Lillian Roxon, Mother of Rock

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L’8 febbraio 1932 nasceva Lillian Roxon. Pubblichiamo la prefazione di Robert Milliken a Rock Encyclopedia & altri scritti (minimum fax), il libro con cui Lillian Roxon rivoluzionò il modo di raccontare la musica e la cultura pop. La traduzione è di Tiziana Lo Porto.

di Robert Milliken

Nel 1969 il festival rock di Woodstock, nel nord dello stato di New York, radunò alcune delle più grosse band e cantanti degli anni Sessanta. Come evento fu una pietra miliare per un decennio in cui l’esplosione del rock’n’roll era servita a innescare una rivoluzione nella cultura giovanile. Di pietra miliare ce ne fu un’altra quell’anno: la pubblicazione della prima enciclopedia della musica rock. La Lillian Roxon’s Rock Encyclopedia era la cronaca di una giornalista australiana dal centro della controcultura di New York, dopo un viaggio iniziato trentasette anni prima in Italia.

Il nome di Lillian Roxon è ancora leggenda a Sydney, la città più grande d’Australia dove a metà del ventesimo secolo s’affollavano numerosi gli immigrati italiani. Ed è da Sydney che nel 1959, finiti gli studi e iniziata la sua carriera da giornalista, era partita alla volta di New York, giusto in tempo per la rivoluzione rock e i cambiamenti politici che fecero degli anni Sessanta un punto di svolta per la storia. Visse a New York per il resto della sua vita, fino alla morte, a quarantun anni, nel 1973.

Anche in quella città la Roxon, tra i superstiti della controcultura newyorkese, resta una leggenda. Mentre facevo le mie ricerche per la biografia Mother of Rock: The Lillian Roxon Story, personaggi di New York che non avevo mai visto prima d’allora mi richiamavano solo a sentire il suo nome, anche se era morta trent’anni prima.

Negli anni Sessanta, quando la maggior parte dei media più importanti continuava a trattare il rock’n’roll come una moda passeggera, la Roxon era avanti rispetto ai suoi tempi. Lei ci vedeva qualcosa di più significativo, la scintilla di una più ampia rivoluzione sociale e sessuale. Lillian Roxon decise che la gente che faceva la musica – da Jimi Hendrix e i Byrds a Wilson Pickett e i Pink Floyd – meritava di essere documentata in un’enciclopedia. Per ciò che è riuscita a fare, Steven Gaines, autorità indiscussa nella cultura pop, l’ha descritta come la «madre del giornalismo rock’n’roll».

La Roxon fu una figura chiave del Max’s Kansas City, il bar e ristorante di New York dove si ritrovavano rockstar, manager, uffici stampa e l’appena nato mondo dei giornalisti e fotografi di musica. Lei teneva banco nella famosa stanza sul retro, dove diventò, nelle parole di Loraine Alterman, altra giornalista rock di punta, la «Dorothy Parker del Max’s Kansas City».

Più grande di dieci anni della maggior parte delle poco più che adolescenti e ventenni che muovevano i primi passi nel mondo rock di New York, l’età della Roxon, le sue esotiche origini australiane e l’internazionalità emanata da un’infanzia italiana le davano un’autorità che ad altre mancava. Danny Goldberg, ex giornalista rock che in seguito sarebbe diventato il promoter dei Led Zeppelin e il presidente e amministratore delegato della Mercury Records, ha detto della Roxon che era «estremamente eccitante avercela intorno». Goldberg ricordava il talento della Roxon nello scegliere tra le giovani speranze e nell’incoraggiarle in quello che era un mondo duro, competitivo e spesso solitario: «Cambiava sul serio la vita della gente. Se decideva che qualcuno era speciale diventava il più incredibile dei supporter. E tra gli speciali c’erano artisti come David Bowie, c’era Germaine Greer e c’era gente come me».

Lenny Kaye, che all’epoca era un giovane giornalista rock, in seguito sarebbe diventato chitarrista e collaboratore musicale della poetessa e cantante Patti Smith, con cui continua a esibirsi in concerto. Kaye ricorda Lillian Roxon e Danny Fields, agente e ufficio stampa, altra figura chiave del Max’s, come i suoi «emissari celesti». Dice che la Roxon non voleva nient’altro «che la mia amicizia e che io sapessi che quello che facevo aveva un valore». Ogni volta che Kaye suona a Sydney con Patti Smith, dal palco della sua città dedica sempre una canzone a Lillian Roxon.

Lillian Roxon era nata nel 1932 come Liliana Ropschitz. I suoi genitori, Izydor Ropschitz e la moglie Rosa, erano polacchi di Lvov, una magnifica antica città dell’est della Galizia, Europa centrale. Il padre di Izydor commerciava gioielli. Dopo che durante la prima guerra mondiale la Russia occupò Lvov, la famiglia si trasferì a Vienna in cerca di migliori prospettive di lavoro. Fuggivano anche dall’antisemitismo che esisteva in Polonia già da molto prima che il regime nazista tedesco occupasse il paese. Izydor voleva fare il medico, ma molte università polacche erano a numero chiuso per gli ebrei, se non del tutto inaccessibili.

In Italia non c’erano restrizioni del genere. Izydor si iscrisse a medicina all’Università di Padova, all’epoca la migliore in Italia, e una delle più prestigiose in Europa; si laureò nel 1925. Il tempo di finire gli studi e si era già innamorato dell’Italia e della vita italiana. Tre anni prima Rosa aveva già dato alla luce il loro primogenito, Emanuele, poi detto Milo. La famiglia si trasferì ad Alassio, affascinante cittadina della Riviera ligure, dove l’attività medica di Izydor prosperò. Molto prima dell’epoca del turismo di massa, Alassio era una zona di svago esclusiva per i ricchi e famosi inglesi e americani, inclusi l’attore Charlie Chaplin e lo scrittore Ernest Hemingway.

Lillian nacque quando Milo aveva dieci anni, nella città portuale di Savona, sul Mediterraneo, tra Alassio e Genova. Il loro fratello Jacob, poi detto Jack, sarebbe arrivato quattro anni dopo Lillian. Fu un’infanzia idilliaca. La famiglia Ropschitz viveva in una casa confortevole e da benestanti con balconi di ferro battuto e un grande giardino ombrato da palme. Lillian passò i suoi primi sei anni sgambettando con sua madre, i fratelli e la tata sulla spiaggia sabbiosa di Alassio, e trascorrendo le vacanze con la famiglia a Vienna e Zakopane, località turistica sui monti Tatra nel sud della Polonia.

L’idillio si infranse nell’ottobre del 1936, quando il dittatore fascista Benito Mussolini firmò con Adolf Hitler l’Asse -Roma-Berlino. Fino ad allora la vita ad Alassio era stata cullata da un falso senso di sicurezza. Nella Germania nazista gli ebrei erano stati gradualmente cacciati dai loro lavori e dalle scuole, ed esclusi dalla partecipazione alla vita di tutti i giorni. Il partito fascista in Italia non li aveva discriminati allo stesso modo. Con l’Asse Roma-Berlino le cose cambiarono. Nel dicembre 1938 il governo italiano ordinò alla famiglia Ropschitz di lasciare il paese.

Izydor aveva percepito la crisi ben prima che arrivasse, e aveva iniziato a prepararsi. Mesi prima, quello stesso anno, aveva ottenuto un passaporto polacco dal console generale polacco a Londra. Quando infine scoppiò la guerra il passaporto gli diede lo status di alleato della Gran Bretagna e dell’Australia. Molti altri ebrei che dalla Germania e dall’Austria si trasferirono in Inghilterra vennero stigmatizzati come «nemici stranieri» e mandati nei campi d’internamento. Subito dopo avere ricevuto l’ordine di lasciare l’Italia Izydor portò Milo, all’epoca sedicenne, a Londra per aiutare a organizzare il trasferimento della famiglia. Di lì a poco li seguirono Rosa, Lillian e Jack.

Izydor fece richiesta perché la famiglia emigrasse negli Stati Uniti o in Australia. Ma le rigide quote d’immigrazione negli Stati Uniti escludevano quell’opzione. Nel luglio 1939, l’Australia offrì l’ingresso ai Ropschitz. Furono fortunati. Gli immigrati che all’epoca venivano ammessi in Australia erano per la maggior parte inglesi. Ma con l’ascesa del nazismo e la necessità degli ebrei di lasciare l’Europa, l’Australia e altri paesi ricchi fecero fronte alla crescente pressione internazionale affinché accettassero più rifugiati. E per i Ropschitz l’Australia offriva due grandi vantaggi: era lontanissima dalla conflagrazione che stava per inghiottire l’Europa, ed era calda, soleggiata e rilassata come la vita che erano stati costretti a lasciare ad Alassio. Izydor trovò lavoro come chirurgo su una nave mercantile inglese diretta in Australia. La famiglia salpò nel luglio 1940, e un mese dopo approdò in Australia.

A Lillian i successivi diciannove anni in Australia fornirono la sicurezza e le basi professionali che la guerra in Europa aveva troncato. Ma l’infanzia felice trascorsa ad Alassio condizionò il suo immaginario per il resto della vita. Poco dopo essere arrivata a New York nel 1959, a ventisette anni, le capitò di andare a vedere alla New York University I bambini ci guardano, un film del regista italiano Vittorio De Sica. Scrisse alla madre in Australia descrivendo quella «stranissima esperienza». La storia veniva raccontata attraverso gli occhi di un bambino di quattro anni, ma per Lillian c’era un fatto più importante:

Il fatto è che circa metà del film è ambientato ad Alassio, e in effetti l’hanno girato là. Ho riconosciuto l’isola e la montagna a un estremo della spiaggia e le palme e la stazione e le capanne e quelle barche buffe con sopra i seggiolini e l’acqua. E tutto m’è arrivato nel più strano dei modi, come se di colpo avessi io stessa soltanto quattro anni. Il film è stato fatto nel 1942, durante il regime fascista, non così lontano dal 1938, quando siamo andati via. È stato strano vederlo per metà con gli occhi del bambino del film, e con i miei ricordi, e per l’altra metà con i miei occhi da adulta: di colpo ho visto Alassio come dovevi vederla tu – con tutta quella cosiddetta gente «sofisticata» e gli uomini e le donne vecchie vecchie. Come sai [De Sica] è un genio nel mostrare la vita per com’è, anche allora che era all’inizio della carriera. A un certo punto il bambino sta imparando a nuotare e l’acqua ovviamente è calma ma ci sono delle piccole onde che gli arrivano in faccia e lo spaventano. Te lo immagini cosa sia stato vedere una scena così? Sono ancora scossa.

Quando nell’agosto 1940 la famiglia Ropschitz arrivò a Melbourne, presero il treno verso nord diretti a Brisbane, capitale dello stato di Queensland. Izydor aveva già scritto da Londra per registrarsi lì come medico. L’Australia aveva pochi medici generici, e il Queensland accettava laureati da un selezionato gruppo di università europee, tra cui quella di Padova.

Brisbane era una città insulare dal clima semitropicale con una popolazione prevalentemente anglo-celtica. I Ropschitz decisero che modificare il loro cognome esotico sarebbe stato saggio per mescolarsi alla comunità locale. Il nuovo nome lo inventò Lillian, che aveva otto anni. Per come ha raccontato la cosa anni dopo, mentre un giorno la famiglia camminava sulla spiaggia vicino Brisbane, vide delle rocce vicino all’acqua e suggerì di dare alla parola inglese un suffisso melodioso facendola diventare Roxon. I genitori approvarono. Anche se il padre cambiò ufficialmente il nome di famiglia da Ropschitz a Roxon, le radici europee non vennero mai abbandonate da nessuno dei due genitori. Due anni dopo Izydor ricambiò formalmente il proprio nome, stavolta in Roxon-Ropschitz.

Per Lillian il cambio di nome fu il primo passo nel reinventare se stessa da bambina italiana rifugiata a giovane donna indipendente aperta alle sfide del Nuovo Mondo.

Paradossalmente, la città di provincia a cui i Roxon erano approdati fuggendo dall’Olocausto in Europa, di lì a poco diventò essa stessa epicentro della guerra. Dopo che nel dicembre 1941 il Giappone bombardò Pearl Harbor, il generale Douglas MacArthur, comandante supremo delle forze alleate nel sudest del Pacifico, si stabilì a Brisbane per muovere guerra al Giappone. Quasi centomila truppe americane vennero stazionate in Australia, due terzi delle quali a Brisbane e dintorni. Portarono il jazz, lo swing e nuovi balli. Per la giovane Lillian, già dotata osservatrice del mondo intorno a sé, fu la prima esposizione alla cultura pop americana di cui anni dopo avrebbe finito per diventare cronista.

Lillian andò alla Brisbane State High School, liceo che attraeva studenti brillanti. E finì all’interno di una scena culturale di giovani artisti sovversivi, scrittori e musicisti che si ritrovavano al Pink Elephant Coffee Lounge, nel cuore di Brisbane. Quel variopinto gruppo di persone, tutte più grandi di Lillian, rappresentava il genere d’arte moderna e progressista evitata dall’establishment culturale della Brisbane dell’e-poca. Molti di loro sarebbero diventati tra i più celebri artisti e scrittori australiani. Già all’epoca, come sarebbe accaduto anche in seguito, Lillian spiccava tra i suoi pari. Charles Osborne, uno di «quelli del Pink Elephant» di -Brisbane, ha ricordato Lillian come «una studentessa sicuramente fuori dal comune. Sembrava più grande della sua età, e molto precoce. Appariva assolutamente brillante e molto informata».

Dopo essersi diplomata a Brisbane, la Roxon si spostò a sud trasferendosi a Sydney, la città più antica e dinamica d’Australia, per intraprendere a diciassette anni gli studi universitari. Mentre le altre ragazze della sua età pensavano a sposarsi e mettere su famiglia, la Roxon aveva già in mente di diventare giornalista. A risaltare era la sua personalità, ma anche la bellezza fisica. Non faceva che lamentarsi del suo peso altalenante, ma seduceva gli altri con la sua pelle perfetta, gli occhi luminosi e un incantevole sorriso.

All’Università di Sydney, dove nel 1949 intraprese gli studi d’arte, Lillian Roxon si imbatté in un gruppo di persone ancora più ribelli dei frequentatori del Pink Elephant. I Libertarians, diventati poi famosi come «Sydney Push», erano un gruppo che si ispirava al pensiero radicale di John Anderson, docente di filosofia all’università. Il loro senso d’avventura intellettuale e sessuale li mise in guerra con i costumi sociali conservatori dell’Australia degli anni Cinquanta. Con la sua sicurezza, saggezza, bellezza, parlantina e curiosità intellettuale, la Roxon divenne una figura centrale del gruppo. Viveva con il suo primo fidanzato, George Clarke, un bello studente d’architettura, in una soffitta al centro di Sydney, insolita sistemazione in quegli anni per dei giovani di ceto medio non sposati.

Malgrado i modi libertari dei Push, la Roxon finì per trovare il gruppo troppo chiuso. «Mi annoiavano terribilmente», scrisse anni dopo. Aveva già messo gli occhi sull’America. Il primo passo, un biglietto d’ingresso nel mondo del giornalismo, lo fece all’inizio del 1957, poco prima dei venticinque anni, quando entrò nella redazione di Weekend, un giornale scandalistico e spinto di Sydney. Donald Horne era l’improbabile direttore della rivista. Horne era un intellettuale che nel 1964 avrebbe pubblicato un libro sull’Australia, The Lucky Country, diventato poi un classico. Era anche un giornalista astuto, che assunse la Roxon su due piedi «perché amavo il modo in cui parlava».

Lillian Roxon divenne la reporter preferita da Horne in una rivista consacrata a storie sulle celebrità, al mondo emergente della cultura giovanile e all’avvento della musica rock’n’roll nell’o-pulenza degli anni Cinquanta. Horne la trovava «ambiziosa, coscienziosa e determinata ad affermarsi». Judy Smith, un’amica del giro dei Sydney Push, ricorda come alcuni «seri Libertarians» aggrottarono la fronte quando la Roxon passò al mondo di Weekend. «Ma lei prendeva il giornalismo molto seriamente», dice la Smith. «Era prolifica. Metteva le parole sulla pagina come un pittore dipinge un quadro. Arrivavano dritte con una luminosità rapida e verbale, e questa cosa non cambiò mai».

Nel 1959 Lillian Roxon lasciò Sydney per New York. Attraversando il Pacifico, si fermò alle Hawaii per intervistare una delle figure più eminenti del rock’n’roll, il Colonnello Tom Parker, manager di Elvis Presley. Anni dopo, quando era editorialista per il Sunday News di New York, la Roxon ricordò Parker come «uno di quegli uomini paffuti con gli occhi come marmo splendente e un fuorviante sorriso paterno».

Nella diaspora cominciata ad Alassio, New York diventò l’ultima destinazione della Roxon. La frenesia, l’energia e le attitudini aperte della città fecero da calamita per l’ambizione di praticare i suoi talenti su scala planetaria. All’inizio trovò lavoro nella sede di New York del Daily Mirror di Sydney, quotidiano pomeridiano che Rupert Murdoch, all’epoca magnate alle prime armi, comprò l’anno successivo. Il redattore capo era Zell Rabin, ex fidanzato della Roxon e, come lei, figlio di ebrei europei emigrati in Australia.

Nel 1963 la Roxon passò alla redazione di New York del Sydney Morning Herald, il più vecchio e all’epoca più ricco e influente quotidiano australiano. La redazione era composta da un copioso staff di giornalisti, e si trovava nel palazzo del New York Times, davanti Times Square. Sei anni dopo, in seguito al successo della sua Rock Encyclopedia, Lillian Roxon intraprese una vita da freelance, anche se non smise mai di scrivere per l’Herald e altri quotidiani e periodici australiani del gruppo. Aveva una rubrica settimanale di musica rock sul Sunday News di New York, diventando così la prima giornalista rock donna a scrivere su un giornale a larga distribuzione. Scriveva per Crawdaddy, Fusion, Creem e altre riviste di musica rock venute fuori a metà anni Sessanta. A inizio anni Settanta, con il diffondersi del movimento femminista, le venne commissionata la rubrica mensile «La guida al sesso per la donna intelligente» su Mademoiselle, rivista femminile a larga distribuzione pubblicata da Condé Nast. E nel 1971 iniziò a scrivere e condurre il Lillian Roxon’s Diskotique, programma radio quotidiano sulla musica rock trasmesso da 250 stazioni in tutta l’America.

Se la Roxon iniziò a interessarsi alla scena della musica rock che aveva cominciato ad affermarsi nella prima metà degli anni Sessanta in Inghilterra e America fu perché, scrisse in seguito, riusciva «a vedere la forza travolgente che sarà». Nel 1966 scrisse a un’amica in Australia: «Capisco cosa sta succedendo altrove ma questa roba della musica è grossissima e sarà quella che avrà più successo. È come la Cina Rossa. È enorme ed è lì e non puoi fare finta ancora a lungo che non ci sia». La musica era di per sé interessante quanto bastava. Ad affascinarla ulteriormente era il fenomeno del cambiamento che si portava appresso: nella cultura giovanile, nei costumi e nello stile di vita.

Alle conferenze stampa della cosiddetta «British Invasion» delle rock band in America la Roxon incontrò due persone chiave del mondo rock di New York. Uno era Danny Fields, all’epoca direttore di Datebook, una rivista per adolescenti, che sarebbe diventato ufficio stampa dei Doors e della band inglese Cream, e in seguito manager degli mc5, di Iggy Pop and the Stooges e dei Ramones. L’altra era Linda Eastman, all’epoca fotografa, che in seguito sposò il Beatle Paul McCartney. Danny Fields e Linda McCartney diventarono due degli amici e confidenti più cari della Roxon.

Fields ricorda di avere conosciuto Lillian Roxon a New York nel 1966, durante la conferenza stampa per Brian Epstein, manager dei Beatles. Nel bel mezzo di una serie di domande stupide e ossequiose fatte dagli altri giornalisti, la Roxon galvanizzò l’evento – e stupì Fields – chiedendo: «Signor Epstein, lei è milionario?» Per Fields la domanda della Roxon fu l’unica che riconosceva che il rock era destinato a diventare un grosso business, influenzando e trasformando praticamente ogni aspetto della cultura popolare.

La Roxon conobbe Linda Eastman lo stesso anno a una conferenza stampa a New York per l’arrivo del gruppo rock britannico Dave Clark Five. Linda aveva mollato il lavoro di giornalista di moda per la rivista conservatrice Town and Country. Lei e Lillian riconobbero il reciproco interesse nel raccontare la scena rock, Linda come fotografa, Lillian come giornalista, e avviarono una stabile amicizia. La Roxon pensava che in un territorio dominato dagli uomini il talento fotografico di Linda, più giovane di lei, andasse sostenuto. Purtroppo la loro amicizia non sopravvisse al 1969 e al matrimonio di Linda con Paul McCartney, conosciuto due anni prima a Londra per lavoro. Quando Linda smise di essere una celebre fotografa per diventare una celebre moglie, tagliò fuori Lillian e altri della loro ristretta cerchia newyorkese. La Roxon ne fu distrutta. Blair Sabol, giornalista del Village Voice e amico sia della Roxon che di Linda, scrisse in seguito che «la sparizione [di Linda]… lasciò Lillian a pezzi fino al giorno della sua morte». L’amicizia infranta non venne più risanata fino alla prematura scomparsa della Roxon nel 1973.

Lillian Roxon ebbe anche un’amicizia turbolenta con Germaine Greer, la giornalista femminista australiana. La Greer era arrivata a New York nel 1968 dall’Inghilterra, dove aveva insegnato all’Università di Warwick. Le due donne avevano parecchie cose in comune, e non avrebbero potuto che andare d’accordo: erano state entrambe membri dei Libertarians di Sydney in Australia, dove avevano amici comuni, ed erano entrambe donne di grande intelligenza e indipendenza destinate a lasciare un segno nel mondo. Forse per via della rivalità, l’amicizia diventò quasi immediatamente turbolenta.

Nel Natale del 1968, quando Germaine Greer arrivò a New York sperando di stare con la Roxon nel suo minuscolo appartamento sulla Cinquantunesima Est, Lillian lavorava da mattina a sera alla sua Rock Encyclopedia, cercando di rispettare la data di consegna all’editore. Dirottò la Greer al Broadway Central Hotel, un albergo economico che pensava sarebbe stato adeguato alle sue finanze. L’albergo non piacque alla Greer, che andò a stare da altri amici. Lillian presentò la Greer ai suoi famosi amici musicisti del Max’s Kansas City, ma gli alterchi verbali tra compatriote durante la visita della Greer a quanto pare interruppero per un anno l’amicizia.

Ciononostante, quando nel 1970 Germaine Greer pubblicò L’eunuco femmina, il libro che sarebbe diventato la bibbia del movimento femminista e che avrebbe fatto di lei una celebrità internazionale, lo dedicò a Lillian Roxon e ad altre quattro donne. La pagina delle dediche comincia così:

Questo libro è dedicato a lillian, che vive solo con una colonia di scarafaggi newyorkesi, la cui energia non è mai venuta meno malgrado l’ansia, l’asma e il sovrappeso, che è sempre interessata a tutti, a volte è arrabbiata, altre volte è stronza, ma è sempre coinvolta. Lillian l’abbondante, la dorata, l’eloquente, la ben e mal amata; Lillian la bella che è convinta di essere brutta, Lillian l’infaticabile che pensa di essere sempre stanca. 

La Roxon sosteneva con convinzione il movimento femminista, ma trovò la dedica della Greer ambigua. Anche se nel 1971, quando Germaine Greer andò a New York per la promozione dell’Eunuco femmina, le due passarono del tempo insieme, la loro amicizia non tornò più come prima. Più avanti, quello stesso anno, Lillian scrisse a sua volta un ritratto vivace di Germaine in un articolo per la rivista rock Crawdaddy.

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Quando nel 1969 l’editore newyorkese Grosset & Dunlap pubblicò la Lillian Roxon’s Rock Encyclopedia, non esistevano libri del genere. Inizialmente la Roxon lo aveva pensato come un tascabile. Diventò un hardcover di 611 pagine che elencava più di 500 voci da Acid Rock a Zombies, 1202 rockstar e 22.000 titoli di canzoni. La scrittura brillava del vivido stile della Roxon e delle sue acute osservazioni sulle classiche band e gli artisti dell’era; quarantacinque anni dopo i suoi racconti continuano a colpire. Dei Rolling Stones scrisse: «Quelle dei Beatles erano canzoni risciacquate e appese fuori ad asciugare. Gli Stones non hanno mai visto l’acqua e il sapone». Per la foto dell’autore da mettere nel risvolto di copertina, la Roxon scelse uno scatto di Linda Eastman.

La New York Times Book Review descrisse l’enciclopedia come «concisa nella critica, estremamente aggiornata, meravigliosamente appassionante e probabilmente definitiva». Nel 1971 seguì un’edizione tascabile. La Roxon era convinta che adesso fossero i giornalisti emersi intorno alla scena rock a «fare nascere le star», anche più dei produttori e degli impresari come il Colonnello Tom Parker, perché i giornalisti avevano il potere di stabilire un contatto tra le star e il loro pubblico in un’epoca in cui i quotidiani e il giornalismo su carta regnavano sovrani. Nell’edizione tascabile ringraziò i suoi colleghi «per avere portato così tanta vitalità alla scena e avere dato alle parole la stessa magia della musica».

Ma scrivere l’enciclopedia gravò sulla salute della Roxon. La scrisse per più di otto mesi, dal maggio del 1968, senza prendersi una pausa dal suo lavoro nella redazione del Sydney Morning Herald. In quell’anno pieno di notizie, dovette coprire anche quanto successe dopo l’uccisione di Robert Kennedy e la campagna presidenziale di Richard Nixon. Lillian Roxon s’ammalò di asma, e per curarla le vennero prescritte prevalentemente delle medicine a base di cortisone; le medicine a loro volta le fecero prendere peso.

Malgrado i problemi di salute, l’energia che la Roxon metteva nel lavoro rimase invariata. La incontrai per la prima e unica volta a Londra alla fine del 1972. Era lì per scrivere del gruppo glam rock inglese Slade. Sempre in lotta con asma e peso, risplendeva per la bellezza del volto e l’incantevole sorriso, e per l’entusiasmo nel discutere non solo delle ultime novità musicali ma anche dei più recenti eventi politici e pettegolezzi sullo star system in America.

Il 10 agosto del 1973 Lillian Roxon morì per un grave attacco di asma nel suo appartamento di New York. Aveva quarantun anni. La notte precedente aveva raggiunto alcuni amici per il party promozionale di un artista performativo al Max’s Kansas City. Crudeli paradossi circondarono la sua morte. Rockstar di cui aveva scritto, e persone del giro, iniziarono a morire per abuso di droghe e alcol. La Roxon non aveva mai bevuto, fumato o sperimentato droghe. Rimase vittima di una malattia naturale, aggravata dalla sua estenuante devozione al lavoro.

Rosa, la madre di Lillian, morta a Sydney otto anni prima, aveva sempre riposto una vana speranza che la figlia un giorno sarebbe tornata in Australia, si sarebbe sposata e si sarebbe sistemata. Lillian era uno spirito troppo indipendente per coronare il sogno casalingo della madre. Helen Reddy, la cantante australiana la cui canzone «I Am Woman» è diventata inno del movimento delle donne dei primi anni Settanta, probabilmente lo ha detto meglio di tutti nel suo tributo all’amica:

Rimpianti? Non credo ne avresti. Hai avuto una vita meravigliosa. I tuoi compagni erano i più arguti e intelligenti della loro generazione. Hai visto una nuova forma d’arte levarsi e veleggiare dall’albero maggiore. Hai raggiunto il successo contro ogni probabilità e credo tu sia stata felice di andartene ancora giovane e con il letto caldo. New York ha perso una delle sue leggende, e non voglio entrare al Max’s Kansas City senza vederti tenere banco o senza che mi prendi per mano e dici: «Tesoro, c’è una persona meravigliosa che devi conoscere».

 

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