Bergamo e la marea: un estratto dal libro di Davide Maria De Luca
Pubblichiamo ringraziando editore e autore, un estratto dal libro di Davide Maria De Luca Bergamo e la marea, uscito per minimum fax.
di Davide Maria De Luca
La prima volta che Isaia Invernizzi sentì parlare di coronavirus a Bergamo era il 31 gennaio. Quel giorno due cinesi, marito e moglie, atterrati all’aeroporto Malpensa di Milano erano stati trovati positivi al coronavirus mentre visitavano Roma.
I suoi capi gli chiesero di indagare su come i bergamaschi avessero preso la notizia. Invernizzi è un giornalista dell’Eco di Bergamo, una delle colonne portanti della sezione cronaca del giornale. Di solito lavora in uno stanzone con una ventina di scrivanie nell’imponente palazzo a due passi dalla stazione dove ha sede il quotidiano.
Fino a quel momento, il coronavirus era stato un problema remoto per i bergamaschi. La televisione ne parlava da circa un mese e proprio quel giorno l’Organizzazione mondiale della sanità aveva proclamato che l’epidemia in Cina era una «emergenza sanitaria di livello internazionale». Era lo stesso allarme che era stato proclamato undici anni prima ai tempi dell’epidemia suina. Ma alla fine di gennaio non c’era ragione di pensare che quell’epidemia remota si sarebbe sviluppata diversamente dalle altre epidemie del recente passato, dalla suina alla Sars ed Ebola: un dramma per molte persone dall’altra parte del mondo, certo, ma non un pericolo immediato per la piccola e operosa città di Bergamo.
Se c’era qualcuno preoccupato per la malattia, pensava Invernizzi quel giorno, doveva essere un viaggiatore, un individuo che potesse temere di entrare in contatto con persone provenienti da Wuhan o dalla Cina. Invernizzi è un trentaquattrenne con lo sguardo attento e un paio di occhiali tondi che contribuiscono a dargli un’aria da nerd. È un appassionato di dati e numeri, un patito di tecnologia e data journalism. La cosa che preferisce è prendere un grosso file Excel pieno di dati e passarlo al setaccio fino a che non ne viene fuori una storia. Ma non disdegna nemmeno il buon vecchio lavoro di gambe che consuma la suola delle scarpe. In giro per la provincia ha una rete di quelle che definisce le sue «sentinelle»: sindaci, assessori, medici, con cui si consulta regolarmente a caccia di notizie.
Quella mattina aveva deciso di cominciare il suo giro proprio all’aeroporto di Orio al Serio. Si era rivelata un’intuizione fortunata. Alla farmacia dell’aeroporto gli dissero che mascherine, disinfettanti e guanti sterili erano andati tutti esauriti negli ultimi giorni. La tappa successiva della sua ricognizione furono i negozi e i ristoranti cinesi della città. Nel giro di una giornata, i clienti italiani erano spariti e i proprietari cinesi sconvolti. Un paio di ragazzi che gestivano un ristorante erano particolarmente increduli. «Siamo nati in Italia, in Cina non ci siamo mai stati», gli dissero, ma ugualmente il loro locale era vuoto.
«In città si era già diffusa la paura dei cinesi», ricorda Invernizzi. Il coronavirus sembrava ancora una calamità lontana ai bergamaschi, uno stigma degli stranieri, che si poteva evitare girandogli a largo. L’articolo di Invernizzi uscì il primo febbraio e rifletteva questa situazione ambigua. «Nel pezzo trattavo i timori delle persone come una cosa un po’ assurda», dice oggi, «scrissi che il virus era ancora a migliaia di chilometri e mi domandavo se le persone stessero facendo bene a iniziare già a preoccuparsi. Riletto con il senno di poi…» Invernizzi sorride un po’ a disagio e non conclude la frase.
Non era il solo a pensare che il coronavirus fosse un problema che non riguardava il nostro paese. In quei giorni, il popolare virologo e divulgatore Roberto Burioni aveva detto in televisione: «In Italia il rischio è zero. Il virus non circola», e le autorità sanitarie la pensavano allo stesso modo. In un protocollo diffuso il 27 gennaio dal ministero della Salute, era scritto che soltanto le persone provenienti dalla Cina o che avevano avuto contatti con le aree di maggior diffusione del contagio in quel paese dovevano essere sottoposte a tampone. Questo protocollo estremamente restrittivo ne aveva sostituito un altro, pubblicato pochi giorni prima, in cui si stabiliva di testare per coronavirus tutti coloro che manifestavano polmoniti sospette (se questa prima circolare fosse stata ancora in vigore a febbraio, Angiolina Cavalli e decine di altre persone, probabilmente, avrebbero ricevuto un test). Ma subito dopo la sua emanazione, le autorità sanitarie si resero conto che le scorte di reagenti necessari a effettuare i test a disposizione delle varie autorità regionali erano insufficienti per mantenere criteri così ampi.
In tutta la provincia di Bergamo, ad esempio, c’erano materiali per fare soltanto qualche decina di test. Sarebbero andati esauriti in pochi giorni se si fosse deciso di testare tutte le polmoniti sospette. Invece che entrare in conflitto con le regioni, imponendo loro di aumentare le scorte, il governo e i suoi consulenti preferirono restringere i criteri per effettuare i test.
Per settimane, né il pubblico, né i giornalisti come Invernizzi seppero nulla di questo balletto di circolari. Anche dopo la scoperta dei due turisti cinesi positivi al virus, le autorità sembravano più preoccupate per gli effetti del panico sull’economia che una grande mobilitazione di risorse e strumenti di prevenzione avrebbe potuto causare, che non di una potenziale epidemia.
Senza tante altre notizie da seguire, all’Eco di Bergamo si limitarono a coprire la preoccupante evoluzione dei due pazienti cinesi ricoverati all’ospedale Spallanzani di Roma. Entrambi erano stati intubati e si trovavano in terapia intensiva, un pessimo segno per il futuro. Ma la sensazione di quei giorni, ricorda Invernizzi, era che il virus si potesse circoscrivere e che non dovesse essere poi così contagioso.