Il viaggio in Italia di Antonio Canova
È uscito da poco, in versione ammodernata (ossia leggibile ad un lettore medio), il diario di viaggio che un ventiduenne Antonio Canova stese per nove mesi (da Venezia a Napoli e ritorno) nel suo dialetto veneto d’entroterra e in una forma pressoché stenografica. Nel bicentenario della morte, una guida personalissima ai tesori d’arte nostrani, e non solo.
Premessa
di Dario Borso
Il diario canoviano dei nove mesi di viaggio sta in due Quaderni donati nel 1851 al Museo Civico di Bassano del Grappa dal fratellastro Giovanni Battista Sartori e pubblicati integralmente nel 1959da Elena Bassi in un’edizione critica che sta alla base di quella approntata nel 1994 da Hugh Honour (in A. Canova, Scritti, Salerno editrice, Roma 2007).
Ampi stralci dei Quaderni però aveva pubblicato Antonio Muñoz su “L’Urbe” tra il 1925 e il 1955,in otto puntate delle quali Bassi conosce solo la seconda, che cita giusto per liquidarla come basata su una copia purgata da errori ortografici ed espressioni dialettali.
In realtà, la seconda puntata consiste di due stralci, il primo proveniente come tutti gli altri dai Quaderni, e il secondo assai più breve(del16-18 maggio 1780) da una “Copia autentica di un giornaletto del Marchese Canova scritto di suo proprio pugno”.
Munoz non specificò l’origine diversa lasciando con ciò intendere che lo stralcio appartenesse ai Quaderni, e forse dunque ben gli sta. In compenso Bassi (e Honour, che ripete pedissequamente quanto da lei scritto) non entra nel merito della paternità, lasciando con ciò intendere che la copia sia di mano del Canova. E invece no, se l’estensore vi inserisce passi del tipo: “4 dicembre 1779. Manca la relazione di questa giornata, perché lasciata in bianco anche dall’autore”.
Giustamente Bassi definì la copia “purgata” da errori ortografici ed espressioni dialettali, frequentissimi in un autodidatta veneto d’entroterra di due secoli e mezzo fa. Bisogna aggiungere che lo è parzialmente, e che lo è pure da almeno un passo ritenuto sconveniente, del 2 gennaio 1780, riguardo a una bellezza romana. Ma soprattutto la purga coinvolge il testo intero, ossia il lessico italiano e più ancora la sintassi, sicché ne esce una parafrasi, con buona pace della fedeltà.
Quanto all’originale, a renderne ancor più ardua la comprensione è il carattere ellittico delle annotazioni diaristiche, vergate di notte nel tempo residuo dell’altro esercizio di penna, schizzi e disegni che Canova chiama “invenzione”.
Se dunque la copia, comprensibile al lettore medio di allora e di adesso, perde l’originale, l’originale perde la comprensibilità.
Da questa impasse ho cercato di uscire procedendo a un ammodernamento rispettoso dell’originale, a metà strada dunque tra Quaderni e Giornaletto. Così, oltre a tradurre tutte le espressioni dialettali, correggere tutti i lapsus e gli errori ortografici, sintattici, d’interpunzione e ricorrere al Giornaletto su punti rimasti oscuri nelle edizioni critiche stesse, ho svolto tutte le abbreviazioni puntate, riportato in lettere tutti i numeri fuorché date ed orari, corsivato i titoli delle opere d’arte, scandito il testo in capoversi e cassato due lunghi elenchi, fondamentalmente di spese.
Ho svolto infine per intero i nomi degli artisti e i luoghi d’arte, così che il Viaggio possa valere da guida turistica per il lettore-viaggiatore (reale o telematico che sia) cui venga voglia seguire un itinerario eccentrico che magari riflette il gusto dell’epoca, ma di un genio dell’epoca.
P.S. Ad introibo al viaggio, qui sotto lo stralcio iniziale di un’altra crux filologica, l’Abbozzo di Biografia del 1804-1805, di mano anonima e buon italiano ma scritto certamente su ispirazione di Canova stesso.
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Antonio Canova nacque il primo di novembre del 1757 in Possagno villaggio del distretto d’Asolo della provincia trevisana nello Stato Veneto. Pietro suo padre onorato e valente lavoratore di pietra ed architetto morì in età di 26 anni, quando Antonio non ne toccava ancor quattro. Sua madre Angela Fantolin di Crespano, altro villaggio limitrofo al sopraindicato, rimasta vedova si rimaritò, ebbe altri figli ed è ancora vivente. Pasino di lui avo paterno, che avea mostrato molto talento e capacità in varie sue opere di architettura, e in qualche piccolo lavoro di scultura, nelle quali due arti avea studiato e approfittato da sé, gl’insinuò specialmente per la seconda un trasporto incredibile; quantunque nel tempo stesso colla dissipazione delle proprie sostanze per alimento dell’ozio recò all’animo sensibilissimo del nipote una grave agitazione riducendolo alla necessità di passare la gioventù fra mille angustie.
Giunto all’età di 13 in 14 anni, mediante il senator veneto Giovanni Falier, che ne avea scorto fin da principio il singolar genio e talento, e che villeggiava in que’ dintorni nella sua villa dei Predazzi, fu accettato nello studio dello scultore Giuseppe Bernardi, il quale soprannominavasi Torretti per essere stato nipote ed allievo d’altro scultore Giuseppe Torretti,ed erasi per certe sue circostanze ritirato da Venezia in Pagnano, villaggio poco discosto ai due surriferiti. Senza far prima i soliti studj, lavorò tosto nel marmo, dovunque applicavalo il maestro; e restò sotto la direzione del medesimo, finché esso cessò di vivere, cioè per lo spazio di due soli anni. Imperocché ritornatosene il Bernardi dopo un anno a Venezia per altre sue viste particolari, il giovinetto Canova lo seguì, e senza scemare nel consueto lavoro la sua diligenza, non mancò di frequentare l’Accademia del nudo. Muore il Bernardi l’anno appresso. Giovanni Ferrari nativo di Crespano, ma stabilito in Venezia, soprannominato Torretti ancor esso, nipote e scolare del defunto Bernardi dovea por termine a parecchie statue incominciate dal zio, e Canova lavorò sotto di essolui sei o sette mesi per la tenuissima corrisponsione di 45 soldi veneti al giorno.
Ma perché sotto il Bernardi avea dovuto impiegar tutte le intere giornate o lavorando col maestro, o prestandogli anche i servigj più abietti senz’aver campo giammai d’applicarsi daddovero allo studio che divenivagli indispensabile, ottenne poscia dall’avo suo (ed è questa l’unica spesa, cui soggiacque a suo riflesso la famiglia) ottenne, dissi, ch’egli alienasse un piccol podere del valore di 100 ducati veneti correnti; all’esborso de’ quali acconsentì l’acquirente di supplire col passare durante un anno il pranzo al giovine artista, che perciò si pose ad occupare la metà del giorno nel lavoro per il dimezzato tenue lucro di soldi 22, dedicandone l’altra metà agli esercizj accademici.
Poi di commissione del prelodato nobile Falier fece Due canestre di frutta elegantemente intrecciate con fiori e fogliami, e le diede al conte Farsetti lusingandosi di conseguirne per prezzo quanto bastasse per fare il viaggio di Roma. Ma vide deluse con una vile gratificazione le sue speranze, ed allora incaricato dal mentovato Senatore di un’Euridice da collocarsi nella sua villa sopraccennata, all’età giunto di non ancora 17 anni, la fece colà di grandezza naturale, di pietra dolce di Costoza vicentina, e ciò pel semplice vitto, e pel suddetto appanaggio di 45 soldi al giorno, avendo a suo carico le spese di ferri, modelli e cose simili. La rappresentò tratta per l’estremità del braccio all’inferno da una mano di Furia, ch’esce da certi vortici di fumo. Gli commise in seguito il medesimo mecenate Orfeo nel punto in cui, volgendosi in dietro per rimirare la sposa, di nuovo la perde. Il novello scultore lavorò questa statua, grande al vero essa pure, e colla stessa pietra in Venezia nel chiostro del convento di Santo Steffano, dove avevasi allestito un piccolo studio. II procurator Morosini riputò quest’opera degna della pubblica ammirazione, e la espose fra le molte altre degli accademici defunti e viventi, in tempo dell’Ascensa; acconsentendovi il Canova, ma con difficoltà e timore.
L’incontro ne fu felicissimo: la sala, dov’essa stava esposta, empievasi ogni sera d’immensa folla di gente, che vi accorreva per ammirarla: stupiano tutti, che autor ne fosse un giovane di non ancora 19 anni. Il costo di cadauna di queste due statue montò appena a 35 scudi romani. Prese quindi motivo l’anzidetto Falier per impegnare il procurator di San Marco Pietro Pisani ad ordinare a Canova un’altra opera in marmo. Questi ideò due gruppi, Dedalo con Icaro e la Morte di Procri. Fu scelto e commesso il primo da eseguirsi in grandezza naturale per il prezzo di 300 zecchini. […] Trasferito il suo studio a San Maurizio sopra il Canal Grande, ed ivi terminato il gruppo di Dedalo con Icaro nel 1779, fu esposto ancor questo nell’Ascensa, e riscuoté i pubblici applausi per lo stile puro di natura senz’alcun vizio di maniera. Dedalo colle labbra ben chiuse, cogli occhi fissi ed immobili, colla fronte mesta e raccolta adatta un’ala alla destra spalla del figlio Icaro, il quale volge alquanto la testa, ed osserva sorridendo il lavoro.
Le statue fin qui menzionate sgrossavansi dall’autore stesso senza l’ajuto d’alcuno. L’incontro del gruppo gli avrebbe procacciate ordinazioni di molti altri lavori; ma avendo civanzato del frutto di questo cento zecchini, meditò d’intraprendere il desiderato viaggio di Roma. Sentendo da alcuni veneti artisti, che l’antico solo era da seguirsi e da altri che conveniva appigliarsi unicamente al nudo, e’ mostrò di preferire l’opinion de’ secondi[…]. II nobile Falier, benché mancante di ricchezze corrispondenti alla sua nobiltà e al suo merito, sempre però disposto a favorire quest’ottimo giovine, lo raccomandò fervorosamente al cavalier Girolamo Zulian esso pure senator veneto, quando fu questi destinato ambasciatore della sua Repubblica presso la Santa Sede: il quale fattolo a sé chiamare, gli chiese, se volea passare a Roma, ed accettare colà il mantenimento per l’obbligo di non far per 4 anni, che copie dall’antico. Rispose Canova di essere bensì in disposizione di portarsi alla capitale delle belle arti, e di trattenervisi, finché avesse consumati i cento zecchini, e che per sublimarsi in esse non bastava il copiare, ma rendevasi pur necessario il creare.
Tal risposta sembrò un po’ altiera all’Ambasciatore, il quale perciò venuto a Roma ne fece il racconto a diversi artisti fors’anche con qualche esaggerazione ponendoli in una prevenzione per il Canova poco favorevole: ma questa si cangiò tostoché si scorse l’assiduità instancabile ond’egli studiava e lavorava giorno e notte. Partì da Venezia in ottobre del detto anno 1779 con monsieur Fontaine francese studente di pittura.