Processo agli scorpioni

srebrenica

Un anno fa ci lasciava Luca Rastello, giornalista e scrittore italiano tra i più decisivi e incisivi degli ultimi tempi. Di seguito pubblichiamo un capitolo dal libro Il presente come storia, uscito per le Edizioni dell’Asino, che ringraziamo (fonte immagine).

di Luca Rastello

Sarebbe bello se ogni catastrofe si annunciasse tra fiamme e squilli di tromba, con i segni distintivi dell’eccezionalità e dell’unicità. Ma non è così. Quando arriva, la catastofe, di solito si insinua senza farsi notare fra le pieghe della vita quotidiana, fra un battibecco sull’adeguatezza o meno degli abiti che indossi e il disagio per una battuta infelice pronunciata da una persona di cui avevi fiducia.

Così è la guerra: una cosa che scoppia mentre vai al mercato, mentre pensi a un datore di lavoro insensibile o a una frase memorabile da dire a un partner in amore, una cosa che cambierà la tua vita, l’idea stessa che hai di te stesso, i concetti fondamentali su cui hai basato la tua esistenza: cittadinanza, diritti, o cose più assurde come “Europa” o “Giustizia”, cambierà magari anche la geografia, le mappe del tuo continente, cancellerà città e vite umane, ma intanto si annuncia mimetizzata in un groviglio di eventi quotidiani e banali da cui è così difficile distinguerla. Eppure in quel momento inavvertito è segnato un punto di non ritorno per un’intera civiltà.

Qui si parla, se non della catastrofe, certamente di un infelice punto di non ritorno per le illusioni maturate negli anni scorsi sulla giustizia e sul diritto internazionale. Certo, antefatti significativi non ne sono mancati: probabilmente il più evidente fu il fallimento della Commissione di indagine sui crimini di guerra della Nazioni Unite presieduta da Tadeusz Mazowiecki negli anni, cruciali per l’Europa, della guerra di Bosnia.

Mazowiecki, dopo aver denunciato il tentativo di genocidio operato nella zona di Prijedor, dopo aver invano criticato la politica delle “aree protette” (quella che portò al disastro di Srebrenica di cui Jasmina Tesanovic parla in Processo agli scorpioni. Balcani e crimini di guerra. Paramilitari alla sbarra per il massacro di Srebrenica, Stampa Alternativa 2009) sostenendo che se la Nato e l’Onu avessero continuato a minacciare interventi che non avevano chiaramente intenzione di compiere ciò avrebbe “rafforzato la convinzione di impunità dei carnefici”, dopo aver denunciato per nome e cognome gli artefici a tutti i livelli delle pulizie etniche del 1991-92, dopo aver segnalato e puntualmente documentato le condizioni disumane e i massacri delle “enclaves” di Zepa, Gorazde e Srebrenica, non potè far altro che dare le dimissioni, davanti a una guerra di sterminio che ai suoi occhi godeva della tacita benedizione della cosiddetta comunità internazionale: “Oggi – dichiarò – ogni affermazione riguardo la difesa dei Diritti perde la sua credibilità. Questo – si riferiva a Srebrenica – è un abbandono dei principi dell’Ordine internazionale”.

Era il cuore dell’estate del 1995, nel resto d’Europa un caldo canicolare spingeva la gente al mare, sui moli si cuocevano grigliate e fritti misti. L’ulteriore punto di svolta, verso il basso, è assai più recente e può essere collocato fra due date tanto capitali quanto ignote al grande pubblico europeo: 26 febbraio 2007 e 10 aprile 2007.

Parte dei fatti è nota: riguarda il massacro compiuto nei giorni successivi al 10 luglio 1995, quando la piccola città di Srebrenica, in Bosnia orientale, affollata oltre l’umano di profughi e assediata da tre anni, fu letteralmente consegnata nelle mani dei macellai nazionalisti serbi comandati da Ratko Mladic. Oltre ottomila prigionieri inermi furono assassinati a freddo, per ordine di Mladic e forse di qualche dirigente serbo ancora più influente: tutti impuniti, da Mladic in su, tutti latitanti a tutt’oggi con l’eccezione di Slobodan Milosevic morto prima di essere giudicato all’Aja.

Su quella vicenda, tanto chiara e vistosa, calò un incomprensibile velo di fumisterie, distinguo verbali, ghirigori pseudo intellettuali (anche d’autore, come nel caso di Peter Handke, per altri versi grandissimo scrittore ma tanto accecato da riuscire a vedere durante un suo viaggio del 1995 il fumo di villaggi incendiati nel 1992: inestinguibile fumo del pregiudizio mascherato da svelamento e inesauribile scia di danni lasciata dalle teorie del complotto) e il risultato fu che ben pochi dei colpevoli, e tutti di secondo piano, ebbero una condanna.

Ma il primo giugno del 2005 avvenne qualcosa che scosse finalmente le coscienze intorpidite: una testimonianza inequivocabile di come si fossero svolte le cose dieci anni prima a Srebrenica. Un filmato di pochi minuti mostrava l’esecuzione a freddo, dopo maltrattamenti e torture, di sei prigionieri musulmani, per lo più minorenni, da parte delle truppe paramilitari serbe chiamate “Skorpion”: fu reso noto da Natasa Kandic e dalle Donne in Nero di Belgrado che fin dall’inizio del conflitto si erano battute per un’azione di pace, verità e giustizia al di sopra delle bandiere nazionaliste. Il video fece il giro del mondo, e fu uno shock in particolare per la società serba, tendenzialmente autoindulgente, che si trovò per la prima volta di fronte i volti delle vittime, i metodi brutali dei carnefici (identificabili nei rispettabili vicini di casa di tutti i giorni), le sofferenze di condannati a morte cui era negato anche solo bere un po’ d’acqua.

Questo infranse il silenzio su Srebrenica che durava da anni, spazzò via l’interpretazione ufficiale secondo cui solo alcune centinaia di persone erano state uccise illegalmente, mentre tutte le altre erano morte in battaglia. Il filmato non lascia spazio a dubbi: i volti delle vittime e quelli dei carnefici sono in chiaro, in primo piano, le loro azioni evidenti, scandite dal commento dell’operatore che si raccomanda di rispettare, nella sequenza delle brutalità, i tempi della batteria che alimenta la telecamera: si sta scaricando e lui non vuole perdere nemmeno una scena.

Si aprì dunque un processo: per la prima volta a Belgrado erano alla sbarra i paramilitari che, dopo avere seminato morte, stupro e violenza nelle regioni vicine, si erano riciclati in clan malavitosi a spese della stessa Belgrado. Jasmina Tesanovic racconta i giorni di quel processo, non con le sole armi dell’analisi, lucida e spietata, ma anche con il carico emotivo, con la consapevolezza della vita quotidiana invasa dalla Storia nella sua forma peggiore.

Racconta i brividi che percorrono la sala, l’atteggiamento dei parenti degli imputati, spavalderie, menzogne, timidezze di questo periodo di illusione nella giustizia culminato nella primavera del 2007. E racconta le sentenze: la prima il 26 febbraio, il tribunale dell’Aja per i crimini di guerra dichiara che la Serbia non ha responsabilità per tentativi di genocidio, che il genocidio riguarda la sola Srebrenica e non l’intera Bosnia, che neppure gli “Skorpion” sono responsabili se non di non avere impedito il genocidio, che non devono essere pagati danni alla Bosnia aggredita, che la Serbia deve solo collaborare con l’Aja alla cattura di Ratko Mladic e Radovan Karadzic (una barzelletta di cui a buon diritto le autorità serbe amano mostrare quanto se ne infischino).

Via libera per la seconda sentenza (facciamo in tempo ad assistere a una lieve variazione nell’atteggiamento della giudice belgradese, improvvisamente sarcastica verso i “poco virili” atteggiamenti di un miliziano che si è sottratto alle esecuzioni), quella per gli “Skorpion”, che arriva il 10 aprile: non ci sono prove per condannare i paramilitari per concorso in genocidio, ciò che è accaduto a Srebrenica non è che “un turbine nella tempesta della guerra”. In un’intervista Natasa Kandic, a cui si deve la pubblicazione del video, ha detto: “La Corte ha lasciato nuovamente sconcertata la società serba: uno degli ‘Skorpion’ è stato rimesso in libertà, un altro condannato a soli cinque anni, solo due sono stati condannati alla massima pena… E così questo processo, che era cominciato con una grande speranza, cioè che la verità giudiziaria sarebbe stata un’autentica verità, che avrebbe spiegato davvero cosa sono gli ‘Skorpion’, che hanno agito come istituzioni criminali di Milosevic, che sono stati mandati a partecipare al genocidio di Srebrenica, si è concluso senza che nulla di questo si verificasse.

Loro sono stati condannati per un omicidio, ma il processo non ha neppure chiarito da dove venissero le vittime, la conclusione è stata una specie di elemosina, e una grande mancanza di rispetto verso le vittime. La verità ufficiale ha mistificato quello che è avvenuto in Bosnia. Alla fine, gli ‘Skorpion’ sono serviti al Tribunale Internazionale come prova per arrivare alla conclusione che lo Stato serbo non ha partecipato al genocidio”.

Un avvocato difensore commenta trionfante: “Se la Serbia è innocente gli ‘Skorpion’ sono i suoi protettori”. Quanta tremenda verità ci sia in questa semplice implicazione logica è ancora da scoprire, non mancheremo di registrarlo nei tempi a venire, si parli o meno di Europa e di altre astrattezze care agli anni novanta e al wishful thinking internazionale.

Nel frattempo, con quella che Jasmina definisce “sconfitta della condizione umana”, la paura è tornata a serpeggiare fra i cittadini di Belgrado, le milizie-clan si considerano i vincitori morali e i fatti, anche quelli che si registrano nelle aule dei tribunali, confermano che lo sterminio di popolazioni civili inermi si è rivelato negli ultimi decenni non un incidente ma una tecnica di straordinaria efficacia dotata di razionalità pratica capace di rispondere nel più moderno dei modi a esigenze di carattere politico, economico e sociale e di conservazione di potere da parte sia di dittature in vecchio stile sia di quelle rappresentazioni spesso svuotate di rappresentanza che ci ostiniamo a chiamare “democrazie”.

Lo dimostra Srebrenica, lo dimostra a parti invertite la condiscendenza nei confronti del tentato sterminio di serbi in Kosovo, lo dimostrano mille situazioni sparse per il globo e decine di annessi teatrini giudiziari. Di fronte agli sconvolgimenti che una vera applicazione di giustizia per crimini di guerra porterebbe agli equilibri di potere vigenti, pare che il cosiddetto Occidente opti, nei fatti, sempre per il “male minore” rappresentato dall’oblio sostanziale, dal rispetto dello statu quo, illudendosi, come ha scritto Guido Rampoldi, “di instaurare la ‘stabilità’ anteponendola ai diritti umani. E creando invece le condizioni per una destabilizzazione cronica, perché la condiscendenza verso le violazioni più sinistre finisce per convalidare codici di lotta politica suscettibili di estendersi agli incerti codici delle relazioni internazionali”.

Come dire: nel nome della “stabilità”, ci è chiesto di vivere nell’inferno della guerra permanente. Nel frattempo il tribunale di Belgrado che ha scagionato gli “Skorpion” emette un mandato di cattura per Selim Beslagic, sindaco di Tuzla, la sola città che nell’abisso della guerra bosniaca ha resistito alle sirene di ogni nazionalismo rigettando le divisioni e sopportando, nel nome della convivenza multiculturale, tre anni di sanguinoso assedio. Tanto per ricordare che la condizione in cui si vuole tenere il cosiddetto diritto penale internazionale continua a essere la notte in cui tutti i gatti sono bigi.

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