La gente comune
Pubblichiamo in anteprima un estratto dall’ultimo romanzo di Joe Abercrombie, Il Problema della Pace, secondo volume della trilogia “L’Età della Follia”, in uscita l’11 Maggio per Mondadori, a cura di Edoardo Rialti.
di Joe Abercrombie
Orso inspirò una boccata d’aria frizzante del mattino e la esalò sospirando. Era bello trovarsi fuori città. A ogni giorno che passava, i vapori sembravano più grevi e le esigenze della Corona più soffocanti. Lord Hoff e i suoi orari logoranti, le inutili funzioni, i soporiferi rituali, ogni momento scrupolosamente sprecato con largo anticipo senza mai l’opportunità di realizzare davvero qualcosa. Persino le abitudini igieniche di Orso erano precisamente circoscritte, catalogate, sorvegliate. Non si sarebbe sorpreso nello scoprire che a tale scopo fosse preposta una caterva di uffici altamente remunerati. Lord Alto Guardiano della Tazza Reale. Custode Capo delle Evacuazioni di Sua Maestà. Assaggiatore Generale del Piscio.
Si tolse delicatamente il cerchietto dalla testa e lo tenne sollevato, guardando attraverso di esso verso il seguito scintillante. Verso la folla in attesa. Fece una risatina.
«Qualcosa di divertente?» chiese sua madre, per la quale nulla era mai divertente.
«Non me n’ero mai accorto prima. Le corone… dentro non c’è niente, vero?» Orso trasalì a un’improvvisa esplosione di vapore dal macchinario, un’increspatura di “ooh” e “aah” sbocciò e si propagò, seguita da un applauso beneducato. Una banda di ottoni suonava qualcosa di ottimistico. Bambini sorridenti agitavano bandierine dell’Unione. Il famoso dispositivo in sé costituiva l’incubo di un pazzo, composto d’ingranaggi, aste e rivetti, una bestia di ottone e ferro che brillava di grasso, il vapore che sbuffava dalle sue valvole come il fumo dalle narici di un drago. Era montata su rotaie lucide che si estendevano per un paio di campi fino a un ponte su cui sventolavano delle bandiere colorate. In cima a quest’ultimo, una nota attrice se ne stava in copricapo e tunica succinta, presumibilmente a impersonare l’Ispirazione o qualche altra virtù astratta. Però il sole continuava a filtrare a malapena, e nonostante il suo sorriso raggiante la signora pareva piuttosto infreddolita.
«Ma come funziona?» rifletté Orso, rimettendosi il cerchietto. Per quanto ne capiva lui, il motore poteva anche essere la bacchetta di uno stregone.
«Credo che una fornace a carbone riscaldi l’acqua nel motore fino all’ebollizione» disse Dietamdan Kort, col panciotto che tendeva pericolosamente i bottoni mentre lui si sporgeva sulla sedia vuota di Curnsbick. «Il vapore che si forma all’interno crea una pressione che aziona un pistone ad alternanza che converte la forza espansiva in forza di rotazione, trasmettendola poi attraverso una sequenza di ingranaggi alle ruote medesime. Vostra Maestà desidera maggiori dettagli?»
Orso alzò le sopracciglia. «Meno… semmai.»
«Il fuoco produce vapore» dichiarò la regina Terez, degnandosi di pronunciare qualche parola in Comune, ma insistendo sul suo prepotente accento styriano. «Il vapore lo fa muovere.»
«Ciò» ammise Kort «è l’essenza della cosa.»
Honrig Curnsbick, il grande macchinista in persona, stava vicino alla sua creazione con cappello a punta e favoriti arruffati, circondato da sostenitori festosi, agitando una manciata di disegni verso i suoi ingegneri anneriti dal petrolio. Uno di questi spalava furiosamente del carbone nelle fauci incandescenti della macchina. Un altro soppesava una gigantesca chiave di leva mentre guardava il podio reale con un’intensità che rasentava l’odio. Purtroppo, in questo non c’era niente di notevole. Orso considerava qualunque cosa da parte dei suoi sudditi superasse in affetto una spiccata antipatia nei suoi confronti come una piacevole sorpresa.
«Dovresti davvero avere una regina al tuo fianco» osservò sua madre.
Lui le sorrise di sbieco. «Ce l’ho già.»
«Intendo una moglie, come ben sai. Giudice Supremo, aiutatemi.»
«Sua Maestà. Come sempre. Ha davvero ragione.» Bruckel si sporse oltre la madre di Orso per smozzicare qualche frase. «Vedete cosa è stato il matrimonio. Per il Lord Governatore dell’Angland.» Orso trasalì. Avrebbe preferito essere cosparso di veleno piuttosto che ricevere altre notizie sulla felice unione di Leo dan Brock. «Il governo locale era paralizzato. Antiquato. Incompetente. Dopo il suo matrimonio? Tutto. L’opposto.»
«Tuttavia lady Savine è una donna di immenso talento!» Kort si sporse dall’altro lato a peggiorare involontariamente la situazione. «Debbo confessare che ero riluttante ad averla come socia, eppure, be’, senza di lei non avrei potuto completare il mio canale. Prodigiosamente talentuosa.» Kort scosse la testa, il mento che spariva nel rotolo di grasso della pappagorgia. «In giro non ce ne sono molte come ella, Vostra Maestà.»
«Ebbene, ciò risolve la questione» disse Orso. «Lady Savine dovrà semplicemente sposare sia meche suo marito.» Probabilmente la vera tragedia era che lui si sarebbe aggrappato a un simile accordo con entrambe le mani.
Sua madre risultava meno entusiasta dalla prospettiva. «Non fare lo spiritoso, Orso, è indegno della corona che porti.»
«Comincio a pensare che nulla sia indegno della corona che porto.»
«Le tue sorelle hanno entrambe assolto i loro doveri dinastici. Credi che Cathil volesse trasferirsi nello Starikland?»
Quante volte avevano ripetuto quella stessa conversazione? «Lei è davvero un’ispirazione.»
«Pensi che Carlot volesse sposare il cancelliere di Sipani?»
«È sempre parsa piuttosto soddisfatta della cosa…»
«Non puoi più rimandare. Non stai solo danneggiando te stesso, ma l’intera Unione.»
Lei detestava l’Unione, ma credeva che l’ipocrisia fosse una cosa che riguardasse solo le altre persone. Orso strinse i denti. «Esaminerò di nuovo l’ultima lista. Ma prima voglio organizzare questo grande corteo nel reame. Recarmi nelle campagne e presentarmi alla gente comune!»
«Molto meglio farlo con una consorte, così potrai presentarla al popolo e allo stesso tempo dedicarti a generare un erede.»
«Cosa? Simultaneamente, davvero?»
Lei gli scoccò un’occhiata dall’alto del naso. «Almeno vedrebbero che finalmente stai prendendo sul serio le tue responsabilità.»
«Adesso chi sta facendo la spiritosa?»
«Il mio padrone sarebbe deliziato nel vedervi sposato.»
Orso trasalì per quella voce all’orecchio. Il tirapiedi di Bayaz, YoruSulfur, si era sporto in avanti dai posti alle sue spalle, sorridente. Era una di quelle persone con la brutta abitudine di spuntare nei momenti meno appropriati.
«Oh, davvero?» sbottò Orso. «Ha tanta voglia di comprarsi un vestito nuovo, eh?»
Il sorriso tagliente di Sulfurnon mostrò segni di cedimento. «Tutto ciò che è connesso alla stabilità del regno rientra negli interessi di Lord Bayaz.»
«Come siamo fortunati a godere di un tale guardiano. Ma cosa porta un mago a una dimostrazione scientifica? Non avete…» Orso agitò una mano, «qualcosa di magico di cui occuparvi?»
«Tra scienza e magia non c’è una voragine così ampia come certuni suppongono.» Sulfur accennò verso la città, dove il Palazzo del Creatore si profilava tuttora come la vetta più alta all’orizzonte. «Non fu Kanedias stesso il primo e più grande degli ingegneri? E Juvens non ha forse affermato che la conoscenza è la radice del potere? Niente interessa lord Bayaz come le idee, le innovazioni, i nuovi modi di pensare.» Rivolse gli occhi chiari verso il motore a vapore di Curnsbick. «Immaginate una rete di queste strade ferrate. Fasce di ferro che legano l’Unione sempre più strettamente, trasportando un flusso incessante di merci e persone. Una meraviglia da affiancare alle grandi conquiste del Tempo Antico!»
«Sembra un progetto meraviglioso, Mastro Sulfur, purtuttavia… un progetto costoso.» Orso tornò a voltarsi in avanti. «Temo che il mio Tesoro non sia all’altezza di tale sfida.»
«La Casa Bancaria di Valint e Balk si è già offerta di anticipare il capitale.»
Orso si accigliò. Era principalmente a causa degli interessi paralizzanti di Valint e Balk che la Tesoreria si trovava in uno stato così deplorevole. «Ciò è… insolitamente generoso da parte loro.»
«La Banca prenderebbe in gestione i terreni necessari e risulterebbe proprietaria dei binari stessi, esigendo solo un contributo irrisorio per il loro utilizzo. Speravo che voi acconsentiste perché io prendessi accordi in tal senso col Lord Cancelliere.»
«Ha tutta l’aria del primo passo per vendervi il mio regno un pezzo dopo l’altro.»
Sulfur sorrise ancora di più. «Difficile che si tratti veramente del primo passo.»
«Vostre Maestà!» Curnsbick si affrettava verso il palco reale, togliendosi il cappello e asciugandosi la fronte sudata con un fazzoletto. «Spero di non avervi fatto aspettare.»
«Niente affatto» disse Orso. «Convertire la forza da espansiva in rotazionale non è… un affare facile… Suppongo che…»
La Regina Madre emise un fragoroso sbuffo di disprezzo, ma Curnsbick si era già rivolto verso la folla, battendo i suoi grossi pugni sul parapetto. La banda si ammutolì. Il brusio impaziente si spense. Il pubblico si voltò dal motore al suo creatore. Il grande macchinista cominciò a parlare.
«Amici miei, in pochi anni abbiamo compiuto progressi sorprendenti!» Dipendeva da chi interrogavi, naturalmente. Orso riceveva ancora parecchie lamentele a riguardo. «Con la tecnologia e i macchinari adeguati, adesso un singolo uomo può svolgere il lavoro che una volta ne richiedeva dieci! Venti!» Sebbene non fosse chiaro cosa sarebbe stato degli altri diciannove.
«Sono fermamente convinto che questa, la mia ultima invenzione…» e Curnsbick gesticolò con una mano verso il motore, con gli svolazzi d’un pappone che presenti le sue puttane. «La nostra ultima invenzione, giacché appartiene ai posteri, non porterà semplicemente alcuni di noi da Adua a Valbeck con più comodità e meno tempo di prima. Ci porterà tutti… nel futuro!»
«L’unica cosa innegabile del futuro» mormorò la madre di Orso in Styriano «è che viene lui da te, che tu sia pronto o no, e senza bisogno di mezzi di trasporto.»
Certamente sembrava un modo un po’ troppo complicato di salvare capra e cavoli. Ma Orso poté solo fare spallucce e sorridere, il che, in fin dei conti, costituiva il suo contributo principale in ognuno degli svariati eventi cui presenziava. Se avesse avuto tutte le risposte, avrebbe potuto essere il grande macchinista, invece che un semplice re.
«Ci sono certuni ai due estremi della scala sociale che vorrebbero farci cambiare direzione!» gridava Curnsbick. «Costoro non solo cercherebbero di arginare il fiume del progresso, ma addirittura lo farebbero scorrere in salita! Desidererebbero spezzare, incendiare e uccidere per trascinarci indietro in un passato glorioso che non è mai stato veramente tale. Un regno di ignoranza, superstizione, squallore e paura. Un regno d’oscurità! Ma non si torna indietro! Ve lo prometto!» Alzò il braccio e si rivolse a Orso. «Vostra Maestà, col vostro gentile permesso?»
Orso era sempre preoccupato quando qualcuno voleva coinvolgerlo in qualche decisione, seppure in modo superficiale. Ma le decisioni andavano prese comunque. Fosse pure in modo superficiale. «Portateci nel futuro, Mastro Curnsbick!» sentenziò a gran voce, sorridendo alla folla.
Curnsbick si voltò verso il motore e calò il braccio con un fendente portentoso. L’ingegnere, il cui sorriso era una curva bianca sul viso sporco d’olio, tirò una delle leve, e il mondo intero esplose.
«Amici miei, in pochi anni abbiamo compiuto progressi sorprendenti!» vociò Curnsbick.
«Udite, udite!» disse Verunice, e se ne vergognò subito molto. Si voleva distinguere dalla folla, soprattutto dopo tanti anni trascorsi nello sfondo più remoto, ma non voleva certamente dare spettacolo. Si limitava a ispirarsi a SavinedanGlokta, adesso lady Brock, naturalmente. In fin dei conti, lo facevano tutti. Così audace. Eppure così femminile. Lo spirito stesso della nuova era! Verunice aveva aderito a tutte le società lungimiranti. La Compagnia per il progresso Civico, l’Associazione per il Miglioramento della Classe Lavoratrice e, naturalmente, la Società Solare. Aveva già fatto quello che considerava un ottimo investimento con quel giovane Arinhorm. Così educato. Così attento. Lui l’aveva guardata come nessun giovane aveva fatto per anni. Verunice si sentì arrossire e desiderò di aver portato il ventaglio. Ma sebbene fosse estate, non era esattamente un clima da ventaglio.
«Con la tecnologia e i macchinari adeguati» spiegava Curnsbick, «adesso un singolo uomo può svolgere il lavoro che una volta ne richiedeva dieci! Venti!»
Verunice annuì intensamente, poi si rese conto che ciò avrebbe potuto allentare la parrucca, ci mise sopra una mano nervosa e per poco non le cadde il cappello. Non era ancora abituata a quel copricapo. Né al vestito. Se le fosse stato tolto, quell’affare dannato probabilmente sarebbe rimasto in piedi da solo, ma la sarta le aveva detto che era quanto indossavano tutte le lady che guardavano al futuro. Ora riusciva a stento a respirare, girarsi o muovere le braccia, ma aveva acquisito, come per magia, un seno piuttosto impressionante. Sua madre aveva sempre insistito che il seno costituisse metà della battaglia. Verunice si era sempre chiesta cosa fosse il resto, ma non aveva mai avuto il coraggio di chiedere.
«Sono fermamente convinto che questa, la mia ultima invenzione…» E Curnsbick gesticolò verso il suo motore fumante con la presenza scenica di un grande attore sul palco. Un uomo così potente, dalle mani così forti. Un uomo così generoso, con quegli impressionanti baffi di traverso. Un tale visionario, gli occhi penetranti dietro le lenti lampeggianti. Lo spirito stesso del suo tempo! «Ci porterà tutti… nel futuro!»
Verunice applaudì con l’entusiasmo consentitole dal corsetto. Si poteva vedere il futuro arrivare sui binari che uscivano da Adua. Le ciminiere, le gru, le infinite impalcature, infinite creazioni, infinite opportunità.
«Non si torna indietro!» tuonò Curnsbick. «Ve lo prometto!»
Verunice applaudì di nuovo, dolorosamente questa volta, ma non le importava. Non si tornava indietro. Non al suo soffocante matrimonio o alla soffocante casa in campagna o alla soffocante conversazione delle riunioni di paese. Suo marito era morto e adesso lei aveva i soldi e si sarebbe comprata una vita tutta sua, cazzo. Arrossì, poi si rese conto che non aveva detto effettivamente quella parola, l’aveva solo pensata, quindi dov’era il crimine? Era un mondo nuovo. Poteva pensare ciò che voleva. Poteva persino dire ciò che le andava?
«Cazzo» sussurrò, e si sentì arrossire ancora più intensamente. Avrebbe voluto avere con sé il suo ventaglio.
Il giovane re sorrideva, così spensierato, così disinvolto, quei bei capelli luccicanti, il cerchietto d’oro che scintillava al sole. Lo spirito stesso del suo tempo. «Portateci nel futuro, Mastro Curnsbick!»
Curnsbick abbassò la sua manona e Verunice chiuse gli occhi, sentendo il vento della libertà sulle guance. Ora lei sarebbe stata…
«Amici miei, in pochi anni abbiamo compiuto progressi sorprendenti!» Era vero che l’Unione era molto cambiata nei due decenni dall’arrivo di Muslan, ma perlopiù, a suo parere, in peggio. Avvertiva gli sguardi quando camminava per le strade del suo quartiere. Li avvertiva anche adesso. Meno curiosità d’una volta e più paura. Più antipatia. A volte gli venivano lanciati insulti. Persino oggetti, in qualche caso. Un giovane molto piacevole di sua conoscenza era stato colpito da una tegola lanciata da un tetto e quasi ucciso. Edera nato a Adua! Da genitori kadiri! Quando la gente è fissata con l’odio non fa discriminazioni. Ma Muslan rifiutava di farsi intimidire. Non si era nascosto dai preti. Non si sarebbe nascosto nemmeno da questi maledetti sciocchi Musi Rosa.
«Con la tecnologia e i macchinari giusti» blaterava Curnsbick, «adesso un singolo uomo può svolgere il lavoro che una volta ne richiedeva dieci! Venti!»
Muslan annuì seccamente con la testa. C’era molto da detestare nell’Unione. Si vantavano tanto della loro libertà, ma le donne che lavoravano nei campi e nelle cucine e gli uomini che lavoravano nei mulini e nelle miniere erano intrappolati nelle loro vite di fatica come qualsiasi schiavo. Qui almeno però un uomo era libero di pensare. Di avere idee. Di cambiare le cose.
A Ul-Saffayni preti lo avevano dichiarato eretico. Sua moglie lo aveva pregato di smettere, ma per Muslan il suo lavoro era un dovere sacro. Altri vedevano i loro sacri doveri da una prospettiva differente. Il suo laboratorio era stato bruciato da persone che un tempo chiamava amici e vicini, col fuoco della fede che ardeva nei loro occhi. Si dice che credere sia cosa giusta, ma per Muslan solo il dubbio era divino. Dal dubbio scaturiscono la curiosità, la conoscenza e il progresso. Dalla fede scaturiscono solo ignoranza e decadenza.
«Credo fermamente che questa, la mia ultima invenzione…» e Curnsbick agitò una mano verso il motore, come un venditore di tappeti che sperasse di rifilare della merce di scarsa qualità «ci porterà tutti… nel futuro!»
Veniamo tutti portati nel futuro, sempre. Cosa ci accoglie quando vi arriviamo, questa è la domanda davvero pressante. Quando il Profeta era scomparso, Muslan e quelli che la pensavano come lui – i pensatori, i filosofi, gli ingegneri – avevano sperato in una nuova era della ragione. Invece ad arrivare era stata un’epoca di follia. I preti avevano dichiarato che il suo lavoro andava contro le leggi di Dio. Vigliacchi ignoranti. Chi ha creato le menti degli uomini, se non Dio? Cos’era il desiderio di creare, se non un’umile imitazione del Suo stesso Esempio? Cos’era una grande idea, una grande visione, una profonda rivelazione, se non uno sguardo gettato sul divino?
«Certuni, ai due estremi della scala sociale, vorrebbero farci cambiare direzione!» Muslan aveva saputo, dai pochi amici a Ul-Saffayn che ancora osavano scrivergli, che erano arrivati i Mangiatori. Avevano preso i suoi apprendisti e i suoi assistenti e avevano bruciato i suoi prototipi nella piazza della città. Al pensiero, rabbrividiva. I Mangiatori erano certezza distillata, certezza senza ragione, pietà, compromessi o rimpianti. Come si poteva definire tutto questo, se non il male?
«Ma non si torna indietro!» ruggì Curnsbick. «Ve lo prometto!»
«Non si torna indietro» sussurrò Muslan, nella sua lingua. Chiuse gli occhi, sentendo le lacrime pizzicargli le palpebre, e disse quelle parole a sua moglie, o almeno alle sue ceneri, desiderando che lei potesse sentirle. «Te lo prometto.»
«Portateci nel futuro, Mastro Curnsbick!» ragliava quel loro re somaro. I preti supponevano che le verità della Scrittura e quelle della scienza si opponessero perché le loro piccole menti rigide avevano spazio solo per l’una o per l’altra. Non si rendevano conto che erano la medesima cosa. Il nonno di Muslan era stato un fabbro. Il padre di Muslan era stato un orologiaio. Muslan era un ingegnere. E anche Dio lo era. E fu così che…
«Credo fermamente che questa, la mia ultima invenzione…» e Curnsbick indicò la sua macchina fumante come un capocomico si rivolgerebbe al suo fenomeno da baraccone preferito «ci porterà tutti… nel futuro!»
Morilee guardava male quel bastardo Gurkish. Era questo il futuro dell’Unione? Invasa da bastardi bruni, senza nemmeno la decenza di presentarsi qui con tamburi, bandiere e spade per poterli combattere e sconfiggere come si deve, ma semplicemente accolti dalla porta di servizio da infidi stronzi che volevano rivendere il loro paese per quattro spiccioli.
Trent’anni fa, quando questo era solo un bosco dove lei veniva a fare i picnic con suo nonno, il re Jezal aveva detto al popolo di ribellarsi per il proprio paese. Morilee aveva preso la picca di suo padre dalla rimessa, ci aveva innestato un nuovo bastone perché quello vecchio era marcio, ed era insorta, per la miseria, come fanno sempre le donne quando devono farlo. Aveva combattuto quei bastardi Gurkish tra le rovine incendiate delle strade in cui era cresciuta. Si strofinò il moncherino del braccio. Erano passati trent’anni e faceva ancora male. Eppure, forse, il dolore non era esattamente nel braccio, ma nel cuore. Lanciò un’altra occhiata torva a quel bastardo Gurkish, che se ne stava tutto fiero con la barbetta nera come se questo fosse il suo paese. Era per questo che lei aveva combattuto? Era per questo che aveva perso un braccio? Era per questo che aveva perso la sua fottutissima casa?
«Certuni ai due estremi della scala sociale vorrebbero farci cambiare direzione!» Morilee sapeva come si sentivano quelli in fondo alla scala, poco ma sicuro, con le loro case abbattute per far posto ai mulini e i loro giardinetti ricoperti per far posto ai templi e le loro famiglie ammassate in stanze sempre più piccole per far posto a tutti i bastardi che arrivavano da fuori, Gurkish e Styriani e Nordici e chissà cos’altro, tutti a blaterare nelle loro sudice lingue e a far abbassare i salari e alzare gli affitti e soffocare l’aria con i loro orribili lezzi di cucina – spazzatura che non sfamerebbe un cane –, i canali di scolo brulicanti dei loro marmocchi bastardi.
«Un regno di ignoranza, superstizione, squallore e paura. Un regno d’oscurità!» Lei sbuffò. Curnsbick avrebbe dovuto fare una visitina a dove lei aveva vissuto l’anno scorso: gli avrebbe mostrato lei un po’ di squallore e oscurità. Girò la testa e sputò. Cercò di arrivare a quel bastardo Gurkish, ma lo sputo andò troppo corto e schizzò sul cappello d’una tipa. Curnsbick alzò il braccio e si rivolse a Orso. «Vostra Maestà, col vostro gentile permesso?»
Morilee portò l’unica mano che le restava sul cuore. Forse questo nuovo re era uno stronzo sprovveduto, ma era pur sempre un re, e al vedere il sole dorato lampeggiare sulle bandiere su in alto, le venivano ancora le lacrime. Il paese poteva essere caduto in basso, ma era ancora il suo paese, nel suo sangue, nelle sue ossa. Se fosse stata chiamata di nuovo, avrebbe combattuto ancora. Anche se ciò avesse comportato perdere l’altro braccio. Lei era fatta così.
«Portateci nel futuro, Mastro Curnsbick!» gridò Sua Maestà con voce bella e forte, e la gente cominciò ad applaudire e, nonostante le sue ferite, Morilee applaudì più forte di tutti. Forse quello era un re di merda. Ma sono proprio i re di merda che hanno più bisogno di essere acclamati.
L’ingegnere tirò la sua leva e…
Bla, bla, progresso, invenzione. Il Giudice Supremo Bruckel ascoltava a malapena. Stava ripensando al caso di ieri. Caso terribile. Faccenda deplorevole. Il modo in cui quella donna piangeva sul banco degli imputati. Bruckel avrebbe voluto piangere anche lui. È così facile mettersi a piangere, diceva suo padre, che bisogna fare la faccia dura. Ma che ne sarebbe stato dei bambini? Era come se ogni verdetto gli strappasse via un pezzo di sé. Ogni sentenza lo dissanguava. Ma aveva le mani legate, come sempre. L’ArcilettoreGlokta avrebbe richiesto pene severe. Lezioni impartite. Esempi per tutti.
Bisognava sfoggiare una faccia dura per sedere nel Consiglio Chiuso. Qualsiasi debolezza e gli avvoltoi si sarebbero messi a volteggiare. Neppure un amico, da nessuna parte. Nessuno può concederseli. Bruckel sbirciò di lato. Solo uno sguardo a Sua Maestà. Magnifica figura di donna. Magnifico esempio. Tutto quell’odio scagliato contro di lei. Semplicemente le rimbalzava addosso, come frecce su una cancellata. Eppure così sola. Come una solitaria torre bianca su una brughiera nella bufera. Pochi si rendevano veramente conto di quanto fosse stata difficile la sua posizione. Faccenda deplorevole. Ma Bruckel lo capiva. E l’ammirava enormemente per questo. Non l’avrebbe mai detto. Riconoscerlo sarebbe stato una specie di tradimento. Ma lui lo sapeva. E lei sapeva che lui sapeva. Questo le era di conforto? Probabilmente no.
Curnsbick stava proseguendo fino al suo gran finale. Bla, bla, io, io, io, cambiare il mondo. Bruckel si afflosciò sulla sedia. Il mondo non cambiava. Non nelle cose che contano. Più tardi avrebbe presieduto un altro caso. Lavoratori del mulino deceduti per la polvere bianca nei polmoni. Da non confondere con quelli da polvere nera. Per cui invece morivano i minatori. Faccenda deplorevole. Ma non c’era niente che Bruckel potesse fare. Non con gli interessi schierati dall’altra parte. Interessi altissimi. Caso terribile.
«Portateci nel futuro, Mastro Curnsbick!» esclamò Sua Maestà. Bruckel si chiese se Orso sarebbe stato un buon re. Si chiese se sarebbe stato possibile effettuare qualche cambiamento. Improbabile. Non con tutti gli interessi in gioco. Gli interessi più grandi di tutti. Valint e Balk, naturalmente. Guarda un po’ quel bastardo di Sulfur, che stava già serrando i suoi ganci attorno al re. Ganci che lo avrebbero fatto a pezzi, come avevano fatto a pezzi suo padre. Sempre gli avvoltoi, a volteggiare. Ma il mondo era quello che era. Bruckel aveva le mani legate. Lo chiamavano il Giudice Supremo. Invece lui era piccoletto di statura, e non c’era alcuna giustizia.
Curnsbick trinciò l’aria col braccio con un gesto del più portentoso autocompiacimento. Bruckel guardò di lato la regina Terez, così impressionante, oltre ogni dire. Azzardò un tenuissimo sorriso. Lei non poté ricambiarlo, naturalmente. Davvero deplore…
«Ci porterà tutti…» strillò Curnsbick, un pigmeo che fingeva di essere un gigante, il genere d’uomo che passava per eroe in quest’epoca meschina, «nel futuro!»
Terez trattenne uno sbuffo di disprezzo. Il futuro di chi? Quello che lei aveva desiderato era già stato stritolato molto tempo fa. Come avrebbero mai potuto le sue fragili speranze reggere il peso delle aspettative soffocanti di suo padre, l’ignoranza benintenzionata di suo marito, i pregiudizi insensati dei suoi sudditi, le minacce indicibili di quello storpio, Glokta?
Lei aveva dovuto mandare via Shalere. Persino adesso, Terez sentiva il dolore delle lacrime al pensiero del suo viso, del suo sorriso, del suo calore, del modo in cui lei cantava, ballava, baciava. Terez conservava ancora una boccetta del suo profumo. Tra tutta la pacchiana spazzatura che ammassano su una regina, l’unica cosa che fosse veramente preziosa per lei. Il più debole refolo di quel profumo le faceva tornare tutto alla mente. La ragazza ribelle e romantica che avrebbe combattuto il mondo per amore era ancora intrappolata da qualche parte in questo vecchio corpo severo. Terez sentì il dolore delle lacrime, ma aveva addestrato i suoi occhi a non piangere. Aveva messo in salvo il suo vero amore. Bisogna consolarsi con le piccole cose, quando non si ha nient’altro. Una boccetta di profumo quasi vuota e qualche dolce ricordo.
Fece un respiro profondo, lo usò per costringersi a stare più dritta. Ora viveva per sostenere le speranze di Orso. Per essere il suo pilastro inflessibile. Il suo scudo impavido contro le barbacce del pubblico che li guardava. Si era trasformata in pietra e acciaio, una scultura di donna inflessibile, dalla bocca severa, spietata, per il bene di suo figlio.
Avrebbe potuto stare al gioco. Sorridere, e mentire, e stringere alleanze. Ma suo padre le aveva insegnato che il compromesso era debolezza, e la debolezza era la morte. Solo troppo tardi aveva cominciato a domandarsi se suo padre fosse effettivamente un gigante, e non uno stupido. Strano, quanto sia lunga l’ombra che proiettano i propri genitori. Adesso l’unica cosa che lei voleva era vedere Orso sposato con una donna spaventosamente intelligente. Una donna che avesse una presa abbastanza forte da farlo diventare il grande uomo che lei sapeva sarebbe potuto diventare. Allora, forse, lei avrebbe potuto finalmente smettere di starsene così rigida. Fare un viaggio in Styria. Rivedere Shalere, un’ultima volta…
«Portateci nel futuro, Mastro Curnsbick!» esclamò Orso, con quel sorriso infinitamente benevolo che la bocca di Terez desiderava sempre imitare.
Si accorse che il Giudice Supremo Bruckel la stava fissando, e con un’espressione profondamente malinconica. Come un uomo che assiste a un dramma tragico che, con sua grande sorpresa, abbia colpito qualche nervo sepolto. Come se in qualche modo avesse intuito l’infinita sorgente di tristezza che sgorgava dentro di lei. Come se…
Ci fu un lampo, pensò Terez. Uno scoppio di fuoco. Aprì la bocca per sussultare per lo shock.
Qualcosa la superò sfrecciando. Ci fu un forte schiocco, seguito da uno strano silenzio. Un vento caldo la ghermì, facendola rannicchiare sullo scranno.
Non riusciva a vedere niente. Non riusciva a sentire assolutamente niente. Tutto pareva muoversi con estrema lentezza. Come fossero sott’acqua.
Un uomo corazzato passò di soppiatto, urlando in silenzio, un frammento fumante di metallo incastrato nella corazza.
Lei aveva qualcosa di umido sul viso. Se lo toccò. I polpastrelli rossi. Si rese conto che il Giudice Supremo Bruckel le premeva contro la spalla. Come osava? Quando si voltò per rimproverarlo, vide che un lato della testa del vecchio era stato tranciato via, il sangue sgorgava dalla polpa all’interno, ed era quello ad arrossarle il vestito.
Probabilmente avrebbe dovuto prestargli soccorso. Aveva tutta l’aria di una ferita piuttosto grave.
«Giudice Supremo?» azzardò mentre lui le crollava in grembo, ma non riusciva nemmeno a sentire la propria voce. Fece del suo meglio per tenergli insieme il cranio rotto, ma dei pezzi le scivolarono comunque tra le dita scarlatte.
Cercò di alzarsi, ma quel mondo troppo luminoso si ribaltò follemente e le diede uno schiaffo sul fianco. Polvere e schegge. Scalpiccio di stivali. Vide qualcuno che la fissava. Uno dei compari di Curnsbick, che soffiava bolle di sangue dal naso. Sembrava che avesse un rivetto di ferro conficcato sul lato del collo. Si rese conto che erano entrambi sdraiati sul pavimento.
Cercò di alzarsi di nuovo, pensò che fosse prudente aggrapparsi a qualcosa per sostenersi. La ringhiera del palco reale, le sue decorazioni sgargianti adesso tutte macchiate di rosso. Curnsbick dondolava accanto a lei. Il cappello gli era stato strappato via e i capelli grigi spuntavano dritti da tutte le parti.
Terez gli strinse la giubba insanguinata. «Cos’è successo?» Non riusciva a sentirsi parlare. Non riusciva a sentire niente di niente. Curnsbick si portò le mani al viso. Sbirciava tra le dita.
Terez si ficcò il pollice nell’orecchio e lo rigirò. Non cavò altro che uno squelch smorzato. Socchiuse gli occhi verso la luce del sole. Verso il motore. O dove il motore era stato poco prima.
Non rimaneva altro che un grande artiglio di rottami in fiamme, che sbuffava verso l’alto un denso pennacchio di fumo marrone. Fogli di carta cadevano fluttuando. Come i petali di fiori per le sue nozze, tanto tempo fa. I corpi erano disposti a ventaglio intorno al motore, a file. Aggrovigliati, ritorti. Corpi fermi e corpi vagamente in movimento, che si contorcevano, strisciavano. Un uomo vagava come ubriaco. Sembrava che gli avessero strappato via la camicia.
C’erano persone che avanzavano tra i corpi. Non per aiutare. Per calpestarli. Persone in abiti scuri, con maschere scure sui volti. Uno impugnava un’accetta. Un altro un coltellaccio. Un terzo indicava il palco reale con la spada. Dov’era Orso? Per i Fati, dov’era Orso?
Accanto a lei! Era accanto a lei, con gli occhi sbarrati, il viso insanguinato. Aveva sfoderato la spada. Un re non dovrebbe mai toccare la sua spada, figuriamoci sguainarla. Lei cercò di mettersi tra lui e gli assassini, ma lui la scansò, la spinse indietro. Era molto più forte di quanto si aspettasse. Una parte di lei credeva forse che fosse un bambino piagnucoloso, ancora indifeso tra le sue braccia?
Attraverso il bubbolio nelle orecchie, lo sentì dire: «Madre, resta dietro di me».
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Traduzione di Edoardo Rialti
(c) 2020 Joe Abercrombie
Pubblicato per la prima volta da Gollancz, divisione di The Orion Publishing Group Ltd, Londra
(c) 2021 Mondadori Libri S.p.A,, Milano