“Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino”: un estratto

Pubblichiamo, ringraziando editore e autore, un estratto dal libro di Davide Rigiani Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino, uscito per minimum fax.

Intanto si può già dire che tutto era cominciato la sera in cui il papà del Tullio aveva trovato un bruco geometra nell’insalata. Era agosto, un venerdì. Quel giorno il Tullio compiva dieci anni. Il bruco geometra in questione era un cosino piccino picciò, verde, lungo meno di un centimetro, sottile come il gambo di una margherita. Percorreva la foglia di lattuga con quel suo incedere da compasso, allungandosi e accorciandosi. Sembrava davvero che stesse prendendo le misure all’insalata.

Il papà del Tullio era un signore con una barba sale e pepe, niente capelli e un paio di occhiali con le lenti tonde come due OO maiuscole. «C’è un signore nell’insalata», annunciò.

Il Tullio, che era intento a rovistare nella credenza, lasciò perdere e si avvicinò per vedere.

«Dev’essere rimasto nel frigorifero per tutta la settimana», disse ancora il papà. «Chissà che freddo». Appoggiò una mano sul garbuglio riccioluto a forma di cavolfiore che il Tullio aveva sulla testa. «Fa’ una bella cosa», gli disse, «portalo fuori e lascialo là da qualche parte. Così magari avremo una farfalla in più in giardino».

Il Tullio fece di sì e prese l’incarico molto sul serio. Raccolse con cautela la foglia di lattuga con il bruco e se ne uscì dalla porta della cucina.

La famiglia del Tullio abitava in una casa a due piani su in Val Colla, che è un posto che sta nel Canton Ticino. Sul campanello all’entrata e sulla cassetta della posta c’era scritto «Famiglia Ghiringhelli». Sul retro della casa c’era un giardino con un pruno da un lato e un grande salice dall’altro. C’erano poi anche un albero di limoni, un filo per stendere il bucato e una specie di capanno per gli attrezzi trascurato, pieno di cianfrusaglie sporche di terra, accanto al quale il signor Ghiringhelli teneva un’infinità di vasi e vasetti con le sue piantine di rosmarino e basilico e prezzemolo e altre erbe aromatiche. Una siepe di pitosforo faceva la cornice intorno al tutto.

Il Tullio superò il capanno, superò il pruno, e in fondo in fondo, dove la siepe faceva l’angolo, trovò un posto che gli sembrava adatto. Posò la foglia a terra.

Là accanto c’erano alcune piccole lapidi di legno messe in fila. Il signore e la signora Ghiringhelli avevano sempre ospitato in casa uno sproposito di gatti, e questo fin da prima ancora di sposarsi. Molti erano campati più di vent’anni. Quando poi ne moriva uno, solitamente vecchio e decrepito, lo seppellivano in giardino. Sulle lapidi erano incise con un pirografo le parole «Forse», «Ancorché», «Cioè», e cose del genere. Erano tutti avverbi o congiunzioni. Era il papà del Tullio che immancabilmente battezzava i gatti a quel modo, perché poi trovava divertente parlarne.

«Infatti Infatti, la sera, fa sempre le fusa stando in braccio a mia moglie mentre guardiamo la televisione», spiegava per esempio alla postina, una bella ragazza con una treccia di capelli verdi come i cartelli della segnaletica autostradale, laddove il primo infatti era una congiunzione, mentre il secondo era un gatto. «Inoltre Purtuttavia e Nondimeno spesso gli fanno compagnia».

«’Ccipicchia», commentava la postina verde, e poi si concentrava. «E quindi Inoltre è un altro gatto?»

«Be’, sì, certo, Quindi è un gatto. Ma lui non fa le fusa in braccio a mia moglie con Infatti, Purtuttavia e Nondimeno».

«Sì, no, voglio dire, Inoltre è un gatto?»

«A volte, ma non in questo caso. Ora è, sa, un avverbio».

«’Ccipicchia», faceva la postina verde, confusa del tutto.

Su una lapide un po’ più piccola delle altre invece c’era inciso «La Pagnotta Volante». La Pagnotta Volante era stato un ratto grigio con la pancia bianca, grasso da morire. Si avventurava nel giardino dei Ghiringhelli per bere dai portavasi pieni d’acqua dopo che aveva piovuto. Aveva un debole per il Tullio, e per prendergli i pinoli e i semi di girasole o di zucca direttamente dalle dita si azzardava fin sulla soglia di casa. Il signor Ghiringhelli all’inizio l’avrebbe voluto battezzare «il Topos», ma la sua stazza e le sue eccezionali doti di funambolo avevano finito per imporre «la Pagnotta Volante».

Per quasi tre anni tutta la famiglia aveva fatto i salti mortali per tenere la Pagnotta Volante alla larga dai gatti, senza che lui facesse granché per contribuire alla sua stessa incolumità. Inoltre, inteso come un gatto e non come un avverbio, una volta era quasi arrivato ad acchiapparlo, ma con un portentoso doppio carpiato all’indietro la Pagnotta Volante se l’era scampata anche allora.

Purtroppo alla fine di giugno l’avevano trovato là sotto al salice, morto di vecchiaia o, chissà, forse d’indigestione. Va’ a sapere. L’avevano sepolto, e con una breve cerimonia avevano posato l’ennesima lapide con il nome.

«Quivi giace la Pagnotta Volante», aveva dichiarato solennemente il papà del Tullio. «Bravo topo, spericolato acrobata, ottima forchetta». E poi aveva fatto tutto un discorso in rima elogiando le sue virtù che, grosso modo, sembrava orbitassero sempre intorno al suo portentoso appetito.

Oltre al signore e alla signora Ghiringhelli, al Tullio, e alla sorella più grande del Tullio, avevano presenziato alla cerimonia anche tutti i gatti, perché in fondo in fondo anche loro si erano affezionati al ratto ciccione. Dopo il discorso si era osservato un minuto di silenzio, e poi una settimana di lutto moderato.

Ad ogni modo, mentre il Tullio era lì che rimuginava sul funerale della Pagnotta Volante, il bruco aveva già fatto più volte il giro della sua foglia di lattuga, ma ancora non si arrischiava a esplorare i dintorni. Il Tullio esitò un momento poi, già che c’era, pensò bene di prendere nella coppa della mano un po’ d’acqua dal tubo per annaffiare e di lasciar cadere qualche goccia lì sulla foglia, nel caso che il bruco avesse sete. Gli augurò poi buona fortuna, si voltò e tornò dentro casa.

 

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