Due estratti da “L’Anno del Fuoco Segreto”

L’antologia L’Anno del Fuoco Segreto (Bompiani) a cura di Edoardo Rialti e Dario Valentini sarà in libreria il 17 maggio. Questi estratti sono gli incipit dei due racconti degli autori/curatori.

Il Drago delle Rose

di Dario Valentini

“Tu e le tue cazzo di piante. Pensi sul serio che ci ascoltino?” Bramante fece precipitare le dita sui tasti. Persino con quel gesto di stizza non era riuscito a evocare cacofonia, ma solo dissonanza: un suono tesissimo che chiedeva una giusta chiusura alla progressione melodica, non di interromperla.

“Ci ascoltano e ci capiscono pure. La devi fare perfetta, niente scuse.” Altieri ordinò all’allievo di ripetere per la millesima volta un passaggio del Chiaro di Luna che non gli veniva. Il primo movimento era alla portata di chiunque o quasi, anche se farlo per bene era un’altra storia, il terzo invece richiedeva un’articolazione perfetta e più staccavi più era pulito e d’impatto. Un casino.

La sala principale del Teatro del Maggio era vasta e ombrosa, isolata dal mondo esterno in una bolla di silenzio e melodia, come una gigantesca cassa di risonanza. Le pareti erano rivestite in legno di pero e attraversate da una fitta rete di catene di rame per trasportare il suono senza distorsioni. Bramante, a volte, ci perdeva le ore a ripetere una parola finché non si svuotava di senso e rimaneva solo il suono. Firenze aspettava quel teatro dalla fine della Seconda guerra mondiale. Era un torrione squadrato ed enigmatico, costruito tra il centro monumentale e la periferia.

“La pandemia ti ha mandato fuori di testa. Sei rimasto chiuso troppo tempo da solo a blaterare alle fioriere e adesso te ne vieni fuori con questo troiaio” continuò Bramante.

“Oh finché sei tu che parli con loro non c’è problema, è quando ti rispondono che sono guai.”

“Non so cosa sia peggio guarda, il fatto che stiamo preparando un concerto per una foresta, convinti che ci ascolti, o che glielo facciamo con degli strumenti di legno!”

“Eh?” Altieri inarcò un sopracciglio folto e grigio.

“Prova a pensarci. Rimaniamo nella tua logica bacata, immagina se ti facessero ascoltare musica fatta con pezzi di carne umana, ti farebbe schifo, no?”

“Tipo il canto?” Altieri rise “ne ho sentito parlare, dicono non sia malaccio.”

“Hai capito” Bramante sbuffò, si ricordava ancora la lezione sui kangling tibetani ricavati dalle tibie dei monaci morti. Avevano un suono orribile, come di uno spirito che implorava di lasciarlo in pace. Ma forse era quello il punto.

“Sei stronzo… ma non hai tutti i torti. Cosa proponi?”

“Che magari non gli facciamo sentire la solita sinfonia a queste foglioline.”

“Vuoi fargli Gershwin?”

“No.”

“Šostakóvič?”

“Non è una questione di chi gli suoniamo, ma più di come glielo suoniamo.”

“Ah vuoi fare una di quelle cose contemporanee che provi a rifilarmi da quando sei tornato?” Altieri  strinse gli occhi come un gattaccio.

“Esatto, un arrangiamento solo per strumenti elettronici. Per non urtare la loro sensibilità vegetale, capisci? Se proprio vuoi parlarci, facciamolo per bene.”

“Mi pare già una cazzata” Altieri si coprì gli occhi con la mano e poi ravviò all’indietro i capelli argentati e appena radi sulle tempie. “Spiegati meglio.”

“Sintetizzatori al posto degli archi, drum machines al posto delle percussioni e così via.”

Altieri si passò l’idea in bocca, non era uno di quelli che odiava la classica moderna, ma arrivava al minimalismo spiralante di Steve Reich, alle effusioni cinematografiche di Max Richter o, al massimo, alle dissonanze deragliate di Thomas Adès, mentre Bramante era già oltre, nativamente ibrido: amava Emma O’Halloran, integratrice provetta di elettronica e acustica, Tigran Hamasyan, stupratore autistico di pianoforti e i Mouse On The Keys, apocalittici kamikaze jazz. Affidare la direzione artistica del concerto a quel cagacazzi sarebbe stata una bella scommessa. Ma forse gli avrebbe pure dato una svegliata.

“E va bene, vuoi fare l’avanguardia? Facciamola! Dirigi tu.”

Bramante sentì una morsa allo stomaco. Inspirò aggrappandosi alla tastiera “Sei serio?”

“Beh, se dobbiamo sperimentare, meglio farlo quando il pubblico non può scappare e… non paga.”

“Oh grazie! Faremo una cosa incredibile, vedrai.”

“Però non mi devi rompere le palle quando torniamo alla programmazione normale. Niente lamentele o boiate strane sussurrate di nascosto agli altri musicisti. Mi sono spiegato?”

“Parola di boy scout.”

“Vai a cagare giovane Maestro, ora vediamo cosa sai fare!”

Per Altieri il Teatro del Maggio era un posto speciale, ci aveva suonato per la prima volta negli anni settanta e aveva sempre sognato di diventare uno dei suoi direttori. Vederlo così, tutti i sedili tenuti abbassati dai vasi e occupati da fiori e piante varie, gli faceva un effetto strano. Gli assembramenti però erano ancora vietati e così gli era venuta in mente quell’idea per continuare a suonare e fare pure un po’ di pubblicità. Il sindaco e la sua giunta – pur non capendoci un beneamato cazzo di musica – erano andati in brodo di giuggiole e l’avevano anche aiutato con l’allestimento. In platea, calici e corolle dai colori vertiginosi si alternavano a germogli più comuni e a escrescenze smeraldine e lussuriose.

C’erano rose impettite, piccoli ciclamini montani, gerani pieni di dignità e ginestre indifferenti, gelsomini rampicanti dai fiori bianchissimi e profumati, orchidee di tutte le sfumature, calle funebri, girasoli smargiassi e perfino oleandri dalle intenzioni chiaramente malefiche. C’erano arbusti e alberelli, melie e magnolie imperscrutabili, limoni, olivi e altri piccoli alberi da frutto. In fondo si vedevano pure alcuni ortaggi: pomodori datterini, zucchine fiorite e radicchi variegati, un po’ fuori luogo, inseriti forse a mo’ di scherzo, ma perché escluderli? Di molte altre specie non avrebbe saputo dire neanche il nome. Pareva il giardino diffuso di qualche maharaja eccentrico. Spettatori strani di certo, ma silenziosi, e nei brevi intervalli tra un pezzo e l’altro non avrebbero applaudito in maniera incongrua rovinando l’atmosfera: quella tensione che si creava poco prima che iniziasse il passaggio successivo e che era uno dei suoi momenti preferiti, quasi sempre guastata da qualche stronzo che non sapeva stare zitto e da qualcun altro ancora più stronzo che gli diceva di stare zitto. E poi, di sicuro, non potevano aver portato i cellulari. Eppure Altieri non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che li stessero osservando, con occhi verdi come i raggi del sole tra le foglie.

Proprio al Maggio, Altieri aveva conosciuto la sua prima ex moglie, Lavinia De Marchi. Violinista bruna, testarda e con le tette perfette. Era una donna all’antica che per chiedere il divorzio ci aveva messo parecchio, quando le scappatelle del marito erano diventate impossibili da ignorare. C’erano volute due violoncelliste, parecchi fiati e persino la segretaria organizzativa. Altieri si era risposato altre due volte e aveva divorziato altrettante, in rapida coerente successione. Non aveva avuto figli e, da un certo momento in poi, si era dedicato completamente alla musica. Tra i suoi allievi, Bramante era stato senza dubbio il prediletto. Forse perché era un pianista davvero cazzuto, con un tocco e una sensibilità singolari. Forse perché aveva ambizioni non solo da direttore, ma anche da compositore, cosa che ad Altieri era sempre mancata. Forse perché, in una coincidenza freudiana persino banale, il suo vero babbo se l’era filata e Bramante era rimasto eversivo e plastico come un adolescente. Il perfetto figlio putativo. Portava i capelli lunghi e mai pettinati, gli orecchini grossi, le unghie laccate di rosso, e si credeva una rockstar. Ai tempi di Altieri, a presentarti conciato così, ti avrebbero preso a calci in culo fino all’Osmannoro. Eppure quello era anche il suo dono. Chiunque ambisse a condurre doveva avere la forza di far ‘partire’ l’orchestra persino prima di arrivare sul palco ed era qualcosa che non si poteva insegnare, ogni direttore aveva il suo modo: fiducia, paura, ammirazione. Per Bramante si trattava di sfrontatezza e stramberia. Lasciava gli strumentisti senza parole e quindi senza possibilità di replica. Altieri dirigeva con occhi, bocca e polsi. La sua bacchetta era un’estensione dell’indice. Bramante con braccia, spalle e capelli. La sua bacchetta era una sciabola d’acqua. L’ultima trovata di quel coglioncello presuntuoso era stata un’improvvisa fuga all’estero, ufficialmente per motivi di studio, per cui Altieri si era ingoiato un litro di bile. Forse avrebbe dovuto essere arrabbiato ma, in tutta onestà, quando quel vagabondo era tornato si era scoperto solo contento e l’aveva ripreso all’ovile.

Bramante invece, che per un anno si era dedicato a una zingarata che l’aveva portato a suonare per tutta Berlino, tra orchestre, jazz band e progetti vari, mal sopportava il Maggio. Diceva che era pieno soltanto di vecchi fiorentini rincoglioniti e che a Berlino invece la musica classica era sul serio aperta a tutti e in sala ci potevi trovare gente d’ogni risma: fanatici, famigliole, bellone in vestito da sera e pure ragazzotti dell’Università che arrivavano a piccoli branchi e cercavano di portarsi in teatro qualche schifezza da mangiare o da calarsi.

In più, spesso c’erano serate sperimentali molto frequentate dagli addetti ai lavori: musicisti di metal sinfonico o compositori di elettronica in cerca di suggestioni. Bramante aveva raccontato ad Altieri di quella volta che ci aveva incontrato Hans Zimmer e pure una popstar americana, di cui non voleva rivelare il nome perché ormai celeberrima, che gli aveva fatto un pompino vigliacco con risucchio veramente da Oscar. Non era certo tornato per nostalgia della scena fiorentina, ma perché a sua madre era stato diagnosticato un tumore ai polmoni e le restava forse un annetto, di cui Bramante voleva perdersi il meno possibile. Questa iniziativa ‘Plantastica’ del suo maestro non lo aveva colpito particolarmente, preso com’era dalle sue disperazioni. Onestamente della flora non gli era mai interessato granché. Non che fosse uno di quelli a cui il verde faceva schifo, semplicemente non ci badava neppure, era sempre stato più felice nell’arte che nella natura. Inizialmente aveva trattato le piante con indifferenza, attraversando su e giù il teatro come non ci fossero, erano state solo una buona scusa per fare la musica che voleva lui e guadagnare qualche prezioso centimetro di carriera. Poi però, i giorni in cui era più nervoso, aveva iniziato a sfogarsi scostando con irritazione le fronde delle acacie più impertinenti e i rametti dei ciliegi. A volte, per scaricarsi dalla tensione post-ospedale o pre-spettacolo, quando sua mamma aveva certe notti di tosse sanguinolenta o gli altri musicisti non capivano bene la sua visione, rivolgeva pernacchie ai pitosfori e battutine alle zinnie che gli parevano sempre più squinzie e, in un momento in cui si era sentito particolarmente giù di corda, aveva deciso di raccontare le sue disgrazie a uno spelacchiato larice alpino ricevendo in cambio solo un apprezzabile silenzio. Si era ritrovato ad abbracciarne il tronco rugoso, con un sogghigno e uno sbuffo.

Aveva sentito da qualche parte che era terapeutico. ‘Forest Bathing’. Le fricchettone che ne decantavano le proprietà benefiche non si contavano. Per abbracciare con profitto gli alberi dicevano di camminare in un parco o in un bosco, scegliere la pianta giusta, accarezzarne la corteccia, sentire il profumo del legno, cingerla con delicatezza e intensità, fino a sentirsene parte. Secondo quella teoria, abbracciando un albero il suo peculiare schema vibrazionale avrebbe dovuto interferire positivamente coi meccanismi biologici del corpo umano. Ritraendosi Bramante aveva avuto persino l’impressione che le maonie educate a siepe lì intorno lo accarezzassero con le loro fogliette obovate e gli battessero sulle spalle con tante piccole manine facendo “Ciao poverino ciao”.

Forse erano tutte cazzate new age, roba imbarazzante solo a ripensarci. Se gli altri musicisti – specialmente quella fica-stronza, ma proprio fica della violoncellista – l’avessero beccato così, si sarebbe buttato in Arno coi sassi in tasca. Però doveva ammettere che i fiori vermiglio del melograno e quelli rosa del pesco erano davvero uno spettacolo. Musica da guardare. La mattina della prima Altieri l’aveva trovato seduto con in braccio una piccola rafflesia, un vortice di perla e sangue.

(Continua…)

 

 

Iniziativa di ordine superiore

di Edoardo Rialti

Bisogna pure cominciare da qualche parte, tanto vale farlo dalla Pawa.

Ce n’erano almeno tre migliori, in zona. Alla Runner ci stava pure la spa, a Skoda e Azzurra giravano le ragazzine, con tutti quei corsi coi nomi inglesi, la Pawa invece non cambiava pesi e macchinari da dieci anni, persino la musica pareva più vecchia. Un po’ come certe palestre delle città di mare, che in qualche modo sembrano ferme sempre agli anni novanta. Un’unica sala grande, più altra mezza ricavata da un garage, luci al neon per gli zompi di qualche vecchia la mattina e la boxe alla sera. Il proprietario adesso era un filippino che non spiccicava parola, e pareva infastidito a ogni nuova iscrizione. Roba per chi non vuol spendere, barbe bianche in canotta col ventre gonfio e Tony, altri filippini, ragazzi che in posti così si sentono più cazzuti ancora. Il Bomba li aveva conosciuti lì, Massimo a tirare di sacco pure lui e quell’altro, Lele, sempre in sala, invece. Massimo si attaccava con un braccio solo alla sbarra, raccoglieva le gambe al petto e guardava Lele alle trazioni. Perché non fa boxe pure lui, gli aveva chiesto il Bomba mentre correvano in cerchio, sembra fatto apposta, quanto cazzo sta sollevando laggiù, cento-centoventi? Quanto è alto, due metri? Che massello porcodio. L’altro, secco e olivastro che pareva uno zingaro, aveva sbuffato un sorriso e scosso indietro i capelli neri, lunghi e sottili pure loro, tastandosi il lobo e accorgendosi che non s’era tolto l’orecchino di brillante. Non ne ha bisogno.

Il sole è già alto ma la nebbia fuma ancora dall’acqua dei canali, lo vela e ne fa una macchia bianca, pulsante. Presto la luce si farà strada, squarcerà ogni velo e i colori diventeranno accesi e belli. Il rosso dei castagni nel boschetto del palazzo sotto di me. Il verde e il giallo dei templi e delle case. Il blu chiazzato di scuro dell’acqua sporca. Chiudo gli occhi sul balcone, inspiro a fondo. Sono nudo, eccetto la corona e i gioielli. Il pettorale di smeraldo è freddo sulla curva piena del petto, lo copre fino ai capezzoli. Ancora ieri sera, al banchetto, gli ospiti lo sfioravano e lodavano, lucido d’olio rosso alla luce delle fiaccole. Ancora ieri notte, le tre dee lo strizzavano e percorrevano con la bocca. Nonostante fosse l’ultima notte, non me n’è venuta alcuna tristezza. Dormono ancora, sul grande letto bianco. Da qui posso vedere le gambe snelle, intrecciate. Ho dato il seme a ciascuna, e adesso il mio pene e i testicoli riposano al tepore della pietra della balaustra, che si scalda. Come tutto è giusto e bello. Sopra di me, Nanauatl stende le braccia in cielo, diffonde il suo calore su tutta la terra. Sotto di me, Tonantzin respira piano sotto e dentro la pietra, adorna di case alberi acque che le gocciolano tra i seni e nelle pieghe del ventre immenso, smagliato da innumerevoli parti. Maishi mi soffia gentile su schiena e natiche. Xochipilli e Xochiquetzal stanno alla mia destra e alla mia sinistra, adorni di fiori bianchi e neri, mi tengono per mano prima di lasciarmi per sempre. Il mio corpo è un libro, le parole frusciano e fremono su cosce e braccia, su fianchi e collo, sulle mie palpebre chiuse.

Per un po’ li si vide spesso insieme, il Bomba e Massimo e Lele, si davano appuntamento alla Pawa e poi uscivano tutti e tre. Di sicuro il Bomba e Massimo, che chiacchieravano entrambi a manetta, Lele non lo si sentiva parlare quasi mai. Il Bomba era magro pure lui, più basso di Massimo, trentacinque anni, napoletano, capelli corti che già mostravano la pelata, tratti minuti che lo facevano sembrare più giovane, occhi tondi. Poi il Bomba non lo si vide per qualche settimana, e quando tornò lo fece a orari diversi, e qualche tempo dopo Massimo e Lele non vennero proprio più. Gli si chiese che facevano. Lui disse che non lo sapeva, non li sentiva. Sembrava volesse cambiare argomento. Si mise pure a parlare con quella coppia di finocchi, uno giovane e l’altro che pareva il babbo. E dire che di solito non se li sarebbe filati di striscio. Lo spogliatoio puzzava di vernice e legno umido. Meglio così, fece chi aveva domandato, con quella pertica d’omo in sala la panca te la scordavi. Oh non si schiodava.

Il Bomba lo chiamavano così perché le sparava sempre altissime e poi faceva Boom agitando il pugno chiuso. Anche l’ultima volta ch’erano usciti insieme, per incontrare una di cui gli aveva scritto Massimo, entrando in macchina aveva appena detto ciao che era già partito. Oh, stasera cazzi durissimi. Boom. Era novembre, faceva freddo, le luci gialle del viale tra gli edifici grigi erano fasci sformati nella nebbia.

Il mio corpo è un libro, strumento di profezia, proclama le imprese di vento e luce del futuro. Il sole adesso brilla in cielo, la foschia sfavilla, l’esercito degli spettri è imperlato di rugiada. Allungano le braccia al cielo, benedicono e si fanno benedire. Le stelle sono gocce di sangue. Non le vedo più, ma premono sulla pelle come spilli, oltre il velo azzurro. Anche loro sono un libro. C’è una canzone, dentro la mia nuca, che si lamenta piano, lontana. Avanza su un corridoio lunghissimo. Presto mi arriverà alla bocca, prenderò a scandirla senza suono, come i bambini che imparano a parlare. Per tutta la settimana ho fatto piovere sulla città, tranne ieri che è stato limpido e fresco. I preti dicono che è una buona cosa, come la pausa per il balzo del guerriero e del leone di montagna, come Mextli che flette le braccia prima di lanciare il giavellotto. Un atto commendevole e gradito a tutti. Sono stato un buon dio, mi dicono. È strano fare qualcosa, e non sapere come. Faccio piovere, sostengo il sole, massaggio le giunture legnose di Omeciuathl, eppure non so ancora come. È legge comune, mi dicono i preti, per bestie uomini e dei. Nessuno controlla davvero il respiro, o il fluire del sangue, le combustioni interne e il sudore sotto le ascelle. Adesso non so come eppure lo faccio. Presto lo saprò, confronterò libro con libro, alto come l’inimitabile falco e continuerò a farlo.

Ohi, spero questa sia troia per davvero, l’altra volta mi son fatto leccare solo le palle mentre ve la giravate, manco in culo se l’è fatto mettere. Il Bomba si accese una sigaretta. Dietro Massimo succhiò l’aria, chiese a Lele se avesse del deodorante nel borsone, perché puzzava. Forse, guarda un po’, disse Lele. Teneva spesso gli occhi socchiusi, come fissasse il sole.

C’era stato anche un altro, qualche mese prima, che chiacchierava meno ma sapeva comunque far da sponda alle cazzate di Massimo, l’alfabeto minimo dei porno guardati da entrambi, tipo darsi il cinque e sogghignare con tutta la lingua di fuori mentre si spartivano bocca e figa. Ma dopo che si erano visti con due tipe e tornavano in macchina e quello sorrideva ancora beato, s’era improvvisamente fatto serio, la fronte appoggiata al finestrino, e aveva cominciato a raccontare che aveva cambiato lavoro da poco perché al negozio di scarpe di prima ci stava ancora la sua ex, e che quella lui non riusciva a schiodarsela e faceva troppo male. Quello nuovo era un posto di merda, il capo stronzo, ma vallo a spiegare a sua mamma che ogni settimana gli scassava i coglioni perché lo stipendio era da meno. Eh eh. Massimo tendeva il gomito del chiodo sotto la luce dei lampioni. Lele prese l’uscita al cavalcavia che portava verso una piazzetta con una chiesa abbandonata, le case basse a ricordare che trent’anni prima qui era ancora mezza campagna. La chiesa aveva una facciata bianca con un affresco sbiadito e arrossato sulla parte inferiore, le figure ridotte a una fila di gambe e sottane. Scendi, disse al tipo, poi gli mise una mano sulla nuca e gli sbatté la faccia a terra, una due tre volte.

Cinque ore dopo il Bomba tornò a casa che aveva la febbre. Non accese neppure una luce, si buttò a letto a faccia in giù, senza dormire senza pisciare, senza mai girare la faccia per paura di guardare la luna. Passò gran parte del giorno dopo seduto sul divano, con le mani sulle ginocchia e la testa in avanti, come se dovesse alzarsi da un secondo all’altro per il suono di un fischio invisibile. Aveva finito le sigarette.

Quando avevano portato l’americana al casolare per una spaghettata di mezzanotte, lei era già sbronza persa. Ridacchiava. Avrà avuto sui trentacinque, ma il bere la appesantiva parecchio. Orecchini pesanti, quasi un anello per dito. Parlava poco l’italiano. Era venuta a trovare una cugina più giovane che studiava a Milano, e aveva fatto sosta a Firenze perché era appassionata di cucina e Seconda guerra mondiale. Il Bomba aveva in camera dei bussolotti ritrovati col nonno in Appennino, dove passava la Gotica. Comunque gli ebrei stavano dietro a tutte le guerre, eh. Forse era l’unico che la ascoltava davvero, anche solo per le tette. Massimo annuiva al ritmo della cagate lounge che rifilavano, e intanto buttava occhiate intorno, valutava le altre, si rigirava l’anello all’indice. Il barista aveva il viso arancione per la camicia a quadri e il riflesso del bancone. Lele guardava l’americana. Non sei brava a dire le bugie, lui sorrise appena. Lei si rimise una ciocca bionda dietro l’orecchio in modo così banale da risultare improvvisamente più piccola e vecchia.

La mia nave è carica di fiori, li getteremo sul fiume man mano che procediamo, assieme alle mie vesti e alla corona di piume, mentre dondolo e lamento che il tempo ci spoglia come un’amante impaziente. Ho le narici bagnate di resina, mi aiuta a piangere. Ho le braccia spalancate, sento tendersi tutte le ossa del mondo. Ecco, i miei amici son tutti spariti, e qualcuno sa dirmi dove sono andati? Se lo chiedi al grano, quello scuote il capo, se alzi la testa al cielo, tace.

(Continua…)

 

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