“Il cuore è un guazzabuglio”: un estratto
Pubblichiamo, ringraziando editore e autore, un estratto dal libro di Eleonora Mazzoni Il cuore è un guazzabuglio, appena pubblicato da Einaudi.
di Eleonora Mazzoni
Alessandro è impegnato tutto il giorno con le sue bazzecole e non vuole essere disturbato, eccetto che da Claude, perché i rumori che menano sia i piccoli sia i grandi, i primi in far ragazzate, i secondi in far fardelli, producono in lui un effetto simile, anzi identico: quello di seccarlo.
La Storia. Che cos’è la Storia. Pensa Alessandro. Chi la guida. Procede su una linea. O è a spirale. Avanza. O si avvita. Un carcame di eventi con un disegno che la sovrasta. Oppure casuale. Regni, governi, terremoti, guerre e paci, nascite e morti, declino e prosperità so- no eventi staccati, fortuitamente combinati, un caos di possibili, un’accozzaglia inafferrabile di grazia e male scritto sull’acqua. Per un attimo sembra di captarne i nessi. Ma prima che tu possa dire «guarda!», quell’ordine è già ripiombato nel buio.
È come se in fondo alle vicende umane giacesse una sventura, una ferocia, un rimpianto. Una forza inafferrabile, senza regole evidenti. Un enigma insolubile. Perché il bene non accompagna sempre la vita dei giusti, il male quella dei reprobi? Perché chi è rispettoso nei confronti di Dio condivide la stessa sorte di chi lo ignora? Sono gli stessi interrogativi di Giobbe. A cui neppure Dio dà la risoluzione. Dov’era l’insignificante uomo mentre l’Onnipotente creava le meraviglie dell’universo? Ecco la sola risposta di Dio: un’altra domanda.
Alessandro esamina cause e concause, relazioni, motivi, analizza e scompone, ipotizza, non dà giudizi affrettati. La realtà terrena è un mistero di contraddizioni in cui l’intelletto si perde, se non lo si considera come uno stato di prova e di preparazione per un’altra esistenza. E Dio, nella profondità di sé, Alessandro lo percepisce. C’è. Impenetrabile, mette alla prova la pazienza e non interviene nelle faccende degli uomini. Perché Dio affida la Storia a loro. Genealogia della colpa, processo degenerativo, produzione precaria di accadimenti, la Storia non è opera Sua. La lascia agli uomini. Hanno il libero arbitrio. Che se la vedano dunque loro. Che dimostrino loro come si fa. Li giudicherà poi alla fine. Quando si ritroveranno lassú.
Non solo la data di inizio, anche quella della fine della prima stesura dei Promessi sposi è chiarissima: 17 settembre 1823. E un po’ impressiona vedere che il tempo di composizione del romanzo coincida con quello della vita e della morte della figlia Clara, quella bambina che, ancora attesa, stava per uccidere Enrichetta, per poi morire, «dopo averla vista a lungo soffrire», il primo agosto del 1823. Di morbillo, scarlattina o rosolia, non è chiaro. Sta di fatto che, per paura di un possibile contagio, sono costretti a seppellirla di notte, senza nessun accompagnamento funebre. «Bambina mia dolcissima. Tu risorgerai e brillerai come una stella. Ma com’è strano, ora, che tu sia nella pace e noi in guerra», scrive per lei Manzoni.
Quelle sue «cosí indegne esequie» non possono non rimandare allo strazio della madre che appoggia il corpicino vestito di bianco della piccola Cecilia sul carro sozzo dei monatti. Anche se Manzoni avesse scritto solo quelle pagine struggenti sarebbe stato un grande autore. Attraverso la compostezza del suo comportamento, la scelta degli abiti, la ritualità dei gesti, la madre di Cecilia impone un segno di umanità e di ordine nel mondo stra- volto dalla follia della peste. Ma tutto l’episodio, con l’immagine finale virgiliana del fiore rigoglioso che cade al passare della falce insieme al fiorellino in bocciolo, rappresenta il perfetto contraltare alla vigna distrutta di Renzo e il tentativo di dominare, grazie alla forma, le forze aggressive e regressive che fanno perdere il centro al cuore, una volta che si impossessano di lui.
È proprio perché nascono da motivi nevralgici sia affettivi sia civili, che I promessi sposi sono un libro politico ma non solo politico. Intimo, personalissimo, in controluce disseminato di luoghi, eventi, emozioni vissute in prima persona e, nello stesso tempo, universale e capace di parlare alle persone di ogni strato sociale ed epoca, «dalla portinaia all’astronomo», come diceva Carlo Dossi. E rivolto espressamente al pubblico femminile, come dichiara l’autore nell’introduzione del Fermo e Lucia. Un libro libero. Fuori dall’opprimente censura austriaca e da quella ecclesiastica altrettanto invadente. Manzoni non si preoccupa dei consigli di padre Tosi, non teme le critiche dell’abate Degola, si sottrae con furbizia alla polizia straniera e scrive un libro che è un carnevale. Il suo carnevale. Impreveduto anche a se stesso. Dinamico, fluido, antidogmatico, empatico nei confronti del mondo, pervaso da un sentimento popolare. Un libro che è una festa. Per il quale ogni mattina Manzoni si alza, scende nello studio, tira fuori dal cassetto dello scrittoio i suoi personaggi, li dispone davanti a sé, ne osserva le mosse, ne ascolta i di- scorsi, poi mette con felicità in carta e rilegge. Un libro con cui evade la realtà ma nello stesso tempo approfondisce le domande fondative dell’esistenza.
Dentro al romanzo Manzoni ci butta tutto. Pascal, Nicole, Bossuet e i suoi amati scrittori giansenisti, fregandosene di essere giudicato da loro troppo permissivo e, addirittura, un «avvelenatore pubblico». Ci butta dentro tutte le opere di Voltaire che ha consegnato a padre Tosi ma che sopravvivono nella macchina narrativa delle sue pagine e in una miriade di reminiscenze e congegni mentali. I libri vietati e messi all’indice di cui si avvale per le sue ricerche. La cura e la pazienza, la logica scientifica e il gusto per l’innovazione che utilizza in agricoltura. Ci mette dentro il «governo piú arbitrario combinato con l’anarchia feudale e l’anarchia popolare», le prepotenze, i soprusi, «la sfrontatezza nella corruzione». Ci mette la «sensazione di un che di ignoto che ci minaccia», gli abbandoni subiti nella sua infanzia e le nevrosi della maturità, le morti delle sue due figlie e quelle future che arriveranno, ci mette un matrimonio che non s’ha da fare come il suo con Enrichetta, la carestia e la fame, le rivolte e la peste. Ci incunea la fede restituita e Dio. Facendo diventare il romanzo, non le Osservazioni, la risposta piú convincente e articolata alle obiezioni di Sismondi nei confronti della morale cattolica. E ci porta tutto se stesso. Attraverso quel narratore che dialoga continuamente con i lettori, che forse è il vero protagonista del romanzo: non proprio Manzoni ma che, come lui, pone domande, a cui fa seguire spiazzamenti, non facili conclusioni. Grazie all’ironia che fomenta ancora di piú il sentimento dell’assurdo, allo stile «minchionatorio» che appartiene solo ai geni, all’umorismo che «è la letteratura dello scetticismo», come diceva sempre Dossi, convinto che «Manzoni – come ogni grande umorista – è scettico».
Cosí ne fa un meraviglioso libro di guerra e pace. Un libro d’amore. Di ogni tempo. E per tutti i tempi.