne sarebbero arrivati altri fino all’indomani mattina. Di conseguenza, il personale ferroviario avrebbe avuto tutto il tempo per gestire l’imprevisto di un cadavere sulle rotaie, con le ossa fracassate e la zip del giubbotto bloccata in un limbo intermedio, né su né giù, com’era probabile che sarebbe accaduto alla sua anima di peccatore. (In base al culto maggiormente diffuso nella nazione dov’è cresciuto, cioè l’Italia, uccidersi era vietato, ma non lo era vivere in sofferenza, con la promessa divina di venire ricompensati post mortem).
Il cavalcavia era libero. La rete protettiva era più bassa di lui e facilmente scavalcabile, a dispetto del suo scarso talento atletico. A una manciata di minuti dall’arrivo del treno, si è arrampicato e messo a cavalcioni sull’orlo di una voragine con cui ormai si trovava in confidenza, dopo una vita passata a reprimere la volontà di buttarsi. Una gamba penzolava sul marciapiede e l’altra sul futuro, che in questo caso significava smettere di averne uno, per sempre. Inoltre, aveva saltato l’ultima cena a sua disposizione, e adesso aveva fame. Ha pensato che avrebbe potuto fare di meglio, con un minimo di preavviso, ma se n’era dato troppo poco perfino per ordinare una margherita, ed era stanco e sufficientemente depresso da mandare a puttane ogni rituale del condannato, perché se Orlando fosse stato un cane, avrebbe avuto 203 anni, quasi 210, e il logorio che sentiva dentro lo persuadeva di avere almeno un secolo in più, ed è proprio la saggezza data dall’esperienza che gli aveva fatto mettere in dubbio il suo credo spirituale, che in quest’altro caso (all’opposto del futuro) significava iniziare ad averne uno. Poteva anche darsi che esistessero nuove dimensioni in cui, be’, semplicemente esistere, e farlo in maniera attiva, non soltanto nei ricordi dei famigliari che visitano la tua tomba nel fine settimana, degli amici che brindano alla tua memoria con una pinta di birra, delle ex fidanzate che raccontano ai fidanzati successivi di come il tuo suicidio le abbia spronate ad andare in terapia. E se queste dimensioni extraterrestri c’erano, di sicuro Leone e Agata le stavano già incasinando a suon di scopate, battute iconoclaste, litigi e romanticismo sfrenato, ma le avrebbero incasinate ancora di più se l’avessero visto arrivare ad appena 203 anni canini, e lui gli avesse spiegato che morire così giovane era stata una sua decisione.
Non poteva rischiare di averli contro per l’eternità, ammettendo che quest’ultima potesse essere abitata dagli spiriti dei defunti. L’aveva realizzato quando la prima carrozza spuntava da lontano, seguita dalle altre, seguita dal pensiero che uccidersi avrebbe rovinato, a catena, anche il trentesimo e tutti i compleanni a venire della sorella, che in quel frangente era a metà del terzo gin tonic e stava scrivendo la propria personale ode alla frivolezza, in compagnia di Monica e di una decina di persone del mondo dell’arte – figure con cv nebulosi, in genere trenta- quarantenni, molte delle quali in scarpe da ginnastica –, mentre guardava il ghiaccio sciogliersi in un bicchiere della tipologia tumbler basso e aumentare così il livello del liquido, che lei cercava di ridurre fra commenti spiritosi e volatili gaffe su chi aveva scopato con chi, perfettamente conscia che Monica, allo scoccare della mezzanotte, l’avrebbe interrotta per metterla (perfino di più) al centro dell’attenzione.
Sofia sapeva anche che quel posto non era ancora di tendenza, tuttavia ci si erano già localizzati diversi profili Instagram della sua bolla, per cui presto lo sarebbe diventato e molti dei nuovi avventori, riempiendo di qualche megabyte la memoria interna degli smartphone, avrebbero fotografato l’enorme ulivo andaluso in fondo alla sala, incastonato in una specie di cavedio di vetro. Sempre Sofia sapeva di aver scelto un look che reputava conforme alla serata, copiando un’ideale di bellezza “hip” e incollandoselo sul corpo, ma ignorava invece che Orlando stava per perdere l’equilibrio e cadere giù, nonostante avesse deciso di non farlo, con il treno ormai prossimo a passargli sotto le gambe.
A lei è vibrata una palpebra – l’ha scambiato per un sintomo di stanchezza.
Al fratello è vibrata nello stesso istante, dopo aver ripreso il controllo del proprio baricentro, ma ha deciso che quello non era affatto un segnale di stress, bensì di attaccamento alla vita. Il suo organismo non era ancora pronto a spegnersi. Glielo stava provando a comunicare dall’interno, con delle piccole scosse telluriche, e lui per fortuna l’ha ascoltato, come ha ascoltato la tossicodipendente che sulla strada verso casa – avvicinandosi nel senso opposto, reggendosi su una stampella – gli ha chiesto se fosse un giocatore di basket ricco e famoso, vista la sua altezza, e se per caso lo era, non è che poteva aiutarla a pagarsi l’operazione al polpaccio? Le faceva un male cane, e continuava a gonfiarsi, e non aveva ancora capito il perché. Orlando ha preso il portafoglio e gliel’ha aperto davanti. Lei ha sbirciato per capire quanto ci fosse dentro, ma certo non si aspettava che le desse tutti quei soldi, così ha agguantato le banconote, le ha stropicciate in tasca e gli ha detto un po’ incredula che aveva fatto una buona azione, per questo avrebbe vinto le prossime cento partite e sarebbe stato sempre il migliore in campo.