“Fare il possibile”, un estratto dal libro di Claudio Bagnasco
Pubblichiamo, ringraziando autore e editore, un estratto da “Fare il possibile” di Claudio Bagnasco, in uscita il 10 aprile per TerraRossa Edizioni.
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25 novembre 1993
di Claudio Bagnasco
Oppure quella volta che avevamo occupato il liceo e ogni sera venivano a trovarci studenti delle scuole di mezza Genova, circolava anche un ragazzo taciturno delle magistrali che teneva sempre un cappello di lana verde in testa e aveva un fumo di una potenza inaudita grazie al quale era diventato il nostro idolo, io, Igor e Cinzia a domandargli di continuo dove lo prendesse e lui niente, fra l’altro l’unico mezzo sorriso che gli abbiamo visto è stato quando, al nostro ennesimo tentativo di conoscere la provenienza del fumo e alla sua ennesima risposta vaga, Cinzia gli ha detto: «Belin, ma fai come i fungaioli?», bastavano pochi tiri e ci sentivamo chi svuotato degli organi interni, chi proiettato in una solitudine cosmica, chi invecchiato di colpo di cinquant’anni, una sera ci siamo fatti una canna seduti sulle scale tra il primo e il secondo piano, il ragazzo con il cappello di lana verde è rimasto lì a fissare il vuoto, noi ci siamo risollevati con una fatica mai provata prima, Igor bianco cadaverico ha insinuato un dubbio rilassante: «Per conto mio è tagliato con l’eroina», Cinzia, che non capivo se avesse gli occhi aperti o chiusi, ci ha aggiornati sul proprio quadro clinico: «Sto morendo di sete», io mi ero messo a pensare a quanto sarebbe scomodo essere alti quattro metri.
Mentre cercavamo, gradino dopo gradino, di raggiungere gli altri prima di svenire, abbiamo incrociato una ragazza che a me è sembrata di una bellezza impossibile, era con due ragazzi, non avevo mai visto nessuno dei tre, chissà dove stavano andando, dove si nascondevano, ho sperato che volessero fumare e non fare nient’altro, la gelosia più istantanea della mia vita, comunque siamo poi riusciti a tornare in aula magna, dove Michele e Barbara stavano componendo l’ordine del giorno dell’assemblea dell’indomani, mi hanno chiesto un parere, ho detto qualcosa pur senza capire un granché, per via un po’ di quel fumo un po’ di quella ragazza di una bellezza impossibile, sono uscito dall’aula magna con una scusa e dopo un paio di giri l’ho ritrovata seduta sulla rampa di scale che portava alla palestra, assieme ai due di prima e ad alcune facce note tra cui Piero, peraltro a guardarli meglio (e mettendoli finalmente a fuoco) ho potuto constatare come la ragazza e i due fossero più anziani di noi, sui venticinque, ma ho considerato la loro età una conseguenza della nostra eroica occupazione, che aveva attirato anche gli universitari e presto avrebbe coinvolto gli operai e magari pure qualche ex partigiano, fatto sta che mi sono seduto sullo stesso gradino della ragazza di una bellezza impossibile ma all’estremità opposta, il tempo di inserirmi alla bell’e meglio nel discorso e uno dei due che prima erano con lei le ha detto: «Noi diamo un’ultima occhiata», che razza di frase, alla quale la ragazza di una bellezza impossibile ha giustamente risposto: «Io resto qua», i due si sono guardati, l’hanno guardata e si sono riguardati prima di levarsi di torno, senza di loro mi sono subito sentito più a mio agio, libero di argomentare, far battute, rivolgermi direttamente alla ragazza di una bellezza impossibile, che aveva un modo di risistemarsi gli occhiali quando le scivolavano sul naso, un modo che sarebbe bastato quello, a un certo punto mi sono spostato un po’ più vicino a lei, il giusto per farle intendere e non intendere, Piero si è messo a raccontare di quel pomeriggio in cui era stato inseguito da un cinghiale e aveva scampanellato in casa di sconosciuti urlando: «Cinghiale!», e l’anziana signora che gli aveva aperto gli aveva detto che stava preparando il minestrone, se poteva andargli bene ugualmente, e siccome era un episodio che ormai sapevo a memoria, appena Piero l’ha attaccato ho chiesto alla ragazza di una bellezza impossibile: «Birra o vino?», e lei: «Magari una birra», così sono andato in aula magna e sono tornato con una bottiglia di birra per lei (presa dal minifrigo che Matteo aveva avuto in prestito da sua madre in cambio di una futura sufficienza in latino) e una di vino per me e gli altri tre o quattro, che uno per volta, con calma, come se fosse capitato per caso, ci hanno lasciato da soli, quanto sono amabili quelli svelti di pensiero, allora la ragazza di una bellezza impossibile ha preso a spiegarmi cosa dava da mangiare al suo cane che il veterinario aveva messo a dieta, dal suo cane a dieta siamo passati alla mia attitudine alla pennichella, al suo assortimento di calze con le fantasie buffe, al fatto che fosse di una bellezza impossibile (concetto che ho sviluppato con un certo grado di attenuazione), al fatto che secondo lei fossi bello anche io, e ogni tanto si risistemava gli occhiali che le scivolavano sul naso e le veniva da ridere, e veniva da ridere anche a me perché più i discorsi diventavano intimi più di frequente gli occhiali le scivolavano, come se fossero collegati alla sua emotività, e all’ultimo sorso di birra mi ha detto: «Non sono molto abituata», io invece mi ero bevuto mezza bottiglia di vino, così quando la ragazza di una bellezza impossibile ha posato la testa sulla mia spalla la mistura di fumo, alcol e maggiore età appena conquistata mi ha fatto pronunciare una di quelle frasi meravigliose e rischiosissime se dette in certi momenti, ma che a ripensarle gettano in un imbarazzo senza rimedio, lei ha messo su un’espressione che se avessi due parole per descriverla la descriverei come di stupore e di felicità, primo in ordine di apparizione lo stupore seconda la felicità, poi si è lasciata baciare e ci siamo baciati per un tempo lunghissimo dopo di che, desideroso di condividere con lei altre forme di stordimento, le ho domandato: «Ce la fumiamo una canna?», e lei, facendo il passaggio inverso, dalla felicità allo stupore, mi ha detto: «Mi spiace tanto, sono della digos».
Il mio istinto è stato quello di assassinarla e occultare il cadavere, ma mi è bastato vederla risistemarsi gli occhiali scivolati sul naso per capire che non sarei riuscito nell’intento, allora l’ho ribaciata e le ho detto: «Che casino», e lei: «Faccio un lavoro di merda», e io: «Vedi tu», e dopo un altro bacio che già dava sulla disperazione mi ha detto: «Adesso devo proprio andare», e io: «Ma», e lei: «Non fate troppe cazzate e non tiratela troppo alla lunga, se no vi sgomberano con le cattive», poi mi ha accarezzato una guancia, mi ha baciato di nuovo e di nuovo le sono scivolati gli occhiali, glieli ho risistemati io dicendole: «Fai un lavoro di merda», e lei: «Vedi tu», e c’è uscito un inizio di risata subito inghiottito dalla situazione che risate proprio non ne prevedeva, infatti l’istante dopo la ragazza di una bellezza impossibile si è alzata per andare alla ricerca di quei due pozzi di simpatia dei suoi colleghi, mi ha fatto ciao con la mano e mi ha regalato un sorriso ultraterreno, che ho ricambiato come ho potuto, le ho detto: «Ciao», l’ho guardata allontanarsi e mi sono sentito come in uno di quei film in cui il cattivo parte per far fuori qualcuno ma poi se ne innamora e lo risparmia e a quel punto deve passare il resto della vita a fuggire dai suoi capi traditi, e mi piace pensare che se quella sera non hanno arrestato nessuno è stato merito mio, o meglio nostro, o meglio dell’esserci piaciuti come ci si piace in uno di quei film in cui il cattivo parte per far fuori qualcuno ma poi eccetera, e se tra cento anni la ragazza di una bellezza impossibile sarà ancora in fuga dai suoi capi della digos o anche solo da quei due stronzi di colleghi e ci rincontreremo io la nasconderò e proteggerò, forse mi capiterà di fare scudo col mio corpo alla pallottola destinata a lei, nel frattempo sono tornato in aula magna da cui stavano uscendo Michele e Barbara preoccupati perché avevano saputo che erano entrati tre tipi strani, potevano essere sbirri, e Michele: «Cerchiamo di stare attenti, eh?», e io: «Sì sì», e Barbara: «E magari anche sobri, eh?», e io: «Sì sì», poi con la coda dell’occhio ho visto seduto in una delle prime file il ragazzo con il cappello di lana verde, l’ho raggiunto, stava leggendo un fumetto, mi ha salutato buttando il mento in avanti, l’ho salutato buttando il mento in avanti, mi sono seduto di fianco a lui, mi ha detto: «Canna?», e io: «Bella carica, per favore».