Murene, un estratto
Pubblichiamo, ringraziando autrice e editore, un estratto da “Murene”, romanzo d’esordio di Manuela Antonucci, pubblicato da Italo Svevo Edizioni.
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di Manuela Antonucci
LIBERATA
Si era svegliata a pancia sotto, con la bocca impastata. Ferma in quella posizione, stava ripensando al sogno che aveva fatto quella notte. O forse era successo la mattina.
Sapeva che i racconti che rimanevano dentro al letto, con l’alito pesante a infastidire le narici, erano quelli sognati l’attimo prima di aprire gli occhi. Si ripassò la fila perfetta dei denti con la lingua, poi cominciò a ricordare qualcosa: c’era il fango sì, ma ora che si trovava avvolta tra le lenzuola non riusciva a pensare a niente che potesse ricondurla a quella sensazione così schifosa. Eppure lo sentiva, fastidioso, infilarsi tra gli spazi delle dita, nell’antro più profondo dell’orecchio, sotto la piega delle ascelle: fango, fango dappertutto.
Le venne in mente la volta in cui aveva visto i porci dello zio Ronzino rotolarsi nel letame e nei resti del pane ammollato. Era di domenica, ne era sicura perché quando lo zio era entrato nel recinto, erano suonate le campane della messa del mattino. In quel posto c’era stata già un’altra volta, il giorno in cui lui l’aveva chiamata e le aveva mostrato quattro creaturine appena uscite dal grembo della scrofa. Lei le aveva scambiate per quei topi che si vedevano nelle campagne: le zoccole grigie che al passaggio tagliavano l’erba nei campi. Lo zio si era messo a ridere come un pazzo e poi l’aveva obbligata a guardarle da vicino. Era stato allora che si era accorta dell’odore nauseante che emanavano. Si era lanciata comunque a sfiorarle, passando la mano sul loro dorso, ma si era sentita in colpa, perché non era riuscita a provare dolcezza per il fetore che le aveva bloccato il respiro. Quel giorno si era stupita nello scoprire che gli stessi animali impauriti che aveva conosciuto solo qualche settimana prima ora erano cresciuti così tanto: li aveva visti inseguirsi in un coro di grugniti isterici mentre la scrofa, la più grossa del branco, se ne restava sdraiata in un angolo a inzuppare le mammelle nel fango.
«Zio, a cosa ti serve il fucile?», gli aveva chiesto, ma non aveva fatto in tempo a finire la frase che lui aveva già preso la mira.
Il fragore dello sparo le era rimbombato nelle orecchie, ma era stato niente in confronto ai lamenti che avevano cominciato a diffondersi nell’aia. Il maiale era rimasto lì, riverso su un lato, in agonia, poi aveva scalciato un’ultima volta disperato, ansimando. Nel suo pianto Liberata era riuscita a cogliere qualcosa di umano. I piccoli si erano messi a correre impazziti, in cerca di un posto dove nascondersi. Il sangue, invece, si era confuso bene con la melma; lo zio Ronzino lo avrebbe utilizzato per farci le salsicce, rimestando la sua materia densa con quella aromatica del cioccolato.
Quando riaprì gli occhi, aveva le labbra arse di febbre. Si sollevò, cercando l’appoggio della spalliera; gli aghi di luce della persiana le disegnavano linee precise sul volto. Alzò le lenzuola e si rese conto che proprio sotto il suo ventre c’era una macchia rossa che si era allargata velocemente sul materasso, come un brutto presentimento.
Per lo spavento si mise in piedi, si avvicinò allo specchio e si vide diversa, stranita dai suoi seni che negli ultimi mesi erano diventati duri come nocciole; sulle gambe, le croste della notte intrecciavano strane fantasie.
Non sapeva bene se fosse quella la morte, se avesse il colore del sangue, la consistenza del fango. Le venne in mente solo l’odore dello zio che ritornava contento dal porcile e non riuscì più a trattenersi, vomitò sul pavimento.
La ritrovò la nonna Pietra. Mentre la sosteneva, Liberata sentì nella stretta delle sue mani un’energia nuova, un legame che riguardava quella complicità pungente di epidermidi.
«Va tutto bene», le disse e la portò fuori dalla stanza. A ogni passo nel corridoio, i muri della casa diventavano sempre più veloci. Ora Liberata si lasciava trascinare dalla nonna, la vedeva accanto a lei, fasciata nel suo vestito nero, un braccio sulla sua spalla e l’altro a cingerle il fianco. Quando alla fine si fermarono, immediatamente riconobbe la stanza degli sposi – come lei stessa l’aveva ribattezzata –, il posto dove, di notte, suo padre dormiva da solo. Sempre custodita nell’ombra, sopravviveva alla calura dell’estate per lo strano gioco di venti che da un lato e dall’altro la attraversavano. Le tende bianche che adornavano le finestre si gonfiavano ogni volta come vele, lasciando intravedere i colori del giardino.
Sulla sinistra rivide il bacile che il papà aveva utilizzato tante volte per rinfrescarsi il viso. Immagini familiari le ritornarono precise nella mente: capelli bagnati, pelle sudata e l’arco ampio delle sue braccia che si apriva per accogliere sul petto e sotto le ascelle l’acqua fresca della notte.
Una volta Salvatore le aveva raccontato di aver visto due corpi nudi che si univano.
Aveva staccato dallo scoglio un dattero di mare con il suo martello e lo aveva aperto vicinissimo ai suoi occhi, avendo cura di non rompere i due gusci che si riunivano in una simmetria perfetta. «È così che fanno i grandi», le aveva detto lui, e con un gesto premuroso aveva lasciato che tutto si chiudesse sotto la pressione delle sue dita.
Era rimasta colpita dalla storia, ma l’immagine del mollusco schiacciato tra l’indice e il pollice le aveva messo addosso un senso di angoscia. L’amore non poteva essere quella trappola, si era convinta allora; di sicuro doveva trattarsi di qualcosa di diverso; forse un fiore che si schiude, il petalo, e poi la pioggia che si posa sopra.
Scacciò quei pensieri quando vide la nonna ritornare con un catino fra le mani.
Mentre le passava la spugna, procedendo dalle spalle fino alle caviglie, Liberata si sentì avvolta da un tepore uterino, un attrito piacevole che le lavava via i sogni della notte. Chiuse gli occhi e di nuovo si immaginò Salvatore, la stretta tra le dita di quel dattero di mare: pensieri maliziosi le percorsero la schiena.
Poi la mano d’un tratto si fermò, e allora rivide la nonna con i capelli arruffati che le sorrideva. Le sembrò più alta di come se la ricordava, aveva sulla faccia l’espressione di certi anniversari felici. Le porse un asciugamano e lasciò che fosse lei a finire il lavoro da sola; quando fu pronta, afferrò un panno di cotone ripiegato, una di quelle fasce utili a fare i bagnoli per la febbre. Glielo sistemò lei stessa in mezzo alle gambe, indicandole il comò dove aveva lasciato il resto della scorta. Il cambio si doveva fare ogni due ore, le spiegò, ma bisognava controllare che niente si sporcasse, ogni donna era fatta a modo suo, questo lei non poteva prevederlo. Dopo che finì di pulire tutto quanto, la nonna si avvicinò e le diede uno schiaffetto sulle guance, perché era così che si faceva quando una diventava signorina. Liberata annuì, non disse nulla, ma quel fatto le sembrò una cosa senza senso. Si limitò ad abbracciarla e lei ricambiò. Poi la vide scomparire dietro la porta in tutta fretta, veloce e sicura come quando era arrivata.
(Foto)